CJ Leede: «questa è la mia storia, e voi non potete controllarla»

 

 

Nel segno di Hermes e da un’idea di Tiziano Cancelli nasce Mercurio, casa editrice fondata insieme a Matteo Trevisani, Antonio Sunseri, Leonardo Ducros, Simone Caltabellota e Francesco Pedicini.

I libri di Mercurio, leggiamo nel comunicato inaugurale, «sono narrazioni sulla soglia: al confine tra i mondi, tra i generi letterari, tra l’oggi e il domani. I libri di Mercurio, attraverso le loro evocazioni letterarie e contemporanee, convocano un rituale collettivo per resuscitare quella forza vitale, quell’entusiasmo feroce che solo le storie, a cavallo fra i mondi, sono in grado di catalizzare.»

Tra i primi titoli c’è Maeve, romanzo di CJ Leede tradotto da Gaja Cenciarelli, candidato ai Bram Stoker Awards e vincitore dell’Octavia E. Butler Award.

Ospito qui, in anteprima, i due capitoli iniziali.

 

I

Gli uomini condividono tutti lo stesso sogno ed è questo: Sposare un tesoro di ragazza. Vivere un’esistenza degna e piena di successi – grazie agli insegnamenti paterni. E, una volta raggiunto l’apice dei traguardi filiali e genitoriali, dopo aver finalmente conquistato l’imponente vetta della virtù, dell’onore e di un’incontestabile virilità, allora e solo allora, vedersi strappare moglie, figlio e cane. In modo brutale, spietato.
Riappropriandosi, finalmente, della libertà.
Perché si è comportato da uomo buono e giusto, e proprio perché quella scomparsa lo ha trasformato in vittima, l’uomo virtuoso potrà votarsi, con il pieno sostegno dei presenti, alla violenza, alla rabbia, al nichilismo e alla dissolutezza. Che, per tutto il tempo, sono stati il suo fine ultimo. Perdersi nell’estasi gloriosa e giustificata della rappresaglia. Quanti mariti hanno fatto la fila davanti alle biglietterie per vivere la stessa fantasia, oggetto dei desideri più profondi, viscerali e selvaggi?

Gli uomini sono creature insipide, stupide.
Ecco la verità, quella che solo pochi di noi conoscono: Non ti serve una storia edificante e virtuosa per fare quello che vuoi. Non sei costretto a essere prima una vittima per poterti poi trasformare in un mostro. Non c’è bisogno di vedersi strappare via i propri cari per potersi dare all’alcol, alla violenza, all’inseguimento della gloria. La vita è fugace e senza senso, e muore dalla voglia di essere presa da dietro e scopata fino all’oscurità.

Non più di quanto possiate controllare il vostro sesso che penzola sempre più in basso, né il surriscaldamento di questa grassa, pigra galera di pietra che galleggia nel buio costellato da schizzi di sperma.

Mi chiamo Maeve Fly.
Lavoro nel posto più felice del mondo.

 

II

Io e Kate siamo in ginocchio, una di fronte all’altra, nella sala del castello della regina di ghiaccio, vestite da principesse, come ogni giorno. Guardo una goccia di sangue, e poi un’altra, cadere dal naso di Kate sulla testa del bambino seduto su di lei.

Kate è bellissima e ha i postumi di una sbronza. È una gemma opaca ma comunque preziosa in una grotta artificiale buia e pseudonordica. Lo dico in senso letterale. Le pareti di questa sala sono state dipinte per sembrare un castello scandinavo qualsiasi, che non assomiglia affatto ai pochi castelli scandinavi realmente esistenti.

Kate ha ventisei anni, uno meno di me. Il bambino che ha in grembo indossa una maglietta di un qualche cartone animato e ha dello zucchero filato incrostato alla faccia. Il sangue che cola dal naso di Kate non può che migliorare un’immagine già desolante. Sembra che la madre non se ne sia accorta. Oggi è un martedì di settembre, e i genitori rabbrividiscono in quest’aria artificiale, mentre il sudore della California meridionale gli si raffredda disgustosamente sulla pelle.

«Che carino il tuo vestito! Sta meglio a te che a me!», dice Kate alla ragazzina seduta accanto a me. Questi bambini sono fratello e sorella, e io non riesco a non considerarli in competizione. Un giorno uno dei due mangerà l’altro, uno dei due ruberà il marito o la moglie dell’altro. Il piccolo, quello con lo zucchero e il sangue, non avrà più di quattro anni e, nonostante ciò, la sua mente è già al lavoro.

A un certo punto pare capire, con grande chiarezza, la fortuna che gli è capitata. Seduto su una donna con cui non spartisce alcun legame di sangue, il viso vicinissimo a quei seni giovani e sodi. Ha la bocca aperta, e gli occhi fissi su uno dei capezzoli di Kate. Con i costumi dobbiamo indossare il reggiseno, ma a Kate non importa molto. Io non mi lamento. E nemmeno questo bambino.

La bambina accanto a me fa una piroetta nel suo abito da principessa. Il personaggio di Kate è la sorella minore del mio. Kate abbassa gli occhi e le rivolge un sorriso affettuoso. Nessuno si è accorto che le sanguina il naso. Il bambino tende la mano verso l’alto, appena qualche millimetro, verso l’oggetto della sua adorazione, lentamente, come se potesse non essere reale. Si ferma. Mi guarda: posso farlo? Sarò punito? È quello che vogliono sapere tutti gli uomini. Sorrido e gli strizzo l’occhio. Alla fine saremo puniti tutti. Allora perché no?

Mi piace da morire impersonare la mia principessa. La maggior parte delle bambine qui è attratta da quella di Kate, dato che lei è la sorella incrollabilmente virtuosa, la protagonista che non solo salva il villaggio, ma che si innamora anche di uno scandinavo bello e possente e con cui metterà al mondo altri scandinavi più belli e possenti. Solo alle ragazze devastate piace la mia principessa, la sorella dai poteri distruttivi, quella senza marito. Quella che recita il ruolo sia della principessa che della cattiva. Ne parleremo più avanti, ma il mio ruolo è rilevante, una sfida archetipica rara in un mondo così piatto e prevedibile. Lei è più che magnifica. L’unico lato negativo del nostro incarico è la canzone del pupazzo di neve che suona a intervalli regolari nell’arco della giornata e che consiste in un minuto e cinquanta di voce nasale. Una tortura insopportabile. I bambini vivono per quel momento.

Questo ragazzino, invece, sta traendo il massimo dai soldi spesi dai genitori e se ne frega della canzoncina. La sua attenzione è tornata al seno, e nei suoi occhi c’è una nuova determinazione. Dal naso di Kate scende un’altra goccia rossa che si mescola con i capelli del bambino e io mi sento travolgere da un amore profondo e incrollabile. Per Kate. Per questo lavoro. Per tutto.

Io e Kate abbracciamo la bambina e ci stringiamo per la foto. C’è la fila, non possiamo far aspettare gli altri. Siamo molto popolari al parco. Le più popolari, in effetti.

Mentre ci avviciniamo per entrare nell’inquadratura il bambino mi guarda e avverto l’importanza del momento quanto lui. Questo sarà il picco della sua infanzia, un giovane cavaliere coraggioso alla sua prima, vera impresa. E io sono la testimone di tale traguardo. Lo incoraggio, imperturbabile, con un cenno del capo. Lui capisce e si prepara a fare la sua mossa, sulla strada del destino.

Allunga la mano.
«Dite cheese!», grida la madre.
Il bambino dà una bella strizzata al seno di Kate.
Il flash si illumina. La madre grida. Kate ride. Il padre cerca di sembrare sconvolto, ma si vede dal sorrisetto nascosto a stento, da come modifica la postura. È fiero del figlio. Avrebbe voluto essere lui a mettere la mano sul seno della principessa. Finalmente asseconda la fantasia che, fino a quel momento, stando in piedi davanti a noi, non si era concesso. La carne morbida e soda paragonata a quella della moglie, ormai madre, la gioia proibita di una ghiandola mammaria ancora intatta, ancora non conquistata da lui. Ecco l’invidia dei padri per la loro progenie. Ecco come restano ancorati a quell’invidia, in eterno.

Lo guardo e inarco il sopracciglio, lui scrolla le spalle, per nulla dispiaciuto. Sa d’istinto che io so. Succede sempre a quelli che sanno.

 

Nel pomeriggio abbiamo mezz’ora di pausa. Entriamo nella stanza del personale. Cenerentola e Biancaneve mangiano yogurt senza grassi, senza zucchero e senza lattosio. Ci fulminano con lo sguardo. C’è una gerarchia ben definita tra le principesse, e la mia e quella di Kate sono tra le più giovani e popolari. I bambini hanno quasi dimenticato quelle vecchie. E poi, va specificato che noi – io, Kate, Cenerentola, Biancaneve, e le altre – ci troviamo nella posizione più bassa della gerarchia rispetto alle principesse che lavorano nel parco principale. Noi siamo in quello accanto, l’ultima aggiunta, che ospita giochi più adatti agli adulti, e le attrazioni per bambini – come ad esempio conoscere principesse – sono solo di complemento. Il nostro parco ha sempre meno visitatori del gemello accanto, l’originale. Apre tardi, chiude prima. Quindi essere Cenerentola o Biancaneve nel nostro parco è come essere la serie B della serie B, il che rende queste principesse estremamente livorose. Anche io lo sarei.

Le ignoriamo ed entriamo nello spogliatoio, dietro la stanza del personale. Ci togliamo la parrucca. Il colore dei miei capelli non è poi tanto diverso dal biondo platino del mio personaggio, ma siamo comunque obbligate a mettere la parrucca. I capelli di Kate, a differenza del rossiccio della parrucca, sono del rosso più vivo che si possa sperare di avere senza tingerseli. Sono così affascinanti che a volte resto a fissarli troppo a lungo. Filo di rame, piroclastite, sangue mestruale. Kate prepara le botte su un piatto di carta preso nella sala del personale, e le pippiamo dagli applicatori degli assorbenti interni. Me ne passo un po’ sulle gengive. Sistemiamo degli asciugamani sul pavimento e ci stravac chiamo a terra, appoggiandoci agli armadietti, e mangiamo gli orsetti di gomma per cui stamattina ho flirtato con il tipo del minimarket. Il rosso dei capelli di Kate manda bagliori fluorescenti. Ha una carnagione così trasparente che riesco a vederle il reticolo delle vene sottopelle.

Si apre la porta della stanza ed entra Liz.

Liz è quanto di più terribile possa esistere in un essere umano, quindi la mia nemesi. È odiosa e allo stesso tempo curiosamente affascinante. Liz adora le regole, adora attenervisi, esservi fedele, succhiare i loro piccoli cazzi metaforici con l’amore e la pazienza di una santa o di una donna che lo fa per soldi. È anche la nostra supervisora. Una specie.

La osservo mentre il viso le diventa paonazzo dopo averci visto. È una delle due modalità di Liz. Sono entrambe insopportabili, ma questa almeno mi sembra vagamente divertente. Kate dà una botta, e Liz incrocia le braccia sotto i seni debordanti, la fonte di tutta la sua disperazione. Le bocce. Le tette. Un tempo era una principessa, come noi, ma un bel giorno si è svegliata e ha scoperto che, durante la notte, il suo petto si era gonfiato così tanto da non entrare più nel costume. Oddio, per entrarci ci entrava, ma faceva la figura della pornostar, quindi la Direzione l’aveva convocata per comunicarle che i suoi giorni da principessa erano finiti. È la delusione più grande della sua vita, e non si riprenderà mai emotivamente. Liz è stupida e sexy, e non entrare più nel vestito diventando l’apoteosi di ciò che qualsiasi donna vorrebbe essere, anche sborsando dei soldi, per lei costituisce la morte di tutto ciò che di bello e buono esiste al mondo.

E questo manda fuori di testa Kate che, bellissima a sua volta, ucciderebbe per avere il corpo di Liz. Il fatto che Liz si dichiarasse dipendente dalle ciambelle – una dipendenza molto borghese e masochista che, peraltro, non le fa mai mettere su un grammo da nessuna parte – e una generica e sgradevole sensazione di adolescenza prolungata hanno mandato per sempre in fumo qualsiasi possibilità avesse con Kate. A me non frega niente di queste cose. Per me, il punto è solo lei, Liz. Una che non fa altro che andarsene in giro a controllare, o a crogiolarsi nel desiderio infinito di qualcosa che non tornerà più: la persona più inconsapevole che io abbia mai incontrato in questa città. La malinconia, i sospiri pesanti e gli sguardi famelici attaccati ai nostri vestiti da principessa, un desiderio così profondo da farmi venire la nausea. Liz è, in ogni senso e sopra ogni altra cosa, la creatura peggiore e più elementare che chiunque possa scegliere di essere. Una vittima.

Ora Liz è un personaggio in pelliccia, a volte uno scoiattolo, altre una topolina. Quando ha perso il ruolo da principessa ha montato un casino tale che la Direzione, tentando di soddisfarne lo spropositato desiderio di dare il suo contributo, e di evitare la vertenza che, ritenevano, sarebbe seguita (benché Liz non avrebbe mai fatto niente per infangare la loro reputazione), le ha attribuito il titolo semiufficiale di Principessa Supervisora. Non è una vera e propria carica e non le porterà un aumento di stipendio, lo so perché io e Kate abbiamo aperto di nascosto il suo armadietto per controllare le buste paga, né le darà altri benefit degni di nota, se non la sensazione di avere una qualche forma di potere su di noi.

«Ancora? Ancora? Vi farò licenziare, voi due siete strafatte!», sputa fuori Liz, con un sussurro febbrile.

«Rilassati, Liz. Fatti una botta», dice Kate.

«Se credete di poterla passare liscia con—»

«Scusa, con cosa? Con che cosa non dovrei passarla liscia?», dice Kate. «Mi pare di ricordare che potresti essere tu a non passarla liscia, Liz, se solo io, be’, lo sai…», si osserva le unghie, «insomma, se solo io dicessi qualcosa, o mostrassi qualcosa, alla Direzione».

Liz impallidisce.

Lei ama il parco. Lo ama più di ogni altro posto al mondo. Il suo sogno è quello di fidanzarsi indossando delle orecchie da topo identiche a quelle di un futuro marito, amante pure lui del parco, di sposarsi nel castello di Cenerentola, di passare una notte magica a sputtanarsi la verginità nell’ambita suite del castello del parco sulla East Coast che non riuscirà mai a prenotare. Nell’appartamento in cui convive con altri, la sua stanza è ricoperta di moquette bianca, piena di accessori del parco, e tutti i giorni fa colazione con ciambelle a forma di topo. Guarda a ripetizione i cartoni animati, soprattutto quelli vecchi. Non si è mai masturbata, mai nella vita, perché si sta conservando per un Ben o un Jake o un Paul che sarà senza dubbio vergine anche lui. Forse non Jake. I Jake in genere sono degli stronzi. Non lo so, sto scherzando. Voglio un’altra botta prima di ricominciare il turno.

«Non capisco perché passi il tuo tempo con lei. Sei meglio di così», mi dice Liz, ed è sincera. Ha sempre visto in Kate la cattiva e in me l’anello debole, e non ha mai sentito il bisogno di credere il contrario.

«Andiamo al Bab’s stasera?», mi chiede Kate, ignorando Liz. Il viso di Liz è tornato alla sua espressione ferita, lugubre, eccessiva, e in tutto questo io mi sto solo chiedendo se si sia mai tagliata il cespuglio o se la sua cosina scorrazzi selvaggia nelle mutandine di cotone da principessa.

«Sì, forse», le dico. Bab’s, abbreviazione di Babylon, è lo strip club stile Old Hollywood nel seminterrato del Gangplank, lo strip club stile piratesco dove in genere vanno tutti i turisti newyorkesi. Io e Kate ci andiamo perché quei turisti sono quasi sempre alla ricerca di ragazze californiane a cui offrire da bere nella speranza di alleviare il proprio jet lag, la rabbia quotidiana e qualunque altra specie di livore sepolta dentro di loro. Pronti a schizzare tutta quella roba fuori dai loro cazzi e dentro a qualcosa di consenziente – o quasi consenziente. Di solito è una questione di prospettiva, in ogni caso. E ripartono sempre il giorno dopo.

«Vorrei finire il libro che sto leggendo», dico, «magari dopo».

Liz fissa malinconicamente il vestito di Kate, fa un lungo sospiro mentre abbassa le spalle e si volta a guardare dietro di noi, nell’abisso infinito del desiderio.

«No, stronza, l’avevi promesso, ricordi? Mio fratello?» Kate si avvicina tanto che i suoi capelli mi sfiorano il braccio, sento il suo sudore e il profumo stucchevole dei grandi magazzini, lo stesso che dice di usare fin dalla pubertà. Intravedo anche il buco nella lingua dove aveva il piercing prima che se lo togliesse per questo lavoro. Quella lingua ne parla cinque, di lingue, una in più della mia. È così che ha ottenuto il lavoro, probabilmente è così che l’abbiamo ottenuto tutte e due. Di millennial troppo o poco istruiti ce ne sono a palate ma, in qualche modo, siamo finite entrambe qui.

E a quel punto mi ricordo. Suo fratello si è appena trasferito in città. L’avevo dimenticato. La mia mente è stata… altrove, negli ultimi tempi.

 

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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