Les nouveaux réalistes: Gennaro Pollaro
Pazienza
di
Gennaro Pollaro
Apro gli occhi e vedo il signor Aiello disteso sulla sua sedia di paglia con un bicchiere mezzo vuoto tra le mani.
“Dove siamo?”, gli chiedo affondando nel divano come nelle sabbie mobili.
Il signor Aiello si dondola senza distogliere i suoi occhi dalla mia figura e inizia a far oscillare un ciondolo. Non amo essere fissato in questo modo ma è come se lentamente, senza alcuno sforzo, il signor Aiello fosse capace di sentire la mia profondità.
Il fischio del signor Aiello, seguito dal graffiare della sedia sul pavimento, ha la stessa frequenza di una macchina da cinema. Tic tac tic tac tic tac. Un treno passa e di colpo mi sbatte all’interno. Poi avanza, si ferma per accogliere il passeggero che attende sulla banchina di nebbia. Si tratta di un uomo vecchio, ha l’odore dei guanti di cuoio di Marie e una particolarità: è in bianco e nero, come nei film del dopo guerra, vestito di un’uniforme militare.
“Posso sedermi?”
“Faccia pure”
Si piega con la schiena e aiutandosi con le mani, sulle ginocchia scricchiolanti, prende posto su una poltrona. Il rumore che fa la poltrona è quello di un vecchio pouf. Sembra sgonfiarsi e infine regge l’urto degli anni come se fosse niente.
Ma il vecchio non si persuade e freme all’idea di sedersi accanto a un giovanotto che gli ricorda certo qualcuno in un tempo lontano. Indica me e le colline. Poi aggiunge:
“Il viaggio sarà lungo e avremo a un certo punto voglia di riposarci. Ho lasciato una donna per una destinazione fisica perché l’amore è come un fiore e nonostante si annaffi alla fine muore.”
Poi il treno rallenta davanti a un pannello che indica la stazione successiva.
Una mano mi prende per la camicia tirandomi giù dal treno che parte con sopra l’uomo e il signor Aiello.
Arrivato al villaggio mi accorgo di trovarmi sulla stessa panchina in cui Marie mi ha lasciato ieri. Davanti a me, contro ogni ragione logica, al posto del gazometro c’è una pasticceria. Qui non si vendono tiramisù, c’è scritto sulla porta di vetro. E così avvicino il naso e sento il contrasto del mio alito. Non riesco a vedere ciò che sta all’interno. Mi frugo nelle tasche alla ricerca di una chiave ma trovo un pezzo di carta sul quale vi è disegnato un castello; poi l’orologio della piazza, che segna le sette in punto, batte sette colpi. Immagino il corpo tondo di Marie e, in bilico sui miei piedi, mi incammino sui sampietrini della città che inizia a scaldarsi sotto il sole del mattino.
Non mi riesce proprio di rigare dritto. A ogni passo ciondolo a destra, poi a sinistra, e quando incrocio la mia figura nei vetri vedo sotto gli occhi due borse di fatica. Ho la sensazione di osservare un altro me stesso. Un bambino che non ha mai dimenticato quel viaggio.
Mi incammino verso la stazione per riprendere il treno ma non è come me la ricordavo. Al posto del sole ci sono le nuvole, ma è soprattutto l’odore delle strade a confondermi. A ogni passo tiro su col naso per sentirle. Sento invece come se quell’odore di zolfo che passava tra i palazzi si fosse mischiato con il profumo della pietra di una città sconosciuta.
Penso a Marie che a novant’anni non ha mai avuto la possibilità di confondere un tiramisù con un ricordo. E penso anche all’odore dei broccoli che è la cosa più buona del mondo.
Poi la voce del signor Aiello arriva prima del rumore dei suoi passi.
“Ci sono progressi”, dice.
Trattengo le parole nello stomaco e mi verso un bicchiere. Gli chiedo di continuare la sua magia ma il signor Aiello risponde che per il momento basta così. Gira la testa in direzione di una porticina e come un gatto fila via, nella direzione da cui è venuto, senza svelare il suo segreto.
Sento come se nell’aria ci fosse qualcosa che mi trattenga più del dovuto. Le luci bianche all’ingresso vorrebbero sollevarmi. I meccanismi spigolosi delle macchinette del caffè giocano un brutto scherzo. Lontano, verso il muro di mattoni, mi accorgo di non essere lo stesso. Pure il cartone sul quale c’era scritto fragile non c’è più. Quel cartone sono forse io?
Il solo ricordo immutabile è Marie che cuce i guanti senza pensare a dove sia finito io. Chissà se mi sta cercando. Chissà se le importa veramente di me.
Il sole tramonta sulla destra e il paesaggio fuori si muove. Sto andando così a rilento verso sud?
Il signor Aiello ha gli occhi come cotonati. Minacciose sopracciglia mi osservano come se qualcuno avesse paura. E quello sono io.
Impagliato sulla sedia osservo uno scenario di fango. Una mosca si posa sul mignolo ma si tratta di un corvo.
È inverno.
Io e Marie, a due a due, andiamo a domicilio d’usura. Un luogo in cui statuette e monili impacchettati fanno compagnia a penne d’oro e pezzi di carta volanti, attaccati fra loro da cordacchie.
“Sedetevi”, fa il signor Aiello a me e a Marie.
Marie mi spinge da dietro come se fossi un’altalena. Mi altera la calma che ho dentro dal mattino. L’odore è di polvere e starnuti, poi viene il momento del contratto.
“Sono diecimila lire se paga entro quindici giorni, poi cinque punti a settimana fino a un massimo di dodici”, fa il signor Aiello.
Marie mi stringe le nocche della mano. Ritengo siano unghie di felicità malgrado provi dolore.
Il matrimonio d’onore è fatto tra noi e il signor Aiello dal cuore d’oro (come i monili).
“Se lo vuoi, puoi”, mi dice il signor Aiello.
Me ne infischio.
Troppo facile parlare quando si ha una carta parati gialla e dei lampadari ad olio.
Dal terrazzo odo i clacson che provengono dal basso. Il caffè nelle rotte tazze mi ricorda ceramiche matrimoniali. Affari degni di un primo ministro in guerra con se stesso. Provo a ripristinare le origini perché non posso combatterle. O forse sì?
“Gli scompensi energetici sono tutt’affatto normali”, dice il signor Aiello.
“Mi ricordano il mago di Oz”, rispondo.
“Lo conosce?”
“No”
Sono condannato, da sempre, a subire sortilegi.
“A cosa serve complicarsi la vita alimentandola con personaggi così potenti?”, mi dice il signor Aiello.
Marie mi sorride sempre. Diventa seria solo quando cucina – pasta coi broccoli – e si proclama anche direttrice della parte lavativa.
La sola difficoltà che trovo con Marie è che talvolta ho come l’impressione che le mie parole non le arrivino spulciate. Forse è per questo che sorride? Ha di me l’idea di qualcuno che in realtà non esiste?
Mi attacco a un’immagine che ha la consistenza di uno yougurt: Marie sembra sparata da un cannone e dalle orecchie fuoriescono scintille. Ogni minima scarica elettrica, da quando sono chiuso qui, è capace di farmi entrare in contatto col mio io e questo mio sconquassa.
Al terzo colpo di ciondolo sono proiettato in un posto in cui un tizio che somiglia al signor Aiello prende per mano una bambina. Entra in un bar parlando una lingua straniera e parla al cameriere, poi accarezza un cane.
Io ripenso a Marie che col suo cane ci parla da sempre – ma senza quel sorriso.
È la depressione a soffocare la loro comunicazione. È per questo che Marie e il suo cane si comprendono: perché non si dicono niente.
Poi il tizio che somiglia al signor Aiello, dopo aver ordinato un cocktail, paga in contanti tirando fuori un portafoglio. Non lascia mancia ed esce in direzione di una chiesetta medievale. Intorno la gente li ignora. Ognuno fissa il davanti respirando a stento. Poi il signor Aiello lascia quella bambina davanti all’ingresso. Essa somiglia a Marie in una foto da piccola.
Il signor Aiello tiene le mani sulle ginocchia e mi osserva aspettando che io dica qualcosa. Mi posiziona sul divano e mi chiede di imitare la sua posizione. Di colpo dice:
“Muoviti, che non abbiamo tempo”
Io penso che il tempo non esista.
“Muoviti, dici qualcosa”, insiste il signor Aiello.
“Come in una prigione fui impiantato e poi sradicato come una pianta”, farfuglio.
Il signor Aiello mi osserva, poi abbassa la testa sul suo orologio e mi dice:
“Va bene così. Per oggi va bene così”
Non ci capisco niente di questo andare e venire per i vicoli della mia mente. Ho come l’impressione di vivere due vite. Una in cui c’è il signor Aiello. L’altra in cui ci siamo soltanto io e Marie.
Secondo il signor Aiello tutto dovrebbe risalire a quando qualcuno ha deciso che, uno:
si deve venire al mondo, e due:
il trasferimento genetico non sarebbe l’unica fonte di convergenza.
Gli ho confessato che prima di abitare con Marie, io vivevo con un topolino che mi aveva regalato e con persone che Marie conosceva molto bene. Una delle quali addirittura la conosceva moltissimo e mi somigliava abbastanza.
“Somatismi e modi di fare”, secondo il signor Aiello, “vengono da esperienze antiche di anni e forse pure millenni!”.
Un’aristocrazia che non considera i valori assoluti ma solo un luogo chiamato casa.
“Ci sono popoli per i quali…”, dice il signor Aiello.
Con uno sguardo interrompo il suo flusso e mi scuso.
“Ci sono popoli per i quali la casa è soltanto un concetto mentre per qualcun altro essa è un cono che spara fuoco a palla…”
“E per lei, cos’è una casa?”, gli chiedo.
Il signor Aiello fissa una particina alle mie spalle.
“Sono io a fare domande qui”, dice.
Poi si alza e guarda fuori la finestra, aggiungendo:
“Le regole, quelle maledette!”
Il signor Aiello mi spiega – senza aprire bocca – in quale luogo sarebbe sensato trovarsi l’origine delle mie preoccupazioni. Muove le mani sulla sua testa come a formare un cerchio e poi tira fuori ancora quel maledetto pendolo.
Entro in un posto che suppongo il signor Aiello non abbia mai visto. Lo suppongo perché il signor Aiello, tutto quello che ha visto, lo mette nella sua stanza sotto forma di oggetti o infusioni d’aria calda che proviene da candelotti verticali. E qui non vedo niente.
Poi mi propone un gioco.
“Prendi un foglio dalla risma e inizia a scrivere”
Lo guardo dubbioso.
“Scrivi, cazzo!
Il signor Aiello ha riassunto come segue i miei scritti complessi:
Nonostante le cose non vadano come devono andare, il mio paziente sente che un giorno ce la farà. Il pizzicore agli occhi è un buon punto di partenza. La sua schiena stanca attesta il lavoro che stiamo compiendo.
Il primo ricordo del mio paziente è un bambino che se ne sta su una girella di plastica. Prova piacere nel camminare a piedi nudi, sui quadrati rossi incastrati del pavimento freddo. Poi si muove per arrivare a destinazione. L’unica che esiste: Marie.
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Bellissimo !
Una mano che amo me lo ha offerto, è un oggetto tra tanti, ma che non è privo dell’incanto dell’appartenenza perché ha un valore enigmatico, dell’ordine dell’essenza, non dei conteggi, a cui non manca certo la realtà così derisoriamente immaginaria del dono: non “doron”, ma “dosis”, non “donum”, ma “datio”. Ti ringrazio per il dono della tua visione ipnotica. Ignoro le ragioni del tuo dare. Le mie, spesso, sono state ridicole, violente, fragili in definitiva. Suppongo, per come mi arriva, che la tua abbia la delicatezza delle passioni screziate. Per questo ti scrivo. Per quello che vale. Grazie Gennaro, per ragioni che in questo caso sei tu a ignorare.
Questa “scrittura-carburante” si nutre anche di parole come le vostre e si consuma nella speranza che la ruota del dono continui… cioè che ci spinge (sono sicuro che si tratti della stessa sostanza) è sconosciuto e per questo inesauribile – perché, a mio avviso, non lo si può comprendere.
Grazie a tutti !
E un grazie speciale a effeffe !