I giorni di vetro
di Mauro Baldrati
La purina (poverina, che carina). E’ una delle parole che ricorrono frequentemente nel testo, come babina, bagattare (rovinare, distruggere), svettole (sberle) e altro ancora, in un particolare slang romagnolo tradotto che ci invita a tuffarci nelle acque antiche della Romagna anni Trenta. Una Romagna arcaica, patriarcale, popolata da contadini, pastori, segnata da una miseria inimmaginabile, dominata dalle superstizioni, dalla paura, dai fantasmi.
L’incipit è uno shock anafilattico immediato, siamo già dentro:
Era molto meglio prima, quando io non c’ero e non c’era nessuno dei miei fratelli, né i vivi né i morti. C’era solo mia madre che si rivoltava sul materasso del camerino e urlava: “Ammazzatemi, osta dla Madona” e la Fafina rispondeva: “Sta’ zeta ché chiami il Diavolo”, e andò avanti così per tre giorni e tre notti, finché mia madre lanciò un grido feroce e venne fuori Goffredo, il primo dei miei fratelli morti. Quando gli diedero lo schiaffo per farlo piangere lui non pianse, allora la Fafina scosse la testa e disse: “E’ segno che a Dio Cristo lassù gli bisognavo un angiolino”.
Ne vedeva tanti di bambini nati morti, e quello era uguale a tutti gli altri, anche se era suo nipote.
Mia madre la guardò avvilita. “Perché?” chiese.
“Perché hai mangiato troppo cocomero. Il cocomero fa acqua nello stomaco e il bambino si è annegato, il purino”.
La madre, Adalgisa, ne partorisce altri due, Tonino e l’Argia, tutti morti. Una maledizione. La madre dovrebbe rivolgersi al dottore di Castrocaro – una cittadina termale della provincia di Forlì – ma qui si tratta di un caso speciale, per cui va dal fattucchiere, “erudito di piante e radici e intrugli che Dio sa cosa”. E’ un santone che possiede un bastone appartenuto a Sant’Antonio, nonché “Aveva guarito anche donna Rachele, che dopo avere avuto Bruno si era ammalata di malinconia, e il Duce era venuto di persona da Milano, una mattina, a ringraziarlo con dieci casse di Albana di Predappio”.
Questa la “cura” di Zambutèn:
Dovete aspettare che vi venga il mestruo. Il primo mestruo dopo la bambina morta è quello buono. Dovete stare seduta su un pitale d’argento e raccogliere il sangue, quindi dovete farne bere dieci gocce a vostro marito, diluite nel Sangiovese. Dopo dodici giorni lui deve prendervi, e anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Poi non dovete guardarvi più. Voi dovete dormire in un letto e lui in un altro. Vi nascerà una figlia che ancora addosso la scarogna, ma camperà.
Infatti nascerà Redenta, l’eroina principale di tutto il romanzo, la babina, la ragazzina, la donna segnata dalla scarogna, per di più storpia (avrà la polio, raccontata in un capitolo impressionante in cui ci sembra di vivere di persona quella tragedia) e “inscimunita”.
In realtà non lo è affatto, scimunita, è solo piegata, rassegnata dalla sua sorte imposta da un ambiente spietato, che non ammette deroghe, quasi si trattasse di un biotopo di animali dei boschi, o del deserto, o dei pesci di un fiume, dove chi soccombe viene semplicemente abbandonato, o mangiato, perché sono le dure regole della sopravvivenza.
E così comincia il viaggio in questo multiverso antico, popolato da una folla di personaggi ammantati da un che di leggendario, di folle, di barbarico, con storie talvolta divertenti e paradossali – come un ballo popolare in una sala soprastante un porcile, poi il pavimento crolla e i ballerini precipitano nel troiaio dei maiali. Compaiono i personaggi che seguiremo nel racconto, partecipando alla loro crescita e alle loro scelte, che in realtà non sono tali, perché sono imposte, dalle famiglie, dalla storia.
Ma non si immagini un romanzo di tipo antropologico o folkloristico. Certo, il folklore romagnolo, unico nel suo genere in tutti i folklori nazionali, filtra, ma anche se non ne abbiamo consapevolezza siamo già stati avvolti dalla elaborata ragnatela che un astuto ragno letterario sta tessendoci intorno. E’ iniziata la storia, con una quantità di dettagli che ritroveremo nella progressione, quando le vicende si complicano, o precipitano nella violenza e nella guerra.
Ecco un esempio perfetto di quel meccanismo ad alta precisione che costituisce l’intreccio: dopo il “balzo della belva”, ovvero la brusca accelerazione del flusso narrativo, inciso sulla pietra in questa riga finale della parte seconda (Giovinezza): Se non fossi mai nata, non avrei mai incontrato Vetro, quando siamo già scesi negli inferi della violenza fascista, abbiamo un’illuminazione, e soprattutto un risarcimento. Vetro, il gerarca della milizia fascista, un uomo bello, affascinante, prende in moglie Redenta, anche se ha la scarogna, ed è sciancata e scimunita (più avanti scopriremo il vero motivo). Non la chiede, lo comunica. Naturalmente i genitori sono entusiasti, che fortuna! E qui siamo già sprofondati nell’abisso oscuro dell’orrore, pubblico e privato. Vetro è stato un criminale di guerra in Etiopia, ha partecipato a orrori che se non superano – perché forse è impossibile superarli – quelli delle Tontenkops SS tedesche e ucraine, quanto meno li eguagliano. Lo stesso orrore sadico lo rivolge a Redenta, poi a una misteriosa donna nazista alla quale, all’inizio, appare sottomesso. Ma anche lei diventa una vittima, torturata lentamente, finché Redenta, che fino a quel momento ha accettato la sua sorte senza lamentarsi, la porta via, in fin di vita. Poi si prepara a essere uccisa da Vetro. A questo punto ci chiediamo chi era quella donna, e vorremmo sapere che fine ha fatto. Perché se sparisse nel nulla, mentre il racconto avanza, resteremmo con un fastidioso senso di insoddisfazione. Tranquilli, lo sapremo. Anzi, lo sappiamo già. Perché l’autrice sta lavorando al personaggio, lo sta sviluppando, lo sta conducendo da noi, finché come nei più grandi noir esclamiamo: Santo cielo, allora era lei quella donna! E per lo stupore abbiamo una piccola vertigine.
Vetro, che dà il titolo al libro, è il Male, il fulcro su cui si appoggia la svolta narrativa, quando dopo la deflagrazione della violenza fascista entriamo nella resistenza, ritrovando i nostri personaggi che sono usciti dall’infanzia e corrono a tappe forzate verso l’età adulta. E qui entra in campo la seconda eroina, Ines. Forse per “una questione privata”, per seguire il tenebroso, nervoso ragazzino Bruno (diventato il comandante Diaz), di cui sia lei sia Redenta sono innamorate, diventerà una comandante partigiana
Le pagine sulla resistenza sono intense, avventurose. Nicoletta Verna ovviamente non ha vissuto quell’esperienza, per cui, oltre a una accurata ricerca storica (l’eccidio del villaggio di Tavolicci, pagine brucianti di atroce violenza nazifascista, è realmente accaduto per mano di un battaglione di SS italiane) è inevitabile la lezione di Fenoglio, del Partigiano Jonny e, appunto, di Una questione privata. Ma non vi è nulla di retorico o didascalico, le anime dei personaggi sono vive, sempre all’erta, segnate dalle contraddizioni e dai desideri e dalle speranze, quella questione privata che costituisce la forza motrice di ogni evento. Ines sente di avere una missione che la spinge, la domina, ma l’autrice ce la rappresenta in tutta la sua debolezza umana: quando sta per giustiziare il gerarca criminale di guerra Graziani, in una formidabile azione gap, la mano si rifiuta di premere il grilletto. E per questo sarà divorata dal rimorso.
Coraggio, rassegnazione, sprezzo del pericolo, paura, amore totale e disperato, tutti questi sentimenti ricorrono nel racconto epico, che, come in una sinfonia quando gli strumenti iniziano a preparare il finale, vira inesorabile verso la grande tragedia della storia.
Dopo questa tua recensione non posso che correre ad ordinarlo.
Grazie, Mauro!