L’ultimo sogno
di Edoardo Mazzilli
Secondo Ania l’uomo ha perso la capacità di autodistruzione. Me l’ha detto la notte in cui ha smesso di esistere. Dapprincipio non ho capito cosa intendesse, per questo ha voluto mostrarmelo. Mi ha trascinato nella profondità di una grotta eterna dentro a cui viveva una monstera in stato quiescente. La guttazione delle foglie più antiche produceva ancora gocce d’acqua che, fievoli, cadevano sulla roccia calda spezzandosi. Ania si è inginocchiata e le ha raccolte. Mentre lo faceva mi ha preso la mano e mi ha tirato a sé. Colma la sete, mi ha detto. Mi sono chinato e ho emulato il suo gesto, portandomi poi le dita umide alle labbra. Ora dimmi dove siamo, mi ha detto. L’ho guardata negli occhi e la grotta ha iniziato a rabbuiarsi lentamente. Il suo viso è scomparso, ma lei era ancora lì. Dove siamo?
Quando è tornata la luce, Ania e io eravamo stretti da un legame indissolubile che durava dalla prima alba che la Terra avesse mai visto. Eravamo genitori di cento uomini e cento donne ed eravamo gli abitanti più anziani di una grande isola di terra e pietra accanto a cui ne sorgeva una più piccola. Ania aveva assunto tratti esotici in viso, aveva capelli canuti e stava china tra le pelli di un tricheco morto di stenti. Dove siamo?, mi chiedeva. Attorno a noi c’erano bambini nudi che correvano al riparo dal sole. Ania indicava l’isola vicina e diceva che quello era lo ieri. Questo invece è l’oggi, ripeteva sfiorando la terra su cui posavo i piedi. Non possiamo più raggiungere il passato. Dove siamo?
All’orizzonte, dove il mare nero e il cielo tetro scomparivano, si profilava un vascello ricoperto di avorio. Dal ponte colava il sangue degli uomini e delle donne uccise per mano dei loro fratelli e sorelle in ogni secolo. Ania e io eravamo nudi, distesi sul fondo dell’oceano mentre il nucleo della Terra ci scaldava amabilmente la schiena. Le nostre viscere erano collassate in un cataclisma onirico e i nostri corpi erano ormai parte di un cosmo atarattico. Il sangue scendeva lentamente verso di noi attraversando la massa d’acqua senza mischiarvisi e mentre lo fissavamo, Ania si è distesa sopra di me e ha iniziato a piangere. Solo allora mi sono accorto che non si trattava di Ania, ma di Ania bambina. Ha poggiato la testa al mio petto e mi ha chiesto dove fossimo. Sono scivolato diabolicamente dentro di lei e in quel momento la sabbia sotto di noi ha iniziato a cedere. Ania bambina si dimenava e benché non facessi niente per tenerla stretta a me, i nostri ventri si sono uniti promettendosi attrazione eterna. Ero paralizzato in un orgasmo occulto e né le sue grida né il sangue che ormai le avvolgeva i capelli e le penetrava nelle narici e nella bocca mi smuovevano dal mio stato di godimento malato.
Quando il sangue si è posato sulle mie cornee ed è sceso sotto le palpebre sono colato nel corpo di Ania risalendo le pareti calde del suo utero e mi sono fatto cellula. Ero un’unità di un plotone felice che costituiva parte dei dotti lattiferi del suo seno sinistro. I miei fratelli vivevano imperturbati la loro esistenza, senza vizi, senza ambizioni, senza eccessi né sete di potere. Ho vissuto per anni osservandoli e chiedendomi come potessero resistere. Ogni volta che uno si moltiplicava, un altro moriva estasiato. Il loro sguardo serafico in punto di morte mi sconquassava le ossa. Consumavano la loro esistenza in serie, crogiolandosi nella plasmalemma senza fare nulla per essere ricordati. Quando la cellula accanto a me si è sdoppiata, mi è stato chiesto di fare spazio e cedere all’apoptosi. Autodistruggermi. Mi sono rifiutato e ho dato vita a mia volta a un essere uguale a me, che covava lo stesso disprezzo verso i nostri fratelli. Insieme ci siamo moltiplicati ancora, generando una macchia di odio cellulare incontrollato in mezzo al plotone felice. Ci siamo fatti spazio attaccando alle altre cellule e mettendo fine alle loro inutili vite, e più uccidevamo, più accresceva nel baratro della nostra fame primordiale la voglia di uccidere. Abbiamo attaccato altri tessuti fondando una società capitalista negli organi di Ania, costruendo strade, città, quartieri e periferie in cui ci rincorrevamo per soddisfare piaceri effimeri. Abbiamo depredato il suo corpo di ogni cellula instillando le nostre e quando non ne è rimasta più neanche una delle sue, Ania è diventata il nostro pianeta depravato.
Abbiamo continuato a riprodurci anche una volta superato il limite di saturazione e allora i più forti di noi hanno costretto i deboli a vivere nella miseria, nell’ignoranza e nella paura, accatastati negli angoli più impervi del corpo di Ania. Il sovraffollamento però ha portato all’esaurimento di ogni di risorsa e allora uno dopo l’altro siamo morti tutti. Poveri e ricchi, deboli e forti, ebeti e scaltri. Sono sopravvissuto soltanto io e Ania mi ha partorito sulla cima di un vulcano. Ha succhiato il veleno che scorreva sotto la mia cute e l’ha sputato nel cratere. Tu sei me e io sono te. Chi siamo noi?, mi ha chiesto. Il suo corpo si era rigenerato dalla necrosi, gli edifici che avevamo impiegato secoli a costruire su di lei erano crollati e dalle macerie erano fiorite distese di narcisi bianchi che io e Ania ora attraversavamo mano nella mano.
Siamo caduti in uno stato di piacere catastematico. Camminavamo giorno e notte e i muscoli non ci dolevano, ci nascondevamo in giardini tropicali e ci accoppiavamo sulle sponde di stagni limpidi, ci nutrivamo di pesche all’ombra di foglie di alocasia e palme reali e vivevamo in armonia insieme a tutte le specie animali che un tempo avevano abitato la Terra e poi si sono estinte. Attorno a noi pascolavano uri, moa, lupi marsupiali, tigri di Giava, rinoceronti neri, elefanti della Siria, ratti canguro, armadilli arboricoli e orsi dell’Atlante. Sui gli alberi erano tornati a ripararsi volpi volanti, falchi di palude, nitticore, huia e ara tricolore e nelle acque nuotavano di nuovo lipoti e focene. Non avevamo mai amato così tanto noi stessi e la materia cellulare che ci circondava. I nostri figli crescevano sani, si rispettavano gli uni con gli altri e facevano l’amore tra loro. Donne con uomini, donne con donne, uomini con uomini, e chi non sentiva la necessità di farlo non veniva giudicato. Insieme a loro, io e Ania esploravamo il pianeta e ogni giorno ci sorprendevamo di quanti paesaggi ospitasse. Eravamo una comunità ricca. La quantità di frutti che la terra metteva a disposizione ogni giorno era maggiore di quella necessaria a saziare tutti. Se uno di noi moriva, un altro nasceva e il numero di individui rimaneva sempre in perfetto equilibrio con l’ecosistema di cui facevamo parte.
Una primavera però ci siamo imbattuti in un fiume in cui non scorreva acqua, ma parole. Ogni vocabolo pronunciato nella Storia, in ogni lingua esistita, era lì dentro, placido e meditabondo. Ania ha fermato i nostri figli e ha detto loro di non entrare, ma il più giovane si è inginocchiato sulla riva e ha immerso un braccio. Quando l’ha ritirato, in un pugno teneva stretta la parola dolore. Si è accasciato al suolo colpito da convulsioni spasmodiche e i suoi fratelli e le sue sorelle hanno iniziato a piangere, allora mi sono gettato nel fiume e ho nuotato disperatamente tra i vocaboli finché in fondo all’alveo non ho trovato quello che cercavo. Sono riemerso con in pugno la parola antidoto e nostro figlio è rifiorito, ma Ania mi ha implorato di riporre quelle otto lettere nel fiume. L’equilibrio sta nell’autodistruzione, mi ha detto. Ho fatto per gettare il vocabolo, ma nostro figlio l’ha afferrato. È scappato verso Nord e l’ha portato con sé.
Io e Ania siamo diventati astri e abbiamo osservato la sofferenza degli abitanti della Terra dalla nostra nube di vuoto esoterico nell’Universo. Abbiamo assistito alla costruzione e alla distruzione di imperi, al sorgere di confini, allo scoppio di guerre e alla scrittura di leggi giuste e ingiuste. Abbiamo guardato uomini trucidarsi, lapidarsi, stuprarsi e torturarsi. Abbiamo seguito la devastazione di radure incantate per fare spazio ad abitazioni di uomini insoddisfatti, e lo stermino di animali felici per nutrire individui depressi. Abbiamo visto la creazione di antidoti che hanno risolto situazioni complesse ma che hanno generato nuovi problemi dando vita a un moto isterico, implacabile e distruttivo.
Adesso io e Ania siamo qui a guardarci negli occhi per l’ultima volta, perché lei ha un carcinoma mammario e non vuole cedere alla necrosi. Vuole l’apoptosi. Morte programmata. Autodistruzione. Adesso siamo svegli. Ania è mia madre. Il figlio più giovane sono io, ho provocato io il dolore e sono fuggito con l’antidoto. Grazie a me l’uomo è arrivato a creare i francobolli che abbiamo nel cervello, che decodificano segnali permettendomi di comunicare e creare sogni condivisi con Ania, ma non ha ancora trovato un antidoto per le cellule invidiose della felicità altrui, né per eliminare il mio autismo. Ania è una biologa ambientale e ora non ci sarà più. Ania conosce i nomi delle piante, degli animali e di tutti i luoghi della Terra, e con i nostri francobolli me li ha mostrati tutti. Ania è mia moglie. Questa notte abbiamo giocato per l’ultima volta a dove siamo? e mi ha portato sulla grande isola di Diomede, accanto alla piccola isola di Diomede, dove il cambiamento climatico ha sciolto il ponte di ghiaccio. L’ultimo sogno è finito. La temperatura media globale si è alzata di due gradi e Ania si autodistrugge. Ania si è autodistrutta, ma poco prima mi ha detto di ricordarmi sempre che il futuro si raggiunge a piedi.
Foto di Bhanu Khan da Pixabay
È vero, il futuro si raggiunge a piedi e non bisogna averne paura. La realtà è quella che è, ma la coscienza e la consapevolezza la possono modificare.
Grazie per questo racconto.