Persone che hanno nomi di morti

di Lorenzo Barberis

Qual era il nome di quel pesce corazzato del Devoniano? Quello che chiesi a mia madre per il compleanno, quello per cui piansi quando mi rispose che era estinto da duecentosessantacinque milioni di anni? Quale pensi che sia il motivo per cui non riesco a ricordarlo? Ha a che fare con quella sera in cui bevemmo un’intera bottiglia di Famous Grouse? È plausibile che io in quel momento ti avessi detto il nome esatto? Genere, specie, epoca geologica? O avevo già bevuto troppo per dire qualcosa di sensato? Avevi l’impressione che stessi cercando di fare colpo? Che forse in realtà non si trattava nemmeno del Devoniano, ma del Siluriano? Del Carbonifero? Stai parlando di quella sera alle autorità? Stai facendo il mio nome alla Corte Internazionale di Giustizia? Hai intenzione di esporre la leggenda diffusa dai miei compagni di dormitorio sull’odore dei miei piedi? Credi che io avessi già capito che ti piacevano i narcisisti? O puntavo invece sul tuo amore per la natura? Quanto dovevamo aver bevuto al nostro primo appuntamento per parlare di esoscheletri e di pesci paleozoici? Una sola bottiglia di Famous Grouse, magari due? Ti immagini se avessimo scolato due intere bottiglie, e invece di inciampare e trascinarci a vicenda giù dal pendio erboso, non ci fossimo mai alzati? Se a quel punto fossimo svenuti – come in un profondo coma etilico – per svegliarci la mattina dopo con un carlino che ci leccava la faccia, con un vecchio che portava fuori il sacco del vetro? Non sarebbe stato più facile? Che giorno era? Quanti preservativi avevi nella borsa? Avevi scrutato la luna? Quale pensi che fosse la relazione tra il whisky e tutto il resto? Sarebbe stato lo stesso da sobri? Avrei avuto l’accortezza di non venirti dentro? In quale fase lunare ci trovavamo? Crescente? Calante? Stabile? Sei sicura che quei preservativi non fossero scaduti? Con che cosa li fanno oggi? Li hai usati molte volte in quella settimana? A quanti seminari avevi partecipato? Perché avevi deciso di non tornare a casa? Di vederci direttamente nel campus? Non avevi paura che – attratto dal prato – mi sarei tolto le scarpe? E i calzini? Che avresti pensato che i miei colleghi avevano ragione? Che l’odore dei miei piedi sembra venire da un altro mondo? Dall’aldilà? Perché non hai detto niente? Sei stata educata a non badare ai difetti altrui? Tuo padre ti ha dato uno schiaffo quando hai detto che la signora grassa che passeggiava davanti a voi, in spiaggia, era una cicciona? È grazie a quella cicciona che sei stata gentile con me? Che hai fatto finta di interessarti ai miei fossili? Lo sai che ascoltiamo sempre un podcast sui dinosauri? Che quando June vede la carcassa di un gatto lungo la strada, mi chiede se è un branchiosauro? Mi chiede proprio: è uno pterodattilo? È un velociraptor, papà? Tu lo diresti alla piccola June che abbiamo ucciso noi quel gattino? Tutti quei gattini? Che nonostante tre dottorati in due, rotolavamo giù dalla collina come una coppia di cuginetti incestuosi, che ridevamo per il trifoglio che ti si era infilato in una narice? Te la sentiresti di spiegarle che anche uno specializzando in osteologia archeologica può avere un’erezione? Per così poco poi? Ti ricordi cosa dicesti? Ti porti il lavoro nei pantaloni, doc? Ero già scalzo in quel momento? Non avevi paura che il Magnifico Rettore potesse vederti così? Era lecito introdurre alcolici nel campus? Ti avevano già beccata prima? A fumare da una bottiglia di plastica? A frugare nelle mutande di una studentessa in Erasmus? Come è possibile che la più grande virologa della costa orientale non conoscesse il nome del più grande pesce corazzato del Devoniano? Non ti sembra strano? Non dovrebbero almeno nominarlo in questo vecchio podcast sui dinosauri? Perché mi sembra di essere l’unico interessato a questo argomento? Pensi che due disgrazie accadute in uno stesso istante equivalgano a un miracolo? Che meno per meno, più? Per quale motivo volevi mostrarmi il padiglione di ricerca? Non potevi semplicemente slacciarmi i pantaloni e cavalcarmi sul prato? Che cosa avrei dovuto dire di tutte quelle celle frigorifere?  Di tutti quei “non aprire”? Di tutti quei teschi stilizzati dentro triangoli gialli? Cosa se ne fa uno che vive di ossa e polvere di tutti quei liquidi e tessuti? Non avevi freddo? È possibile che le basse temperature congelino il lubrificante? E che una volta trasformato in brina, questo buchi il lattice? Quale pensi che sia il rapporto tra la termodinamica e quello che è venuto dopo? Non sei nemmeno un po’ stupita che io stia guidando una macchina? Che tua figlia, qui dietro, stia sonnecchiando mentre ascolta un podcast sui dinosauri? Chi ha chiamato quel padiglione Padiglione June Almeida? Te li fanno ascoltare i podcast in prigione? O ti tocca ascoltare tutto il giorno le tue compagne che trattano il prezzo delle sigarette? Qual è il tasso di mortalità nella nazione dove ti hanno esiliata? La curva di contagio è alta? Non ti pare ridicolo che io, scalzo e sudato in quel laboratorio, non abbia preso nemmeno un raffreddore? Pensi che io avessi abbandonato le mie scarpe sulla collina del campus? Le “bare”, come le chiamavano i miei colleghi? Ti piaceva l’idea di scopare guardando quella moltitudine di fluorescenze? È per questo che non hai acceso la luce? È per questo che facevamo l’amore a tre gradi sotto zero? Per evitare che l’odore cadaverico dei miei piedi ti uccidesse la voglia? Non pensi sia un falso mito questo del freddo che attutisce gli odori? Secondo te la piccola qua dietro lo ha capito che tutti quei gattini non sono morti investiti da un camion? Che non li ha rincorsi un cane cattivo? Hanno già fatto un podcast su di te? Dove lo trovo? Hai già raccontato di come ti dimenavi, e spaccavi le fiale, e rovesciavi le provette? Di come ti leccavi le dita prima e dopo? I tuoi interrogatori hanno già portato a definire un rapporto tra coito e strage? Tra sperma e genocidio? Siamo sicuri che sia proprio io il padre di June? Quanto pensi che dovrò andare avanti con questa storia che quelli lì lungo la strada, cotti dal sole e diminuiti nei loro stessi vestiti, sono dei micetti? A che velocità dovrei andare per evitare con prudenza tutte queste auto abbandonate sulla superstrada? Pensi che June sarà più da ossa, o più da microrganismi? Mi chiederà mai di te? Hai mai realizzato che tutti noi, esclusi gli animali, anche quelli scomparsi da millenni come il pesce dotato di esoscheletro del Devoniano, ed escluse le figlie delle pop-star americane che vengono battezzate con strane combinazioni di piante e costellazione, tutti noi altri che si scopa quando si può e si scappa quando si deve siamo nati con già addosso il nome impronunciabile di un morto?

 

 

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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