Personaggi oltre le righe. Rileggere Brianna Carafa nel suo centenario
di Anna Toscano
Nella cinquina del Premio Strega del 1975, vinto da Tommaso Landolfi, comparivano i nomi di Eraldo Miscia, Laudomia Bonanni, Vittoria Ronchey e Brianna Carafa. I nomi delle scrittrici ritornano tra vincitrici e finaliste dello Strega in quegli anni, Brianna Carafa no. Arrivata in cinquina nel 1975 con il romanzo La vita involontaria, edito da Einaudi, libro di cui Italo Calvino e Claudio Magris, tra gli altri, scrivono benissimo, Carafa non era lontana dalla vita letteraria del suo tempo. A Roma, sua città di adozione, negli anni Cinquanta, lei architetta di primi studi e poi psicologa per scelta, era nella redazione della rivista culturale “Montaggio” e già aveva pubblicato racconti e poesie. Erano state le poesie, edite nel 1957 dall’editore romano Carucci, e i racconti apparsi in riviste a farla conoscere come scrittrice.
La sua è una scrittura distaccata e precisa, una penna che cerca nella storia dei suoi personaggi i tasselli dissonanti, una pervicacia nell’affondare nell’animo umano per parlare di follia, margini, voragini e scelte, che si è confermata nel suo secondo romanzo, Il ponte nel deserto, uscito postumo nel ’78 per Einaudi.
Nata nel 1924 a Napoli e confrontatasi sin da bambina con figure femminili che avevano intrapreso vite non convenzionali – la madre precipita mentre pilota un aereo sportivo nel golfo di Napoli, la nonna paterna traduttrice di Tolstoj, la nonna materna grande attivista per i diritti delle donne – aveva deciso di lasciare il padre, duca Antonio Carafa d’Andria e la di lui madre per trasferirsi a Roma da Marianne Frankenstein Soderini, la nonna materna.
La sua formazione come architetta e poi quella come psicologa non ha diviso i suoi campi di attenzione, semmai ha intrecciato l’indagine di Carafa sull’animo umano a partire dall’essere e dai suoi manufatti, piccoli o grandi che siano: una sorta di sguardo sulle cose con due diverse, opposte, acute prospettive. La sua prematura morte ha fatto sì che vari strati di polvere cadessero sulle sue opere. Ma per lei, come per molte altre scrittrici del passato, tale è stata l’unicità dei loro libri da farli sopravvivere all’oblio.
Per noi che amiamo spulciare le bancherelle di libri usati, le casette del bookcrossing, i siti di vecchi libri – per noi che a ogni scaffale del reparto usati ci pare di esser morti e di vedere lì i nostri scaffali – Carafa è una vecchia conoscenza e le edizioni Einaudi, acquistate a uno o cinque euro alla copia, erano pure regali scelti col cuore per le persone care.
Quando in piena pandemia si guardavano le coste dei libri delle proprie librerie casalinghe, li si sfogliava e spolverava pensando sempre più titubanti al futuro, quasi si coccolava questi libri come compagni corpi di casa, ecco la notizia che la casa editrice Cliquot inizia a ripubblicare proprio Carafa. In tempo di lockdown esce La vita involontaria, poi il secondo romanzo e i racconti, mettendo in moto un interesse molto vivo per questa autrice.
Oggi, che ricorre il centenario dalla nascita di Brianna Carafa, ci teniamo a ricordare i libri di questa grande scrittrice, a rileggerli, anche in vista di un volume di inediti in uscita il prossimo anno, sempre per Cliquot.
La vita involontaria, in cinquina allo Strega nel 1975, ha come protagonista Paolo Pintus, un ragazzo che cerca di crescere e diventare adulto nonostante le aspettative di genitori e familiari, quasi ormai tutti sepolti. La storia dei suoi parenti, le loro proiezioni dal passato sul futuro del ragazzo lacerano Pintus. Lui prova a districarsi nelle relazioni umane cercando risposte che non sa darsi, decisioni che non sa prendere, guardando alla storia dei suoi genitori e di suo nonno cercando risposte che non trova e divincolandosi dal loro esempio. Il punto di osservazione sembra dipanarsi su una tangente unica: cosa determini ciò che siamo.
Pintus fa ogni cosa affinché il proprio passato non determini il suo futuro, per essere in grado di compiere una scelta propria. La storia del nonno, la casa dai tetti rossi, l’osservazione delle persone sono le tre costanti della narrazione: cerca dall’unica zia vivente il motivo per cui il nonno urlasse recluso in una stanza, non avrà mai risposte ma riuscirà a darsele da solo. Il ricordo dei Tetti Rossi, luogo misterioso e taciuto da tutti sebbene sotto gli occhi della città: un manicomio.
Lascia ancora ragazzo Oblenz, città natale sul mare, per andare in una città fredda e sconosciuta a studiare in una facoltà che non lo interessa. Nella nuova città, Vallona, Pintus affronta un percorso di formazione fortemente determinato dalle assenze degli amici – chi lo ha tradito, chi deluso, chi si è suicidato – dalla presenza di donne – nel percorso di lasciare ed essere lasciati, del subire il gelo o farlo subire – e dell’alcol che spazza via tutto.
La storia si svolge per incontri: è l’incontro con l’umano, che talvolta si rivela inumano, che mette in grado Pintus di dare uno scacco alle aspettative degli altri e al contempo farlo crescere nelle proprie aspettative. In un attimo di rivalsa su sé stesso sceglie un luminare di psicologia come mentore e la facoltà di psicologia per vedersi nel futuro, per mettere insieme tutte le tessere del mosaico di sé che ha a disposizione. Pintus tornerà ai Tetti Rossi con la conferma di quanto aveva intuito sin dall’infanzia: che il disagio psichico per i ricchi è una stanza ben ovattata, per i poveri un manicomio di cui nessuno osa parlare, che l’essere umano è composto di bene e male e che è una scelta quale delle due strade intraprendere.
Con il secondo romanzo, Il ponte nel deserto, Carafa affonda ancor più le mani nel fango dell’umano nelle sue contraddizioni, per stenderlo sulla carta. È Roberto Berla, chiamato Bobi, il protagonista: le foto sul pianoforte che lo ritraggono da bambino, accanto alla perfetta sorella, sono mosse e lo sgabuzzino in cui viene spesso rinchiuso dalla fida cameriera della madre perché è svagato è pieno merletti mangiati dalle tarme. Il bambino non rispecchia le aspettative di una ricca famiglia che preferirà decretare su di lui una colpa anziché una malattia, diventerà un importante ingegnere senza perdere la sua vaghezza. La colpa, che invece era malattia, lo condurrà a una fine tragica per chi fa parte di quella ricca borghese società pronta ad additarlo, a una fine che Bobi prenderà con sollievo nella sua svagatezza.
Nella raccolta di racconti Gli angeli personali Carafa attingerà alla sua storia personale, regalando ritratti di grandi personagge, come la governante o la nonna materna, sempre con la sua scrittura curata, un lessico sorvegliato e preciso, uno stile che ricorda la narrativa mitteleuropea a lei contemporanea.
È l’umano che interessa Carafa, un umano in una storia critica, difficile, altra, che lo pone ai margini di una società preconfezionata che vuole metterlo per sempre in un luogo oscuro, uno sgabuzzino, una casa dai tetti rossi o una stanza isolata. Carafa ci dice con le sue narrazioni che è a lui che bisogna guardare, come lo diceva in poesia già nel ’57: “Lascialo entrare: /lascia cercare al forestiero /nei tuoi occhi /l’immagine di sé /che tu portavi e non volevi dargli”.