Andùm?
di Greta Bienati
Matricula dos Immigrantes, numero 77.314. Data di sbarco: 6 marzo 1888.
Sul registro degli arrivi al porto di Santos, Brasile, il suo nome viene per ultimo. Prima c’è il capo famiglia, poi la sua mulher, il suo irmão, come là chiamano i fratelli, e quarta lei, sul cui grado di parentela il funzionario non è tanto sicuro: sarà la cunhada?
Anche il nome è sbagliato: Luigia al posto di Letizia. Ma come si fa a sentire bene in un giubileo di spintoni e fagotti, bambini che piangono e sacramenti in cento lingue differenti?
È appena scesa dal Provence, il piroscafo che parte da Genova e fa tappa a Marsiglia e Barcellona, per riempire ben bene le stive prima delle due settimane di traversata. Nacionalidade: Italia. Profissão: Agricultor, scrive il funzionario, che, per fare più svelto, mette le virgolette e non sta neanche a guardare se il registrato ha ottant’anni o sei mesi.
Oltre alle tre parole del registro, di lei è rimasto poco e niente: nessuna foto, poche briciole di ricordi, qualche carta, firmata da mani che, con la scrittura, dovevano avere ben poca pratica. Atti di nascita e di matrimonio, registri di immigrazione, schede individuali nei fogli di famiglia.
Ma a seguir le briciole e a leggere tra le righe, puoi immaginarla in una sera di gennaio, qualche giorno prima dei santi della neve, seduta vicino al camino, in una cascina di San Silvestro di Curtatone. Cinque case e una chiesa, in terra mantovana, lungo la strada che viene da Buscoldo, e tutto intorno nebbia e galaverna a nascondere i campi.
In san Silvestro, la Letizia è venuta a stare da poco, sposina da quattro settimane, ma già con la pancia tonda. Il posto dov’è nata è fatto alla stessa maniera: una cascina in Cesole di Marcaria, dove l’Oglio si butta nel Po. Una dinastia di falegnami e filandere, contadini per forza, in campi dove puoi star sicuro che, prima o poi, il Fiume rompe l’argine e si porta via tutto.
A Cesole come a San Silvestro acqua e formentone formano un mare piatto, che fa correre lo sguardo fino all’orizzonte, e ti pare di vedere la curvatura della terra. Nei campi tagliati dai canali e cuciti dai filari di gelsi, le case sono isole, e gli occhi si aggrappano ai campanili per non perdersi nel niente, verde o grigio a seconda della stagione. Il niente non è posto da confini precisi: la terra e l’acqua si mescolano che quasi non le distingui, e si vede bene che mica tanto tempo fa era palude e terra di coccodrilli. E prima ancora mare vero, con l’acqua salsa e i pesci, roba che gli aratri scavano ancora fuori conchiglie pietrificate del tempo del Diluvio.
Forse è mare anche adesso, a guardare quanto l’acqua viene vicina alle case. Una volta con la piena, un’altra con la nebbia, che non sembra ma sempre acqua è, e viene anche lei dal Po, a far umide le lenzuola, che non riesci a dormirci se non le asciughi con lo scaldino.
Visto che la Letizia è venuta al mondo di Venerdì Santo, han pensato bene di metterle un nome di buon augurio, a esorcizzare la data triste: Letizia Pasqua, un nome che più contento non si può.
Nella pancia, non lo sa ancora, ma c’è una tusa, a portar fortuna alla sposa, come si dice in tutta la Lombardia. Di nome le metteranno Maria Giuditta, per avere la protezione della Madonna (e sicuro la Letizia è andata a accendere un cero alle Grazie, per proteggere il primo parto), e quella della suocera, che è morta prima di vedere la nipote. Ma non basteranno né l’una né l’altra, perché, sulla Matricula dos Immigrantes, Maria Giuditta non c’è. E i fratelli che verranno dopo di lei non sapranno neanche che è mai stata al mondo.
Chi avrà avuto l’idea di partire? Una voce corsa a una fiera? Oppure un compaesano intraprendente (c’è sempre uno che la sa più lunga degli altri)? E magari, dopo averli convinti, lui è rimasto lì, a San Silvestro, nell’oceano di formentone e nebbia.
A chiudere gli occhi, puoi quasi vederli, nella sera di gennaio, baffi gli uomini e capelli raccolti le donne, seduti nella cucina un po’ scura, che il lume a petrolio è meglio risparmiarlo. E i due fratelli a scambiarsi le parti, uno a fare quello convinto e l’altro lo scettico, che essere contadini vuol dire esser diffidenti, perché ho mai visto girare il mondo dalla parte giusta.
– Ti dico che pagano il viaggio e danno la terra gratis, ca ‘t gnìs ‘n càncar!
– Eh già! E io ci credo!
Poi da capo, a ruoli invertiti, quello convinto che adesso ha i dubbi, e l’altro che si è deciso e torna lui a convincere il fratello. Tutto in dialetto, è ovvio. Perché l’italiano è un parlare forestiero uguale al portoghese.
Magari la Letizia tira fuori le carte, come han sempre fatto a casa sua quando c’era una decisione importante. Solo tre, scelte con la mano del cuore. Una è sicuro di quadri, a promettere ricchezza, ma forse c’è anche un picche, a dire che non saranno solo rose e fiori.
La bambina tira un calcio, per dire anche lei la sua, che qua i temperamenti sono infiammabili come zolfanelli già prima di venire al mondo, e l’intercalare che augura un canchero dice già tutto sui rapporti col prossimo. La Letizia accarezza la pancia e guarda le carte. Di lì a poche settimane, vedrà robe che, in vita sua, non si era mai neanche immaginata: il porto di Genova come un formicaio, la nave a vapore più grande della chiesa della Madonna, e poi l’Oceano, che chissà che impressione per lei che non ha mai visto il mare. E la traversata, con intorno solo acqua, in un tempo senza sapore, senza neanche un campanile a cui aggrappare lo sguardo.
E poi il Brasile, e Campinas, e avevi ragione, davvero davano la terra, ma quale terra, che qui c’è da tirar giù una foresta intera, ca ‘t gnìs ‘n càncar! E la piantagione di caffè, i serpenti e le tigri, l’ananasso e lo scimmione.
Poco cielo, che gli alberi e le colline chiudono la vista, tutto al contrario di Cesole, dove gli alberi li vedi solo sul viale che va al cimitero, e le montagne compaiono lontane lontane solo un paio di volte l’anno, nei giorni freddi di vento. E niente inverno, che qua si vive senza le scarpe anche quando vai sul calesse col vestito della festa, e i bambini non riescono a immaginarsi come sono fatte la neve e la galaverna.
E quando sei lì bene, con una fazenda, cinque figli e quello dei sei lì lì a venire al mondo, non capita mica un furto di cavalli? Lo so chi è stato, adesso vado a prenderlo. E la voce del ladro che digrigna: quando vengo fuori di galera, ti pago io.
E adesso? Adesso non puoi mica dormire tutta la vita col fucile di fianco. Lo penso io, lo pensi anche te: forse è meglio se andiamo a casa. Coi soldi che prendiamo dalla fazenda, sai quanta terra ci comperiamo a Cesole? E poi, un domani, si può sempre tornare qua, ormai sappiamo la strada, e i figli sono mezzo brasiliani.
Avanti e indietro, attraverso l’Oceano, che è sempre grande e noioso uguale. E uguale è anche Cesole, e la piana, e il Fiume. Così uguale che non facciamo in tempo a comperare la terra, che l’acqua arriva a portarla via, con la piena del Novecentosette. E giusto perché gli anni neri sono neri fino in fondo, pochi mesi e la Letizia, dopo due traversate dell’oceano e sette figli, muore di parto insieme a quello che avrebbe fatto otto.
Ma, in questa sera di gennaio, il domani sono tre carte. Qui ci sono solo la galaverna, le braci nello scaldino, la campana di San Silvestro che batte le nove. E due voci:
– Andùm?
– E andùm, ca ‘t gnìs ‘n càncar!