Anna Maria
di Lorenzo Marchese
Anche se è venuta a stare da me pochi giorni dopo il nostro primo incontro, in completo abbandono, ha esitato parecchio a dirmi il suo nome. All’inizio non mi importava: la casa, svuotata di soprammobili e vestiti di mia moglie, aveva ancora meno senso di prima e non riuscivo a smettere di chiedermi perché sentissi la mancanza di qualcosa che negli ultimi anni mi aveva dato per lo più fastidio. Lei invece, insediandosi, non si portava quasi nulla dietro, e confesso che mi è piaciuta solo in un secondo momento per il suo corpo sottile, da ballerina, il volto isoscele e perfetto, la bocca intelligente che captava, prima di me, ogni vibrazione dell’aria. Il primo motore è stata quella totale dipendenza espressa in ogni sua parola, nei gesti, tanto più elementari e meccanici. È stato lì che le ho detto che l’avrei chiamata Anna Maria. In onore della grande scrittrice che è stata la Ortese, certo, e per una certa grazia sguarnita, estinta, che presumevo di ritrovare negli sguardi e nelle parole di entrambe. Anna Maria ha accettato la mia scelta sorridendo, la luce negli occhi verdi-gialli gettava scintille e li faceva sbiancare controluce. Da allora abbiamo imparato a riconoscerci con questo nome, chiamando da un angolo all’altro della casa. Nei momenti migliori, mi trova senza parlare. So sempre dov’è, e per lei è reciproco, pasto e cacciatore, un’intesa chimica che mi ero ridotto solo a teorizzare da lontano, ritrovata parlandoci nel contatto.
Un po’ tardi ma ci sono riuscito a capire che le parole, soprattutto se sono tante, e ponderate, servono solo alla dissimulazione di qualcosa che non puoi spostare. Fuori di casa, in questo periodo, mi dicono che ho l’aria felice e però sono più silenzioso, una somma che non torna. Sorrido, so io perché. Per lo stesso motivo, la lista dei contatti bloccati fra parenti e amici aumenta di settimana in settimana, e ne sto guadagnando, contro ogni previsione psicologica, un sereno insperato e netto. In fin dei conti sono stato fortunato a trovare un’altra presenza giusta, dopo così poco tempo dalla separazione. Solo da poco, non sapere più in che città abita mia moglie ha assunto la sfumatura consolante di un vero e proprio lutto: avendo accettato che dalla morte (anche quella metaforica) non si torna, per strano che sia dirselo (ma Anna Maria concorda con me), sto quaggiù con molta più buona volontà di prima.
C’era come un collante a tenere le sequenze della giornata nella mia vita di prima, i piccoli gesti che dovevo fare insieme per evitare il male: predisporre la moka da quattro per quando mia moglie si sarebbe svegliata, tirare fino alla base del collo la zip delle sue camicette per l’ufficio, davanti allo specchio del bagno darle un ultimo colpo di pettine per allineare il mio gusto e il suo volere in un riflesso, preparare la cena in base al giorno della dieta, aprire la porta con un saluto fatto in una lingua tutta nostra. Anna Maria ci ha messo poco a sintonizzarsi sui miei ricordi, forse mi si leggono in faccia molto meglio di quando provo a farne storie per gli estranei. Non ha chiesto il senso di quelle espressioni che avevo inventato per un’altra, dopo neanche una settimana è entrata nel nostro gioco segreto come fosse una seconda pelle. Anzi, mi sembra diventata più puntuale ed esigente di me nello scambiarsele. È stato facile per lei. In fondo non si portava nessun carico dal passato, la sua famiglia era smembrata da parecchio, padre mai esistito, i fratelli forse morti, la madre buttata a servire in un’altra casa, e comunque non voleva nemmeno avere idea di dove fossero finiti. Abituarla a tutto quello che volevo mi assomigliasse ha cementato la nostra coppia.
Questa adesso è la routine che posso chiamare anche pubblicamente “vita” senza ridere né piangere. Quando torno da lavoro, per le sette al massimo, con una pietà non fraintendibile negli occhi viene verso di me a passi piccoli, mi saluta, meravigliosamente uguale come sarebbe, su un prato lunghissimo, cogliere ogni giorno per un decennio un filo d’erba diverso. Cinque minuti stiamo a parlare sulla porta, prima di spostarci sul divano della sala affioranti l’uno sopra l’altro, senza peso per un’ora scarsa, annegati nel bisogno reciproco scrutando lo stesso vuoto. Per me potremmo passarci la serata, ma lei ha degli orari scanditi. È esigente sulle cose fondamentali. Perciò tocca al cibo, apriamo le nostre scatole monodose di carne verdura gamberi pasta frutta secca e disidratata, ci buttiamo a mangiare tutto mischiato, a tavola, ovvio, ma ammetto che a volte per entusiasmo si fa direttamente da seduti a terra, se non dà fastidio a lei dopotutto che mi importa. Un film davanti al computer, si legge a letto sopra le coperte in modo da non dover rifare mai il letto, e si sta a occhi chiusi fino alla mattina dopo.
I passaggi migliori della convivenza sono quelli in cui mi perdo a osservare di nascosto le reazioni di Anna Maria alla nostra routine: fissa, ininterrottamente, punti sparpagliati, oscillando fra l’indipendenza e il bisogno assoluto di me, e ripesco ogni punto dove lei si sofferma, ogni tanto mormora una o due parole oscure al mio indirizzo, mi sfiora il volto con il suo, rigirandosi tocca le mie mani. Io non faccio alcun gesto di replica se non osservare le sue. L’anno scorso, quando mi spremevo il cervello per convincere mia moglie a non preparare le carte per il giudice, ho riflettuto su tante definizioni possibili di “amore”. Solo adesso, fuori tempo massimo, ne ho trovata una basilare: quando ti stupisci ritrovando la mano dell’altro, e ti perdi a guardarla come se arrivasse da un altro regno, una zona fuori dal presente a cui tu non appartieni. È quello che (presumo) si prova quando si vedono le mani di tuo figlio nella culla appena montata, quello che (ognuno lo sa) si sente stringendo la mano a una persona vecchia in un letto con le sbarre.
Ogni tanto, quando non spazzolo Anna Maria (ne cava un piacere fisico), mi piace guardarla mentre gira per casa, seminuda, con la sua pelle bianca e sfumante sottolineata nei punti dove si protendono i suoi fianchi magri. Mi piace immaginarla innocente, anche se so che non lo è. La cucitura che le dipinge il ventre per lungo parla da sola, e mi lancia anche qualche rassicurazione del tutto fuori posto (io non volevo figli, mia moglie sì). Ma mi impongo di non chiederle nulla. Con gli occhi mi dice che sapere troppo è sbagliato e le sta bene ritrovarci assieme nel letto di quando in quando, sintonizzata soltanto sulle mie esigenze. Il sesso è una delle tante lacune obbligate di questo racconto.
Prima che io la scegliessi di getto come la mia nuova compagna, Anna Maria doveva restare per pochi giorni. Non sapevo dove farla stare. Ho deciso mio malgrado, contro voglia. Mia moglie mi aveva chiesto di uscire assieme, cena, cinema, passeggiata lunga, tuttora mi ribadisco che c’erano dei margini oggettivi per crederci. Ma non sapevo che la separazione l’avrebbe chiesta dopo l’ordinazione degli antipasti, per l’ansia di chiudere il futuro, girarmi le spalle e andare avanti, non ero pronto, neanche a scappare, se pure è già successo da un pezzo e se non devo aspettarmi più nulla io da qualche parte lassù non sono ancora pronto, perciò è proprio quello l’unico gesto che ho fatto, mi sono alzato dal tavolo e sono corso via, ho cominciato una lunga, lentissima fuga fino a casa, in ritardo, perché gli autobus non passano mai in questa città del cazzo, fuori tempo mi sono ricacciato in bocca tutte quelle cose come denti ingoiati durante una rissa, porta di casa sbattuta dentro di me. Sono stato attento a non tradirmi con mia moglie, e la scelta ha pagato. Ora non temo più che Anna Maria mi venga portata via assieme alla casa, l’auto, i soldi di un mantenimento.
Da quella cena, a caldo, mi è rimasto un solo pensiero sensato, la chance di vincere in quella situazione stava nel giocare d’anticipo, andare per primo. Lanciarmi col paracadute è stato uno dei primi studi, tutti pensavano a una crisi dei trent’anni risolta prendendosela bene. Invece volevo prendere le misure, programmare come farlo, lo spazio infinitesimale della caduta, piuttosto lunga dal mio settimo piano, era da studiare. Compostamente, in quei giorni ho iniziato ad accumulare scatole di sonniferi nel cassetto alto in cucina. Non temo la morte, ma esito a servirmi del suo passaggio.
In quel periodo orrendo di pianificazione Anna Maria mi osservava ininterrottamente. All’inizio, confesso che ho provato a nascondere tutto, a difenderla come avrei potuto fare con ogni altra persona amata che ho tagliato fuori. Alla fine, col tempo, ho lasciato perdere i miei pensieri di calamità. Sebbene abbia smesso di parlare, e di uscire se non per il lavoro, non mi perdo più a cercarmi dentro appigli per buttarmi. Se scrivo queste righe, in fondo, non è per descrivere ciò che mi lega ad Anna Maria, e che non ha bisogno di essere spiegato. Lo faccio invece per provare a capire davvero il perché della mia sopravvivenza, dietro le banderuole opposte della paura del nulla e della speranza che tutto quanto si aggiusti, cerco la verità come inseguirei un punto alla fine di una frase raggomitolata che non sto riuscendo a chiudere, ecco: nei tanti momenti ancora bui della giornata, mi blocco e mi immagino dondolare arrestato in piedi sopra il mio divano, e nella fantasia vedo, come l’avessi davanti ora, Anna Maria che, dopo alcune ore spese a chiamarmi con un verso invariabile, mi interroga coi suoi occhi più dorati che mai, mi sale sopra per prendere tempo, ma non piange, non se ne fa una ragione come tutti gli altri, non escludo che dopo avermi perlustrato proverà a divorarmi, ne è capace, per tenermi dentro e trasformarmi in un balzo di energia, ma poi continuerà a girare per l’appartamento a oltranza, non chiamerebbe aiuto, non cercherebbe di farsi aprire, preda indifesa della cognizione di cosa vuol dire non essere mai più esistiti, ecco la biforcazione che mi costringe a restare qui a difenderla – ho paura che lei possa non sopravvivere al contagio del mio terrore, non vado via perché ho paura del suo sguardo, che non somiglia a niente che conosco, sul mio corpo
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