Quando i pesci hanno i piedi

di Romano A. Fiocchi

Antonio Vangone, Bosco, déclic edizioni, 2024.

La copertina è così: accattivante ma nuda, senza titolo, né autore, né editore. Che sono però sul dorso con caratteri che sembrano il loro riflesso tremolante nell’acqua. Scelte editoriali di Déclic, neonata casa editrice di Perugia ideata da Carlo Sperduti. Dietro questa copertina minimalista, ci sono ventisei racconti brevi di Antonio Vangone, millennial del 1995. Il titolo della raccolta è Bosco. Nessuno dei racconti si intitola così. Sono piuttosto gli stessi, tutti insieme, a formare il ‘bosco’: una proliferazione di storie, ciascuna con le sue ramificazioni e le sue germinazioni improvvise. Un ‘bosco’ di racconti entro cui la lettura del mondo – specie quello urbano – assume forme imprevedibili, talvolta surreali, e perciò anche umoristiche, proprio perché riflettono il contrario di quello che dovrebbe essere la realtà (Pirandello docet).

Per effettuare questa trasformazione, Vangone ricorre spesso a manipolazioni del linguaggio, espandendolo o contraendolo, costringendo il racconto in forme verbali rigide di gusto oulipiano. Troviamo così racconti composti da soli aggettivi femminili plurali privi di punteggiatura e di qualsiasi predicato (Disappunti di Camilla Peluso), racconti narrati con un solo o al massimo due modi verbali (infinito presente in Cavaliere di giugno, gerundio e futuro semplice in Condominio “Parco dei pini”, gerundio presente in Canalizzare il piccione), racconti in cui asserzioni nette scatenano domande o viceversa, come in Salvatore vittima («Da quando Salvatore non sogna? Quando Salvatore non sogna, Salvatore si sveglia spaventato – lo spavento sveglia Salvatore – la sveglia lo salva dallo spavento» … «Eppure è la legge. Cosa stava leggendo?»).

Il rimboschimento letterario di Vangone non si avvale solo della manipolazione del linguaggio, che renderebbe i racconti pura sperimentazione tecnica, ma interviene sulla narrazione, come si è accennato più sopra, attraverso distorsioni della realtà che ne alimentano nuove chiavi di lettura. L’ambiente lavorativo di Nella grotta viene deformato con l’impiego di metafore e di immagini appunto surreali: il capo è un gamberetto con mille spilli che conficca nella nuca dei subalterni. Nel Condominio “Parco dei pini” gli inquilini compiono gesti e azioni dormendo. Nella «cameretta di legno tinta di bianco e di rosa» del racconto Gli occhi, è la fantasmagorica apparizione di un occhio sulla fronte di un neonato a colorare di magia il presentimento di un evento terribile.

Un altro vincolo strutturale, forse meno evidente ma che caratterizza tutti i ventisei racconti, è l’assenza assoluta di dialoghi. Al massimo si trovano discorsi indiretti del tipo: «Solo una volta gli chiese di fare a metà», «lo domanda a un ragazzo di vent’anni», «Sente una vicina chiedere cosa facciano sempre lì davanti». Tutto viene raccontato da una voce narrante in terza persona, lungi da qualsiasi forma di autofiction (una mia nota personale: finalmente un autore giovane che scrive così!). I protagonisti sono spesso soggetti anonimi, come «l’uomo molto anziano» o «il ragazzo dorato», o addirittura vengono indicati unicamente nel titolo, come nel caso di I duellanti di piazza Vargas, tant’è che all’interno del testo troviamo solo espressioni prive di soggetto: «Non duellarono mai», «Non si fecero mai troppo male», «Non ne parlarono mai con nessuno». Insomma, non si saprà mai chi sono.

È un mondo eterogeneo ma compatto di storie quello che germoglia nel ‘bosco’ di Vangone. Lo popolano i già citati inquilini di condominio che vivono dormendo, ragazzi dorati, ma anche fotografi con la forfora che costruiscono album di famiglia, robot che compongono haiku, astronomi dilettanti che battezzano con nuovi nomi le infinite lune di Giove, suore che fabbricano mattoni, pesci con i piedi e comignoli che diventano corvi, piccole isole nebbiose che si chiamano Piccola Isola Nebbiosa (qui si gioca di nuovo sul linguaggio, assegnando alle cose un nome proprio ‘trivocabolo’, come appunto «la Piccola Isola Nebbiosa», oppure «il Largo Golfo Scuro», «gli Annoiati Turisti Delusi», «l’Arido Mare Brumoso», «le Luminose Insegne Elettriche», e così via). C’è anche, nel racconto Immersione, un omaggio al gusto futurista nell’effetto visivo del carattere tipografico: «LA GRANDE DISTANZA», «Il corsivo ricorsivo», «Una strada è sbarrata», «Quattordici vie uguali» ripetuto quattordici volte. Tutto questo velato di sottile ironia.

Ma se l’ironia bene o male è sempre presente, in alcuni racconti di Vangone affiora un’assenza che si impone come una sua cifra stilistica. È una specie di punto vuoto, un anti-Aleph che sostiene il meccanismo narrativo, in pratica un dettaglio importante che viene intenzionalmente omesso. A volte il lettore non se ne rende neppure conto. Come, ad esempio, in Nuovo testamento, dove le vicende del cartello finiscono per accantonare la domanda più logica e fondamentale: qual è il contenuto dell’iscrizione? Oppure nel racconto Guardare il sole, dove l’anti-Aleph si incarna nell’assenza di una spiegazione: perché i pesci con i piedi? E perché, quando sono scomparsi i pesci, è la volta dei comignoli trasformati in corvi? Dove accadono questi fenomeni surreali? Nel ‘bosco’ di Vangone, ovviamente. Del resto basta leggere l’incipit dello stesso Guardare il sole per comprendere come, tra quella rigogliosa vegetazione letteraria che forma il ‘bosco’, tutto sia possibile senza dover fornire alcuna spiegazione:

«In un mondo vecchio come il nostro, la notizia che nella fontana ci fossero dei pesci coi piedi fece presto il giro. La fontana è lì da sempre, bassa e obliqua, vuota o piena a seconda di chi dovrebbe ricordarsene, grigia, stesa all’angolo di una piazza altrettanto grigia popolata da cani senza guinzaglio e lettori di quotidiani, eclissata dalla brutta statua del limite ignoto e dalla strana sfera che dovrebbe rappresentare la Pace, circondata di manifesti gualciti, necrologi avvisi pubblici nuove aperture.

Non si capì chi mise i pesci nella fontana e perché avessero i piedi, da dove vennero e se arrivarono con i loro stessi piedi. Nessuno si domandò perché i pesci avessero scelto di restare nella fontana e questo credo fu un grosso errore. Li sottovalutammo, credo, perché parlavamo e non ci ascoltavano, li guardavamo ma loro non ci guardavano: preferivano guardare il sole». […]

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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