Alcuni appunti a margine di Milano-poesia
di Marilina Ciaco
Il volume di Eugenio Gazzola, Gli anni di Milano-poesia (Milano, Il verri edizioni, 2024) è stato presentato insieme all’autore da Barbara Anceschi, Biagio Cepollaro e Marilina Ciaco il 28 maggio presso la Fondazione Mudima di Milano.
«Non si esce vivi dagli anni Ottanta», cantavano gli Afterhours nel 1999, qualche anno dopo l’avvenuta fine del decennio reaganian-thatcheriano, già simbolo condiviso dell’egemonia del tardocapitalismo in Occidente e dell’imporsi della società dei consumi. Sin dalle prime pagine del ricco e documentatissimo volume pubblicato per «il verri», Eugenio Gazzola parla di «anni di “finali di partita”» (p. 5), «tempo di tempi andati. Di ripensamenti» (p. 15). Jean-François Lyotard nel celeberrimo saggio del ’79 intitolato La condizione postmoderna aveva coniato un’espressione tuttora pregnante, la fine delle «grandi metanarrazioni», mentre in chiusura di decennio, nel 1992, Francis Fukuyama non avrebbe esitato a parlare di «fine della storia» presagendo l’imminente crisi di un mondo ormai svuotato di senso, privato degli orizzonti valoriali che avevano animato i movimenti, le lotte, la proliferazione di idee e di prassi lungo quel secolo che si avviava al tramonto.
Per coloro che, come la sottoscritta, quegli anni non li hanno vissuti – per ragioni meramente anagrafiche –, il libro di Gazzola si rivela un prezioso strumento di ricerca letteraria, tra critica e storia della cultura, perché permette di scandagliare la complessità e le stratificazioni di un’epoca guardandola attraverso la specola di un fenomeno letterario, solo all’apparenza circoscritto. Se ci si sta chiedendo che cosa sia stato, in fondo, Milano-poesia, la questione è di non facile scioglimento, e si dovrà tener conto (come lo studioso fa) della possibilità, da parte della poesia, di occupare uno spazio (deterritorializzato) di resistenza e di rielaborazione critica del presente – una zona di confine. Sarà opportuno riflettere, in primo luogo, sulla sua natura di evento in senso forte, con tutte le implicazioni materiali e immateriali che questo comporta: la fenomenologia e gli sviluppi nel tempo di Milano-poesia riflettono appunto un carattere di assoluta immanenza, dove centrali saranno la partecipazione collettiva, il dialogo, la riflessione teorica “orizzontale”, relazionale e rizomatica, la verifica ininterrotta (e incerta) di modi, forme e tempi atti a esprimere una “necessità di dire” che poteva essere singolare e intersoggettiva, senza temere la contraddizione.
Altro fattore determinante sarà infatti l’irriducibilità di Milano-poesia a delle dicotomie troppo stringenti, a partire dalla genesi stessa del progetto: continuità con il passato prossimo delle neoavanguardie (la fortunata stagione delle sperimentazioni internazionali degli anni Sessanta e Settanta) e presa di coscienza della mutazione sociale, politica, antropologica in atto; evidente eredità del marxismo e dei movimenti del ’68, ma anche apertura nei riguardi di un tipo di industria culturale sino ad allora inedita, una forma di cooperativismo “aggiornato” che potesse dar voce ai bisogni di una comunità reale; non da ultimo, un approccio decisamente “inclusivo”, si direbbe oggi, in termini di idee, discorsi e pratiche coinvolte, accogliendo appieno l’invito al dibattito dal vivo e alla dialettica tra posizioni anche sensibilmente distanti, tanto su di un piano strettamente artistico-letterario quanto su quello ideologico in senso ampio.
L’arco decennale è rispecchiato integralmente dalla durata di Milano-poesia, se si considera che nell’ ’82 e nell’ ’83 vi furono i primi due banchi di prova della squadra organizzativa di questo laboratorio artistico permanente, e cioè, rispettivamente, le manifestazioni «Guerra alla guerra» e «polyphonix 5». In seguito, nell’ ’84, si sarebbe svolta la prima edizione propriamente detta di Milano-poesia (l’ultima risale al ’92), festival che avrebbe avuto una risonanza straordinaria per il tempo e non solo – il focus, si badi bene, resta sempre sulla «poesia», pratica marginale per antonomasia –, e che molto deve a una figura eclettica, di rara acutezza, quale fu quella di Gianni Sassi. Il lavoro svolto da Sassi e dalla Coop Intrapresa, che curò anche la grafica particolarmente caratterizzata dei cataloghi del festival, rappresentò un nuovo modello di progettazione culturale che avrebbe dato origine a innumerevoli riprese negli anni a venire (il format dell’“intrattenimento di qualità”). E tuttavia, come ricorda Gazzola, Milano-poesia costituì di fatto un unicum nel panorama italiano, perché soltanto in quella particolare fase di transizione era stato possibile costruire un evento di tale portata sulla base di premesse “autenticamente” comunitarie, collettive. La tradizione di movimenti internazionali quale era stato Fluxus si stava rivelando, di fatto, ancora vivace e condivisa, come pure la volontà di preservare una visione militante, attiva, intensamente partecipata del “fare” poesia.
La struttura dell’oggetto-libro ricalca, in certa misura, una tale concezione rizomatica e “incarnata”: troviamo, non a caso, diversi riferimenti al monumentale Millepiani di Deleuze-Guattari, finanche nel movimento orizzontale-sincronico che si registra al livello dell’organizzazione macrotestuale. Intendo, cioè, che si ha l’impressione che tutti i materiali (assai eterogenei) convogliati nel volume siano dispiegati su di un’unica superficie di senso, a partire dai numerosi approfondimenti storico-critici fino ai saggi teorici e di poetica, passando attraverso gli accurati “cappelli” monografici e, naturalmente, la mole tutt’altro che trascurabile dei testi di poesia performati durante il festival.
Il montaggio di questi innumerevoli lacerti segnici e semantici, paradossalmente dotati di una certa coerenza intrinseca, dà origine a un fitto tessuto dialogico, bachtinianamente polifonico.
Ricordiamo, inoltre, che Eugenio Gazzola ha scelto di includere non soltanto i testi da cui traspare un legame diretto con Milano-poesia, ma anche una nutrita serie di fonti “secondarie”, vale a dire di riflessioni filosofiche, estetiche, politiche, senz’altro rappresentative della temperie di quegli anni, riflessioni a partire dalle quali si diramano ulteriori proliferazioni possibili del discorso critico. Dal pianale della pagina si dischiudono così delle “pieghe” a tutti gli effetti, inabissamenti “verticali” nella lingua e nel mondo che “si” dice, che non cessano però di aderire a un’immanenza radicale, ovvero a un solido sostrato storico-materialistico di fondo.
Milano-poesia intercetta nel suo raggio d’azione altri eventi collettivi, pressoché concomitanti, che avrebbero avuto un indiscusso rilievo nella storia (letteraria e sociale) della poesia contemporanea: nel’79 era nata la rivista «Alfabeta», nel novembre dell’’84 si era tenuto a Palermo un importante convegno intitolato Il senso della letteratura, nell’’89 muore Antonio Porta, che era stato uno dei principali promotori del festival, e intanto, proprio all’altezza di quel periodo, si costituisce il Gruppo 93. Nelle ultime tre edizioni (’90, ’91 e ’92) saranno organizzati nel contesto di Milano-poesia anche dei Forum specifici, convegni militanti dedicati ad alcuni dei temi cardine del pensiero contemporaneo: la contaminazione tra le lingue, le arti e i saperi; la traduzione, l’identità e le migrazioni; l’idea estetica del “bello”; non da ultimo, il dialogo tra le arti e le scienze, tenendo conto del ruolo preponderante assunto in quegli anni dagli sviluppi dell’informatica e della cibernetica, ma anche dalla biologia e dalle neuroscienze.
Ma Milano-poesia ha attraversato, soprattutto, degli eventi storici determinanti per la storia dell’Occidente, primi fra tutti la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS. Si aggiunga a ciò il già citato dibattito sul postmoderno, in relazione al quale Biagio Cepollaro ha ricordato la proposta da parte del Gruppo 93 di un «postmoderno critico» che implicava una necessaria presa di posizione (e di distanza), da intraprendersi, ad esempio, attraverso l’adozione di un pastiche linguistico non neutralizzato e la rivitalizzazione dell’allegoria benjaminiana. Appariva insomma indifferibile una rinnovata presa di coscienza del conflitto, così come della possibilità di condurre, attraverso le forme letterarie, un’opposizione ferrea e vitale alla logica capitalistica.
A me sembra che Gli anni di Milano-poesia sia, in ogni caso, un libro proteso verso il fuori-dal-libro, ovvero verso una profonda presa d’atto della realtà extra-letteraria di cui il festival Milano-poesia era insieme un sintomo e un anticorpo. Una realtà nella quale un cambio di paradigma radicale si stava inverando. I poeti, gli artisti, i critici, gli intellettuali accorsi a Milano per “fare il punto” sulle sorti della poesia tra gli anni Ottanta e Novanta si stavano verosimilmente interrogando, a un livello più inconscio e più insidioso, sulle sorti dell’intera cultura occidentale.
A colpire un lettore o lettrice di oggi è il fatto che, nonostante le inaggirabili preoccupazioni di fronte a una situazione sempre più inafferrabile, la maggior parte delle risposte fornite dai soggetti e dalle forze in campo siano state, tutto sommato, affermative, probabilmente perché era un’etica affermativa e propulsiva ad animare il microcosmo di Milano-poesia nella sua totalità.
La critica serrata al potere economico e politico nella sua veste autoritaria ed egemonizzante, così come nei confronti delle istituzioni culturali più gerarchizzate e borghesi, non escludeva la possibilità di tracciare delle direzioni condivise per proseguire collettivamente un certo tipo di lavoro culturale. Questo consentiva di coltivare una non trascurabile “speranza” di dialogo tra le ricerche artistiche più avanzate e il contesto storico-sociale di cui erano parte. Era ancora possibile, cioè, auspicare che una pratica minoritaria come la poesia potesse avere “presa” sulla realtà.
Alcune di queste direzioni potrebbero essere condensate in tre (provvisorie) parole chiave che riguardano, non a caso, una tendenza affermativa all’interdiscorsività e alla contaminazione fra saperi e pratiche, secondo un atteggiamento che accoglie, sì, alcune istanze del postmoderno, ma tenendosi ben lontano dal cancellare l’eredità epistemologica, etica ed estetica del modernismo. Queste tre parole sono: internazionalità, interdisciplinarità, intermedialità.
Sui significati e sulle molte implicazioni di ciascuno di questi termini non è possibile soffermarci in questa sede, e vorrei anzi lasciare ai lettori e alle lettrici future la libertà di esplorare la presenza di queste isotopie tematiche nel rizomatico volume di Gazzola. Mi limito, per il momento, a segnalare quanto segue: a Milano-poesia la volontà di instaurare un dialogo fra poeti, artisti e intellettuali provenienti da tutte le parti del mondo, così come all’interno di una gamma vastissima di forme artistiche (poesia, musica, cinema, teatro, danza, arti visive) e di ambiti del sapere (dalle scienze umane alla biologia), ha permesso la verifica concreta, in re, di una visione organica, integrata, delle arti e dell’esperienza estetica.
Potrebbe forse stupire che proprio la poesia sia stata il “centro” di un tale movimento di ibridazione sostanziale e non accidentale tra le arti, eppure sappiamo pressoché da sempre – dai trovatori a Intermedia di Higgins passando per i Calligrammes – che la poesia può essere interpretata come un macro-medium o un meta-medium (ovvero un medium che contiene, in atto o in potenza, tutti gli altri media). D’altro canto, leggendo Gli anni di Milano-poesia si è come investiti da una presenza illuminata e fiduciosa, da quel fermento immaginativo condiviso che oggi manca, oppure, se resiste, assume delle forme di gran lunga più circoscritte. Forse è sempre ancora a venire, o forse è consegnato alla distanza irreparabile di un passato meno prossimo di quanto crediamo.
La presentazione di Milano si è conclusa con un’immagine che voglio ricordare, e per la quale sono grata ai miei interlocutori: la poesia come atto residuale, sotterraneo, sussurrato a poche persone e occultato tra le maglie del mondo, ma non per questo meno necessario – la parola catacombale.
Se mi va bene sarò postuma.