Buena Vista Social: Alessandro Trocino
Questa rubrica è normalmente dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. Oltre alle cose anche le persone attraversano talvolta le misteriose maglie delle reti, e sconfinano come pensieri liberi.effeffe
Su, in strada
di
Alessandro Trocino
Christian Raimo me lo passa al telefono: «Se vuoi parlargli è qui, è un po’ ciucco». Janek ha una bella voce squillante, anche se un po’ strascicata. «Sì, mi sto curando dall’alcolismo, ma senza alcol non riesco a vivere. Non lo so perché. Non lo so. Voglio smettere ma un po’ di vino o birra devo, sennò non funziono. Bevo da 50 anni. Ho fatto percorso di cure psichiatriche, ho fatto ricovero. Lì non bevevo ma poi davo soldi a infermiera e bevevo. Sì, anche a Rebibbia. Lì ti danno tre birre al giorno o mezzo litro di vino, ma poi paghi e bevi quello che vuoi».
Janek Gorczyca è uno scrittore. C’è il suo nome in calce alla copertina di «Storia di mia vita», appena uscito da Sellerio. Che effetto t’ha fatto? «Boh». È uno scrittore ma anche una persona che ha vissuto per anni per strada, dormendo nelle tende, sulle panchine, nelle strutture abbandonate. Quello che una volta si chiamava barbone, per i più raffinati «clochard» o «vagabondo», poi «senzatetto» e ora «senza dimora». Prima andava a farsi solo le lavatrici e qualche doccia, dal 2017 dorme a intermittenza a casa di Raimo, che è scrittore, insegnante, attivista e che alla militanza politica unisce una coerenza di vita. Insieme a Janek viveva la sua compagna di vita, Marta, anche lei senzatetto per molti anni.
«Perché se avevo tutte altre possibilità, alla fine ho scelto la strada peggiore da immaginare?».
A un certo punto, qualche anno fa, Gorczyca torna a Rebibbia. Per una di quelle assurdità giuridiche che perseguitano chi ha problemi con la legge, i magistrati fanno un ricalcolo della pena residua e si accorgono che deve scontare ancora qualche mese. Gorczyca torna in carcere. Forse per un furto di auto di qualche anno prima, forse per un’aggressione. Da Rebibbia scrive lettere all’amico Christian. Che le legge e pensa: qui c’è qualcosa, sì è sgrammaticato ma ha una forza narrativa incredibile. Durante il periodo del Covid, anche per sfuggire all’angoscia del lockdown, gli dice: «Janek perché non scrivi qualcosa? Perché non scrivi la storia della tua vita?».
Ci dice Raimo: «Mi ha sempre fatto incazzare che i poveri vengano scritti e descritti da altri. Già in politica mi infastidisce che sia impossibile la soggettivazione delle persone subalterne. E poi trovavo paradossale che ci fosse tutta questa retorica dei mille progetti sulla povertà e di fatto quello che vedevo in giro, non era solo indifferenza ma una forma di assistenzialismo, di moralismo, di paternalismo. Così gli ho detto, prova. Scrivi di te e di Marta».
Janek ci pensa un po’, poi comincia. Di giorno fa il muratore, di notte scrive a mano su dei quaderni, in stampatello, a caratteri grossi. Senza punteggiatura, con diversi errori di grammatica, senza articoli. È un periodo duro. Marta sta molto male. Beve, come lui, ma soprattutto ha un tumore, che tornerà più volte. Janek vive a Roma da 30 anni, conosce bene l’italiano ed è un tipo colto, anche se naturalmente ha una formazione disordinata, una cultura quasi schizofrenica. Quando gli chiedi se ha letto libri in italiano, si offende: «Questo mi prende per altro. Ha sbagliato persona. Io ho letto Faletti. Seneca. Puskin. Tolstoj. Posso citare a memoria mitologia latina e greca». Il suo scrittore preferito però è polacco: Adam Mickiewicz, scrittore e patriota, eroe dell’Ottocento. Giuseppe Mazzini lo definì: «La natura poetica più potente del secolo».
L’incipit del libro è folgorante.
«Questo sarà un breve racconto di mia esperienza sulla vita per la strada. Tutto comincia nel 1998 di ottobre, io sto in una stanza a Campo dei fiori, contratto di lavoro scaduto, permesso di soggiorno uguale, ho un milione e mezzo di lire in tasca, e penso come riprendere tutto, ma non è facile».
Janek racconta la sua storia come un cronista, attaccato ai fatti. Pochi aggettivi, pochi commenti, la sua vita rocambolesca, quella di Marta e dei suoi amici che trova per la strada. In quei giorni conosce Christian, che allora studiava all’università e frequentava la comunità locale come volontario.
Non è un capolavoro questo romanzo, eppure è un libro unico, originale, emozionante, da leggere tutto d’un fiato. Il sospetto di un’operazione commerciale ti coglie subito, sin dal titolo: «Storia di mia vita». «L’avevamo ben presente – dice Raimo – ma con Mattia Carratello di Sellerio abbiamo fatto un editing leggerissimo. Mi sono dato come codice quello di intervenire solo dove il testo non fosse comprensibile e dove ci fossero ripetizioni. Per il resto qualche correzione degli errori, sempre insieme a lui. Alcune sgrammaticature abbiamo deciso di lasciarle. Non tolgono nulla alla dimensione letteraria e alla qualità narrativa del testo».
Che non scade mai nel pittoresco, nel gratuito. Non sono, per capirsi, le frasi ad alto sospetto di manipolazione di «Io speriamo che me la cavo», con la loro sintassi sgarrupata. Qui l’italiano zoppicante dà ancora più forza al testo, lo rende più «vero» e più credibile. Anche perché la sua è un’operazione di pedinamento della realtà.
Nel ‘99, senza soldi e senza alloggio, Janek decide insieme a Marta di andare a vivere a Villa Farinacci, che fu un tempo rifugio del gerarca fascista e che era stata abbandonata.
«Dal primo giorno rinuncio di nascondermi. A distanza di anni mi domando che cosa mi ha spinto di fare questa scelta difficile. Sentimenti? Ne ho pochi. Carattere ribelle? Mancanza di senso della responsabilità? Più probabile voglia di vita un po’ sbandata».
È questa voglia di vita sbandata che lo porta a vivere con gli altri per strada, in situazioni di abbandono, sempre a rischio. Eppure lavora come fabbro, porta a casa soldi. Perché non si trova una casa? «E che ne so – dice lui – forse voglia di vita ribelle». Ma non è solo questo, dice Raimo. A un certo punto gli trova una casa lui, a Quartaccio: «Ma non ce la facevano a starci. Certo, è una casa, è un tetto, è un posto tranquillo, lontano dai pericoli. Ma quando ci sono condizioni di povertà estrema, quando sei alcolista grave, la cosa più intollerabile è la solitudine e la mancanza di solidarietà. Vivere per strada e con della gente, con cui magari mangi un panino, per loro è spesso preferibile rispetto a vivere da solo e isolati dal mondo. Rimedi un bicchiere e ti ributti con le ossa rotte su una panchina». Intorno c’è un’umanità, magari criminale o sbandata, magari folle o disperata, ma comunque persone che sono come te e sono lì con te.
«Io ho la benzina per il gruppo elettrogeno, me la rovescio sulla testa, prendo un accendino e domando a Marta: devo accendere?»
La storia con Marta è straziante, raccontata con durezza e pudore, sin dal primo incontro: «Nasce un sentimento». Questo sentimento resiste a tutto, ai ricoveri, all’alcol, alle malattie, alle botte, ai tentati suicidi. Non c’è niente di stucchevole, di finto, c’è una vita come quelle che per strada non vediamo e che magari abbiamo letta raccontata da Victor Hugo e da chissà quanti altri. Ma leggerla nelle parole di uno di loro è un’altra cosa.
«Per me è un ricordo doloroso e mi sono posto una domanda, perché lei deve soffrire tanto, ma dopo mi sono reso conto che questo era destino suo e anche mio».
A un certo punto del libro, Janek racconta la sua prima vita, picaresca come l’altra. Il lavoro nelle centrali elettriche in Polonia e in quelle nucleari in Russia, il matrimonio con una russa e la separazione, le missioni folli durante il servizio militare, l’arrivo di Solidarnosc. La sua rabbia e la decisione di abbandonare la Polonia per sempre. Sta per andare in Finlandia quando qualcuno gli dice che è meglio l’Italia. E così arriva a Roma.
Janek ora farà le presentazioni del suo libro, come uno scrittore qualunque. Ha ricevuto i soldi dell’anticipo, che può anche usare, perché dopo molti problemi Christian è riuscito a recuperare il suo pin. Si gode questa popolarità inaspettata, a 62 anni, come scrittore. A noi racconta: «Quando ero in carcere ho conosciuto Valerio Giusva Fioravanti, che lì faceva lo scrivano. Siamo diventati amici. Quando sono uscito, sono andato a trovare lui e Francesca Mambro a casa loro. Lo so che sono stati condannati per strage, ma di questo non parlavamo mai. Nessuno è cattivo. Poi può succedere di stare in mezzo a cose sbagliate. Ma combattiamo. Un altro br, Vittorio Antonini, quando è uscito ha fondato una biblioteca, Papillon».
«Qui voglio finire mio racconto, perché ho sofferto troppo».
E ora? «Voglio scrivere ancora. Di persone che vivono per strada. Di chi è pagato per aiutarli e non fa nulla. Sapete quante persone stanno per strada? Le vedete?».
“Questo articolo è stato pubblicato originariamente nella newsletter del Corriere della Sera Il Punto – La Rassegna”