La pietra di scandalo della modernità. Octavio Paz e la poesia

 

 

Su Octavio Paz, L’altra voce. Poesia e fine del secolo, a cura e con un saggio di Massimo Rizzante, Milano, Mimesis, 2023 (qui ne avevamo pubblicato l’introduzione).

di Neil Novello

Quando Octavio Paz si interroga sull’atto poetico, sulla poesia come prassi, la domanda immette l’autore di L’altra voce. Poesia e fine del secolo in una terra «assai ambigua». Così la dubbiezza di Paz, scaturita da un quesito riguardante la pratica della scrittura versale, pur apparendo infine meno compromessa con l’ambiguità rimane pur sempre irrisolta. Se l’atto poetico è un «esercizio», la poesia resta una forma indefinita, un «mistero». L’atto scrittorio del poeta, dal lato dell’esperienza esprime un’azione, dal lato del suo significato profondo dà vita a un enigma. Allora la parte di «attività», il poetare, è un esercizio misterioso, qualcosa che richiama il lavoro dell’artista e lo statuto dell’arte. È qui espressa una realtà esperienziale innominabile perché limitrofa al «sacro». Alla fine del volume, nel saggio I pochi e i molti, pensando alle «poesie» Paz scrive che «si tratta di oggetti fatti di parole destinati a contenere e a secretare una sostanza impalpabile, refrattaria a ogni definizione, chiamata poesia».

L’altra voce è un libro in cammino nella sacralità poetica. Quel che però chiarisce in Paz la logica dell’itinerario critico, fin dal primo contributo del volume, Raccontare e cantare (Sulla forma lunga della poesia) del 1976, illumina il lettore sulla volontà di capire la sacralità del verso osservando il testo, la sua forma al di qua del significato. Intorno all’interpretazione tecnica della cosiddetta «poesia lunga», Paz compie un’incursione verso le origini risalendo al «poema epico» di Omero. Qui la poesia – l’omerica o anche l’esiodea e la virgiliana – espone una forma «lunga» e un contenuto, l’espressione di un contenuto, che si manifesta nell’«oggettività del racconto». Così il poeta «oggettivo» guarda al mondo come a una realtà in sé compiuta, perché il reale gli appare come qualcosa di finito, di confinato entro il perimetro dell’impersonalità.

Non vi è dunque faglia nel mondo chiuso della scrittura versale impersonale, non un’apertura in cui il poeta che scrive sia anche colui che si scrive. È un problema di assenza antilirica o di presenza, di scrittura impersonale oppure personale. Quest’ultima determina una concezione del poetare come terra non più separata, straniera, ma come scena dell’«io». Per Paz, l’allegoria nella Commedia è proprio quella faglia in cui la «storia di Dante», l’emblema dell’homo viator, il pellegrino singolare e universale, si fa sostanza nell’«io» del poeta, quel «corpo» vivo di Dante-personaggio dell’Inferno che nella Poesia della Divina Commedia così tanto sbalordisce Singleton. L’Ulisse omerico o l’Enea virgiliano o più indietro nel tempo il viaggio di Gilgameš nell’altro mondo, anche al momento della nekyia non genera allegoria. Nella fictio letteraria si resta radicati alla letteralità. Alla luce dell’epica classica, Paz legge la letteratura rinascimentale, l’Orlando furioso di Ariosto e la Gerusalemme liberata di Tasso, quali capostipiti dell’«epica fantastica italiana». Le opere figurano l’esito di una metamorfosi in confronto alla concezione epica classica determinando così un confine tra due mondi. Da un lato, troviamo l’epoca greco-latina e l’umanistico-rinascimentale, dall’altro la modernità letteraria.

Nella storia della forma poetica «lunga», la modernità inizia con il Paradiso perduto di Milton. Il topos della caduta di Lucifero permette al poeta messicano di cogliere l’avvento del moderno, perché l’«infinito cosmico», l’infinito precipitare di Satana non appare un mero volo celeste. Esso esprime soprattutto una caduta nell’«infinito psichico» del grande peccatore di Dio. Anzi la modernità letteraria si identifica alla maniera di una ferita nel cuore del finito, del concluso, perché decreta una nuova apertura estetico-ontologica. In essa, il creaturale è un resto, quel che resta di una realtà colta dopo l’infinito geografico, quando diviene infinito interiore. Il Romanticismo inaugura la modernità. E la poesia romantica è moderna, perché l’«elemento soggettivo» non è più neanche l’«io» allegorico di Dante ma qualcosa di diversamente creaturale. Paz porta al centro della scena il Don Juan di Byron. L’allegoria qui è diventata una «maschera simbolica», perché il «tema» dell’opera ora è il «poeta stesso», e Don Juan è la «persona» di quel poeta. La modernità romantica di Byron è colta dunque nell’inedita sovrapposizione di «poesia del poeta» e «poesia della poesia». In altre parole, essa sta in una nuova e duplice soggettività. Ma il mutamento che Paz definisce «radicale», e che costituisce il centro stesso della nuova poesia simbolista, si colloca in una concezione e insieme in un altrettanto nuovo sentimento. Il verso simbolista non «racconta» né «dice». Perde in letteralità disarticolando dall’interno la forma «lunga» in luogo di un’«estetica della poesia breve». E la stessa parola parlante è sostituita da una parola più silente. La poesia simbolista, anziché dire, «suggerisce». E il suo luogo estetico, il frammento, abolisce sia l’ecfrasi sia la narratività. Se il «miglior esempio della nuova poetica» è la calligrammatica Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897) di Mallarmé, con la sua vertiginosa mise en abîme tutta infinitamente aperta a una versificazione riflessa in se stessa, al «polo opposto» Paz colloca la soggettività di Canto di me stesso (1855) di Withman, con la sua vertiginosa «espansione dell’io poetico». Se Un colpo di dadi mallarmeano è il «canto del poeta solitario di fronte all’universo», il Canto whitmaniano è un testo corale, l’atto di «fondazione di una libera comunità di eguali».

Nel saggio del 1986, Rottura e convergenza, Paz guarda alla modernità entro un quadro dialettico tra la «critica» e l’«utopia». L’epoca in cui le due cognizioni definiscono un’esemplare cifra culturale è il Settecento. Se è vero che le «utopie sono i sogni della ragione», agli albori dell’età moderna la «critica» riguarda lo status quo ma anche un’idea di «futuro non dell’altro mondo ma di questo» mondo. Così se il Romanticismo opera per un «cambiamento» contro il corso culturale della modernità, per Paz l’«età Contemporanea» inizia propriamente dalla crisi del moderno. Anzi quella crisi si cristallizza nello «Stato burocratico totalitario» e nella formidabile accelerazione del progresso scientifico. Quando Paz scrive che l’«arte e la letteratura sono forme di rappresentazione della realtà» rivela lo specifico della modernità. È pertanto la «rappresentazione della realtà» a dare luogo alla poesia moderna.

Tra Baudelaire e Poe, il topos creaturale del moderno è l’uomo «solitario nella folla», l’uomo solo socializzato alla macchina. E anche qualcosa in più. A riguardo, Paz intende la possibilità tecnica di riprodurre, secondo l’arcinota categoria di Benjamin, la facies tecnica dell’arte. Ma l’arte del XX secolo non si riproduce soltanto, riproduce lo spirito del nuovo secolo. In pittura, tra il Cubismo o la decostruzione dello spazio e l’avanguardia futurista o la dilazione del tempo, la riproduzione del moderno non riguarda soltanto la possibilità tecnica della produzione seriale, richiama anzitutto l’evoluzione tecnica dello stile artistico in sé.

L’arte ora espone lo Zeitgeist. Ma lo spirito del tempo, la parte di critica al progresso nel discorso di Paz, guarda alla modernità, all’idea di «futuro come terra promessa», per trovare che la crisi di tale cognizione nasca dall’empito scientifico proprio al moderno. Esso, con le «armi atomiche» e la «bomba» fa «evaporare letteralmente la nostra idea di progresso». E ciò perché se la «bomba non ha distrutto il mondo», nell’idea di Paz certamente ha «distrutto la nostra idea del mondo». Per il poeta messicano, l’illusione del progresso, l’inganno della modernità, nel XX secolo si è riflessa e rivelata nell’impossibilità di naturalizzarsi nell’arte moderna. E ciò perché la «fine dell’idea dell’arte moderna» si manifesta nel rinnegamento di una «promessa», alla fine rivelatasi una colossale impostura. Tra il postmoderno e l’«ultramoderno» si gioca dunque la partita terminologica per identificare l’età contemporanea, lo scorcio del XX secolo. Per Paz, che scrive nel 1986, l’epoca di fine secolo non viene dopo il moderno ma è la plastica rappresentazione della sua agonia. Così «ultramoderno» vuol dire estenuazione del moderno, sua crisi determinata dall’inettitudine al rinnovamento: è la riduzione dell’opera a serialità, a prodotto di iterazione.

Nel 1989, quando Paz riceve il Premio Tocqueville, scrive il «discorso» per la cerimonia, Poesia, mito, rivoluzione. Qui si fornisce, in senso retrospettivo e autobiografico, l’immagine riassuntiva sia di Raccontare e cantare (1976) sia di Rottura e convergenza (1986). È il modello di una figura intellettuale rivissuta, in particolare, nella «libera partecipazione del poeta agli affari della città». Soprattutto Rottura e convergenza, nella sua critica alla modernità, sintetizza il ruolo del poeta al di là della poesia o, attraverso essa, dinanzi alla realtà. «L’Età Moderna ha rotto l’antico vincolo che univa la poesia al mito, ma solo per unire la poesia all’idea di Rivoluzione» scrive Paz. Alla poesia non è più affidata la rivoluzione ma la sua «idea». Anzi il poetico diviene pensiero, la possibilità stessa di pensare in modo rivoluzionario ciò che cade entro il perimetro epocale dello status quo. Perché «attraverso la bocca del poeta parla – e sottolineo parla, non scrive – l’altra voce» scrive Paz, la parola, il monito di un oracolo alla fine del mondo, una parola di risveglio nel sonno della menzogna.

Poesia e fine di secolo è la terza e ultima parte del libro. Quattro i testi di Paz: I pochi e i molti, dedicato al libro, al lettore di versi e al lettore generico; Quantità e valore, riguardante il destino contemporaneo della poesia; Bilancio e pronostico, sugli antidoti per la sua auspicata rinascita, e L’altra voce, su un sogno palingenetico o soteriologico, la scrittura poetica come «fraternità cosmica». A differenza dei precedenti, sine data, Paz termina di scrivere L’altra voce a Città del Messico il primo dicembre 1989. È il tempo in cui in Europa un mondo sta finendo per rivelarne un altro. A proposito della lettura, l’esperienza che implica l’intero discorso di Paz sulla letteratura sia come esplicito statuto ontologico sia come implicita proiezione verso la «fraternità cosmica», si legge:

Leggere è una pratica nemica della dispersione; leggere è un esercizio mentale e morale di concentrazione che ci porta in mondi sconosciuti che a poco a poco si rivelano la nostra patria più antica e più vera: è da lì che veniamo. Leggere è scoprire strade insospettate verso noi stessi: è riconoscersi.

Se è vero che i «poeti sono i figli ribelli della modernità», lo stesso lettore ricapitola l’atto di ribellione del poeta e della sua opera. Così un contributo come Quantità e valore si pone in continuità al discorso di I pochi e i molti. Paz riannoda cognizione a cognizione e ritorna ai «lettori di poesia», alla loro «quantità». Si ha l’impressione che si attribuisca all’opera in versi, e al lettore che ne permette l’esistenza, un valore appunto palingenetico, qualcosa di paragonabile a una terra promessa, a una venuta in salvamento dell’intera umanità. Ma Quantità e valore, oltre la «questione quantitativa» pone la domanda su «chi» legge versi. Non sorprende che Paz pensi, con riferimento all’antichità e all’età premoderna, al lettore come alla «testa» e al «cuore della società», al suo «nucleo pensante e dinamico». Ma l’età moderna, e ancora di più l’età «ultramoderna», nel nuovo attore dell’«industria editoriale» elegge anche l’effetto principale di una causa ancora misteriosa. Così se il «valore supremo» dell’industria editoriale è il «numero di acquirenti di un libro», il destino della poesia risiede nella distinzione tra la «logica del mercato» e la «logica della letteratura». Una distinzione improba, poiché la «logica del mercato» tende a «uniformare», a produrre, insieme al libro, anche il modello economico di un «solo e unico pubblico». E la scrittura poetica, la sua agonia e la stessa agonia del suo lettore, per Paz sono fenomeni da ricercare proprio nello strappo compiuto dall’«ultramoderno», dall’apertura allo «scientismo», alla religione del «qui e ora». Tutto ciò infligge un’impietosa etichetta di disvalore a un fondamentale valore culturale. La poesia – si legge in Bilancio e pronostico – non risponde al «criterio del profitto». È una via umana. Degradata ad «attività inutile» e a «passatempo obsoleto», in Bilancio Paz guarda a una sua auspicata rinascita partendo dalla funzione cosiddetta non multinazionale delle «case editrici indipendenti». Anche però da una pedagogia sociale, comunitaria e appunto fraterna cui si delega il compito di recuperare e la funzione di riattualizzare un cruciale valore culturale.

Allora un argine al «processo economico senza volto, senza anima e senza direzione», nell’ultimo scritto del volume, L’altra voce, potrà essere eretto da quegli «esseri solitari e anticonformisti» che per Paz sono i lettori di poesia. E i poeti. Coloro che leggendo e scrivendo versi si collocano accanto, anzi dentro un mondo poetico, identificano la «pietra di scandalo della modernità». Perché la «poesia è una voce antimoderna», una diversa realtà e un’altra esperienza. Il lettore e il poeta finalmente sono i portatori di una nuova ontologia, di un immaginario veramente umano, nell’auspicio di Paz non più e non solamente «anteriore» al nostro mondo ma proprio di questo nostro mondo.

 

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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