Le censure e le tracce. Su “Critica dell’inespresso” di Marco Gatto

 

 

 

di Nicola De Rosa

In un passo della Rhétorique générale, a partire da una problematizzazione della condanna mossa da Croce nei confronti della retorica, il Gruppo di Liegi discute la possibilità di concepire un suo impiego non faziosamente persuasivo, di convincimento dell’uditorio a un contenuto manifesto. È esistita ed esiste una retorica dalla funzione dissuasiva, censoria rispetto alla possibilità di attingere dal messaggio un contenuto latente[1].

Le implicazioni estetiche di questa ipotesi sono coraggiose quanto delicate: paventano la possibilità che, nell’opera d’arte a cui si riservi un certo giudizio di valore, il piano della forma non si allinei simbioticamente al contenuto da esprimere, bensì sia il luogo in cui quel contenuto, pur agitandosi per emergere, è soggetto a un qualche tipo di interdizione. La constatazione del sapore vagamente freudiano di quest’idea non basta a interpretare alcune esperienze critiche e teoriche che si incontrano nella concezione dell’opera come un contenitore profondo, da cui è possibile far riemergere le cicatrici di un inespresso. È a quest’interpretazione che punta l’ultimo libro di Marco Gatto, pubblicato per la collana «Elements» di Quodlibet.

Se, da una parte, gli autori passati in rassegna da Gatto condividono l’interesse per gli aspetti formali dell’opera d’arte, dall’altra, essi sono mossi da una forte istanza di storicizzazione delle forme, dal proposito di «storicizzare sempre»[2], come Fredric Jameson esordiva in The Political Unconscious, dalla coscienza della «radicale storicità della letteratura»[3], come invece ribadiva Juan Carlos Rodríguez. È quel movente storicistico che – soprattutto in Jameson adombrato dalla glossa althusseriana al Capitale marxiano, per cui la Storia è «causa assente»[4] attingibile essa stessa solo in forma testualizzata – non si traduce in una teoria del rispecchiamento, bensì nel tentativo di descrivere il rapporto, sì, mimetico, ma di compensazione, della letteratura rispetto alla realtà. Per quanto i dispositivi egemonici, di cui anche il testo letterario è in una certa misura agente, tendano a funzionare da dispositivi di normalizzazione e pacificazione di istanze conflittuali, il testo conserverebbe in un immanente campo di forze le tracce della contraddizione ideologica nella sua conflittualità.

Ma prima del Jameson a cui Gatto ha già dedicato lavori importanti, a fornire gli spunti per la prima sezione, oltre che per il titolo del libro, è il Gramsci lettore dell’episodio dantesco di Farinata e Cavalcante. Nei Quaderni, la categoria di «critica dell’inespresso» è formulata a partire da una riflessione, da leggere, anche qui, in dialettica con l’estetica crociana, sul dramma dell’epicureo: al momento dell’incontro con Dante e, quindi, durante la sua enunciazione discorsiva, poetica, Cavalcante, avveduto di passato e futuro, non può osservare il presente e non può sapere se il figlio Guido è in vita. Ma la sua tragedia è attingibile solo da quella che Croce, contrapponendola alla «poesia», definirebbe «struttura»[5], cioè dal momento didascalico di Farinata. Gatto evidenzia la radice anticrociana della riflessione di Gramsci, che tende a ricomporre il nesso tra struttura e poesia. Così, emerge l’idea che muove, in buona sostanza, l’argomentazione del libro nella sua interezza: «È, insomma, quella gramsciana, una visione del testo che, inevitabilmente, coincide con una critica dell’autonomia estetica o poetica […]: il momento strutturale e organizzativo, che rimanda alla sfera dell’operosità architettonica, svela ragioni che la rappresentazione poetica non riesce a esprimere. È in gioco, insomma, una possibile teoria del testo come luogo o deposito di ragioni profonde che riemergono dalla superficie testuale alla stregua di tracce»[6].

Tra i tanti spunti offerti dal libro – che attraversa, ad esempio, anche il problema di un’ermeneutica del profondo in Mimesis di Auerbach puntando a una ricognizione del concetto di realismo figurale –, sono molto appassionanti, e dense sul piano teoretico, le sezioni di sutura in cui si affrontano Walter Benjamin e Theodor Adorno, passando per Siegfried Kracauer; centrali sia sul piano materiale, in quanto poste al centro del libro, che simbolico. Stimolante è il modo in cui l’autore affronta il problema del «contenuto di verità» nel saggio di Benjamin sulle Affinità elettive, e quello dell’estetizzazione come schiacciamento allucinatorio delle mediazioni, dei conflittuali rapporti di “struttura”, intesa, stavolta, in senso marxiano. Gatto fa transitare la sua riflessione da Passagen-Werk ad alcuni spunti forniti dalla Teoria estetica, in particolare quelli sul «carattere d’enigma» dell’opera d’arte, che Adorno descrive in forma quasi aporetica: «l’arte diventa enigma perché si presenta come se avesse risolto ciò che nell’esistenza è enigma, mentre nel mero essente l’enigma è stato dimenticato»[7]. Oppure, per dirla con un altro passo icastico della Teoria estetica: «la forma estetica è […] la sintesi non violenta del disparato che comunque conserva quest’ultimo come ciò che è, nella sua divergenza e nelle sue contraddizioni, ed è pertanto effettivamente un dispiegarsi della verità»[8]. A nostro avviso, è in una interpretazione delle sezioni adorniane sul carattere d’enigma e sul contenuto di verità, e in un’agnizione delle fonti della sua riflessione, che si custodisce la chiave di volta del problema teoretico affrontato da Gatto, cioè quello relativo a come una certa generazione abbia pensato i rapporti fra opera d’arte, carattere utopico e falsa coscienza, intesa sia in senso marxiano che freudiano, nel senso, dunque, più generale della «scuola del sospetto», da cui avrebbero attinto anche altri autori affrontati nel libro, come Francesco Orlando, Fredric Jameson e Juan Carlos Rodríguez.

In Storia e coscienza di classe, in particolare nel saggio sulla Verdinglichung, la reificazione, Lukács scriveva: «una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’“oggettività spettrale” che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparente, conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini»[9]. Se ad estetizzarsi, e quindi ad occultare le mediazioni, è prima di tutto la merce, c’è un nesso estremamente ambiguo tra carattere di feticcio e spazio estetico, perché il funzionamento dell’opera d’arte gli assomiglia per qualche verso: oltre a persuadere, sospendere l’incredulità, sposta, strania, defamiliarizza le mediazioni, i rapporti non solo strutturali ma anche ideologici che hanno contribuito a produrla. La grande scommessa del critico è che, però, quello straniamento sia arricchente, che aggiunga qualcosa, e che le tracce di quelle mediazioni siano conservate da qualche parte, come un fantasma, come un eidolon.

Soprattutto per quanto riguarda tre autori come Orlando, Jameson e Rodríguez, le ipotesi di interazione fra queste esperienze teorico-critiche – ricostruite da Gatto seppur in forma sintetica –, meriterebbero una valutazione approfondita. Gatto, da questo punto di vista, fonda solide basi per interpretare la loro posizione storica sondandone le possibili interazioni con un milieu culturale più ampio. Se Orlando è più orientato a pensare il testo come dispositivo di affrancamento dall’egemonia, Jameson come dispositivo di risoluzione immaginaria del conflitto reale, Rodríguez oscillante fra le due prospettive, tutti e tre hanno condiviso la comune matrice teoretica nell’eredità della scuola del sospetto.

Il libro di Gatto ci rammenta anche la necessità di storicizzare le produzioni discorsive di tipo teorico, con una postura atta a descriverne le costruzioni concettuali sul piano delle loro implicazioni ideologiche, a partire dall’idea che un testo argomentativo parli sempre a degli interlocutori dialettici impliciti. È forse questo un punto su cui dovrebbe indugiare in modo circospetto qualsiasi studio che affronti le modalità attraverso cui la storia delle idee ha pensato la domanda sartriana: qu’est-ce que la littérature? Tale studio dovrebbe forse evitare di incorrere nel rischio dell’argomentazione ‘a tesi’, di presentare la teoria come ciò in cui si crede e ciò che in modo consequenziale va applicato in sede di analisi testuale; e aggredire, invece, le produzioni teoriche con un approccio ermeneutico che le riconduca alla loro dimensione storica, facendo emergere le istanze culturali che hanno contribuito a dar loro forma. Questo è, d’altronde, l’insegnamento dello stesso Jameson più gadameriano, del Jameson che utilizza, ad esempio, la tradizione strutturalista passandola a contropelo dialetticamente.

Uno dei motivi d’importanza della pubblicazione di Critica dell’inespresso è certamente quello di colmare uno spazio ancora aperto nel dibattito sulla fase di implosione dell’utopia – enunciata da Roland Barthes in Critique et vérité – della «scienza della letteratura» nelle sue evoluzioni post-strutturali e decostruttive, isolando le proposte teoriche di una serie di autori che hanno affrontato il problema con soluzioni originali. Il libro di Gatto mette in luce le implicazioni di un gesto ermeneutico teso a isolare l’emersione di una contraddizione storico-ideologica, del depositum historiæ fortiniano, a cui Gatto dedica l’ultima sezione del libro, che non è custodita nel piano meramente tematico, non risiede in cosa la letteratura tematizza oppure no, bensì in come il contenuto è espresso o meno, nella morphé, nelle forme attraverso cui il contenuto si organizza. La produzione di molti autori osservati da Gatto è animata da un’urgenza cruciale per chi agiva in una fase, anch’essa, di grande conflittualità ideologica: approfondire, a partire dalla polarizzazione marxiana fra struttura e sovrastruttura, i meccanismi di reciproca interazione fra il livello dei rapporti di forza reali e quello della loro sublimazione nelle pratiche discorsive della cultura. Urgenza che trovava ulteriori tentativi di rielaborazione nell’interpretazione che un autore come Althusser – ma in una certa misura anche il Bourdieu che approfondiva le «forme di capitale» – forniva del campo concettuale di ideologia. La posizione storica di alcuni degli autori liminari chiamati in causa da Gatto, quelli riuniti attorno alla temperie culturale tra gli anni ’70 e ’80, è riconducibile sicuramente a un’urgenza di originale risposta alle apprensioni per l’arretramento o, come sarebbe stata definita, la «crisi», l’«eutanasia» dei grandi modelli novecenteschi di interpretazione della letteratura e del mondo[10]. In alcuni di loro è palpabile la dialettica con la voragine gnoseologica aperta dalle progressive evoluzioni decostruttive del pensiero letterario negli ultimi decenni del Novecento, che accogliesse però, in una certa misura, la lezione sul conflitto delle interpretazioni, declinandola come un portare fuori il conflitto. L’urgenza e la pertinenza storica di queste esperienze teoriche è ricostruita da Gatto con l’accortezza che fa di Critica dell’inespresso uno strumento atteso e innovativo.

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[1] Cfr. Gruppo μ, Retorica generale. Le figure della comunicazione [1970], Milano, Bompiani, 1976, p. 193: «Croce, Breton e i loro seguaci sarebbero senz’altro insorti meno violentemente contro l’imperativo retorico se la retorica avesse rinunciato ad essere imperativa. Quando essa si confondeva con l’arte di parlare e di scrivere, la sua funzione era di prescrivere e proscrivere. Ma è possibile anche una retorica che non dia alcun consiglio al locutore e allo scrittore e il cui fine sia di trovare in un discorso che gli psicoanalisti chiamerebbero “manifesto” dei significati “latenti” suggeriti e ripudiati dalla metabola».

[2] F. Jameson, The Political Unconscious. Narrative as a Social Symbolic Act (1981), London, Routledge, 2002, p. 9, trad. mia.

[3] J.C. Rodríguez, De qué hablamos cuando hablamos de marxismo. Teoría, literatura y realidad histórica, Madrid, Akal, 2013, p. 72, trad. mia.

[4] Cfr. L. Althusser [et al.], Leggere il Capitale [1965], Milano-Udine, Mimesis, 2006, p. 270; F. Jameson, The Political Unconscious, cit., p. 67, trad. mia.

[5] B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921, p. 68.

[6] M. Gatto, Critica dell’inespresso. Letteratura e insconscio sociale, Macerata, Quodlibet, 2023, p. 26.

[7] Th.W. Adorno, Teoria estetica [1970], Torino, Einaudi, 2009, p. 170.

[8] Ivi, pp. 192-93.

[9] G. Lukács, Storia e coscienza di classe [1923], Milano, SugarCo, 1991, p. 108.

[10] Cfr. C. Segre, Notizie dalla crisi. Dova va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993 e M. Lavagetto, Eutanasia della critica, Torino, Einaudi, 2005.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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