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Sulla cultura pop

di Enrico Minardi

Quella che segue è la parte iniziale dell’introduzione del libro di Enrico Minardi “L’esperienza del rock, Vasco Rossi”, pubblicato (nel 2023) nella collana digitale ebook di Doppiozero (NdR)

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo libro è il risultato del mio ventennale soggiorno negli Stati Uniti, e della trasformazione mentale (fra altre, di diverso carattere) che mi ha obbligato a compiere. Essa riguarda in sostanza il valore da assegnare alla cultura, e se una gerarchia possa applicarsi fra le varie tipologie culturali esistenti. In altre parole, se un giudizio di valore debba essere espresso in base alla velocità della loro rispettiva fruizione.
In questo paese, rispetto a quello da cui provengo e a quello in cui ho a lungo dimorato e fatto mio, ciò che ancora continua a stupirmi, è la rarefazione dell’offerta culturale, concentrata essenzialmente nella categoria del popular, del pop. Che si tratti di film, libri, programmi televisivi, temi discussi sui media locali e nazionali, così come su podcast e social media, i soggetti principali ruotano costantemente attorno alla cultura popular e alle sue varie espressioni. Nel mondo in cui io sono cresciuto, al contrario, l’idea di una separazione della cultura in almeno due sfere (alta/highbrow vs bassa/lowbrow), dotate di una diversa autorevolezza, così come, in fondo, di una diversa natura, veniva instillata e corroborata a piè sospinto, in tutte le possibili occasioni e salse (dalla scuola ai media, dalla religione finanche alla politica). Quella bassa non poteva, a dire il vero, neppure essere considerata cultura, tanto obbediva ad una forma di usufrutto inconcepibile nell’ambito dell’altra, alla stregua di una mera merce (di cui, infatti, sotto un certo punto di vista, si tratta). Com’è possibile immaginare che una commedia del Goldoni, o un ritratto di Pisanello o una pastorale di Lully, si possano consumare? Queste opere, al contrario, consentono di elevarci, ci fanno attingere ad una forma di serendipità che garantisce l’accesso ad un universo etereo e sublime, denso di significati reconditi che ci lasciano basiti a fronte della manifestazione di tanta bellezza, anzi della Bellezza. Appunto, la bellezza: di cosa si può dire lo che sia, e di cosa invece non lo si possa. La mole di interpretazioni che queste opere hanno generato e continuano a originare, oltre al fatto che esistano istituzioni preposte al loro studio e conservazione, ci fa francamente fremere. Essa ci impone il rispetto per quelle che, pur non avendone la forma, sono in realtà veri e propri monumenti all’ingegno umano, tout court, a cui dobbiamo dunque guardare dal basso verso l’alto, con deferenza. Poco importa se parecchie di queste opere fossero in realtà, nelle epoche che le videro nascere, molto popolari, ed anzi se i loro autori, nel momento di concepirle, avessero proprio mirato al successo, oltre che all’approvazione del mecenate o del signore che ne aveva sostenuto finanziariamente la realizzazione. Il difficile, la cui chiave di accesso è posseduta solo da una cerchia di iniziati, fare parte della quale richiede continui sacrifici e rinunce, è il necessario sigillo che certifica dell’appartenenza alla cultura alta. Il facile, che circola velocemente, e non ha bisogno del previo apprendimento di un codice speciale per accedervi, è invece sinonimo di caduco ed effimero, cioè di qualcosa che si consuma, la cultura bassa.
Arrivare allora in questo mondo ha rappresentato uno shock per qualcuno come me: la presenza di una forma di cultura che io credevo, fino ad allora, la sola legittima, era rapsodica. Vi erano sale cinematografiche ove non facessero che proiettare blockbuster hollywoodiani? Eppure, la città dove mi ero venuto a trovare faceva parte di un enorme agglomerato urbano, in cui mi sembrava naturale che un pubblico più esigente dovesse non solo esistere, ma anche farsi sentire, Per di più, persone che stimavo educate, non si peritavano a esternare il loro interesse e apprezzamento per opere che io, al contrario, giudicavo non poter essere degne di alcuna attenzione (se non periferica). Dovevo giocoforza constatare che perfino nella città di provincia da cui provenivo, l’offerta culturale era, in proporzione (se la consideriamo cioè in base alla popolazione) superiore rispetto a quella dove mi ero venuto a trovare. Insomma, tutto ciò che fino ad allora aveva costituito la mia normalità, veniva a frantumarsi contro un insormontabile muro.
Come fare per orientarsi in questo inedito scenario, che non potevo certo cancellare con un click del mio mouse? Come evitare di rifiutarlo in blocco, ricusando, nella mia condanna, tutta quella gente che, in tutta innocenza, invece, ne godeva, e di cui assistevo all’andirivieni sconclusionato e divertito, per i vialetti e i corridoi dei vari mall, questi non-luoghi dove anch’io, volente o nolente, ero costretto di tanto in tanto a recarmi? Tacciarli tutti di ignoranza e grossolanità, di un’endemica incapacità nell’assegnare il giusto valore ai prodotti culturali? E adottare, dunque, quella medesima attitudine sprezzante e snob di chi consciamente intende far valere il privilegio di cui sa di godere? Era proprio essa di cui avevano reso testimonianza tanti adulti nella mia provincia (che si trattasse di scuola, uffici, sport, chiesa etc.), e di cui avevo avuto un rigetto istintivo e quasi immediato. L’aurorale consapevolezza che un orizzonte altro potesse, da qualche parte, esistere.
È stato infatti una sorta di ritegno etico a prevenire che abbracciassi un tale abietto punto di vista, di cui non saprei esprimere con esattezza né il perché né l’origine. Mi sono probabilmente sempre sentito più simile agli altri che dissimile, malgrado tutto. In ogni caso, a partire da un certo momento, la mia percezione è dovuta cambiare, non potevo più consentire a rimanere in una situazione in tutto simile ad un double bind. Per non rinunciare alla cultura, ero costretto a rinunciare alla gente, e ritirarmi in una dimensione dove l’ossigeno si dirada, e l’aria si fa di un’irrespirabile purezza. Per non rinunciare alla gente, mi dicevo che mi sarei invece dovuto abbassare al livello della folla, fare mie le sue vacue cure, e respirarne l’aria densa di umori, appagandomi così di semplificazioni odiose, di stupidi appiattimenti.
In realtà, la chiave per uscirne si trovava altrove, nell’inderogabile necessità di prendere sul serio la cultura popular, e cessare di denigrarla. Per riuscire a realizzare questa vera e propria inversione di rotta, risiedere negli Stati Uniti è stato essenziale, non ce l’avrei probabilmente mai fatta se fossi rimasto nel mio Paese (o avessi continuato a vivere nell’altro). Non solo, fin da quando ho iniziato a masticarne con una certa fluidità la lingua (che previamente al mio primo trasferimento, appena farfugliavo), mi sono sentito autorizzato a cercare, nelle eccezionali biblioteche di cui avevo la fortuna di poter usufruire, testi a cui, raramente, prima di allora, avevo potuto avere accesso. Dell’esistenza dei quali, a dire il vero, non ero neppure conscio, tanto la loro circolazione era come interdetta, o avveniva in maniera quasi clandestina, destinata a chioschi di giornali o sezioni minoritarie nelle librerie che frequentavo (per non parlare delle biblioteche, pubbliche, dove non se ne trovava alcuna traccia). Poco alla volta, spinto da queste scoperte, ecco aprirsi di fronte a me un vasto orizzonte di ulteriori, ed insospettate, letture, e disegnarsi, nella mia coscienza, la consapevolezza di trovarmi di fronte ad un vero e proprio campo di ricerca. A un tipo di materiale, insomma, non mero oggetto di svago, quanto, al contrario, possibile soggetto di una rigorosa disamina secondo metodologie assodate, come ne testimoniavano i numerosi libri e saggi che, poco alla volta, venivo accumulando sulla mia scrivania. E come anche allora il documento che sembrava meno significativo, potesse invece essere messo a frutto all’interno di quel circolo virtuoso di scholarship, sul quale mi affacciavo.
A partire da questo momento, vera e propria illuminazione, non ho smesso di ragionare sulla cultura popular e di interessarmene in maniera attiva. Sono così, fra l’altro, divenuto più sensibile a temi che vi sono spesso incorporati, benché in maniera non sempre esplicita, come gli studi di genere, o quelli sulle minoranze, o ancora di sociologia della cultura e psicologia sociale. Se correttamente considerata la cultura popular conduce verso direzioni imprevedute, e questo dinamismo intrinseco ne riscatta lo statuto gnoseologico, così come permette di gettare una diversa luce sull’atto della sua fruizione, e dunque su coloro che ne fruiscono.

Negli anni successivi, ho così iniziato a dedicarmici in modo più serio, e prendendo spunto dalla mia annosa passione per il genere giallo, ho per esempio iniziato a lavorare sul femminismo, curando, in inglese, una raccolta di saggi su una eccezionale scrittrice di Chicago come Sara Paretsky. Nel contesto della mia carriera professionale, ho poi avuto l’opportunità di creare un corso vertente su “French & Italian Popular Culture”, che, con un certo successo presso gli studenti, insegno ormai da anni. Infine, con Paolo Desogus, ho approntato un’altra curatela, sempre in inglese, sulla cultura popular italiana post-anni ’70. Se potesse annunciare quello a venire, poco prima di tutto questo avevo ultimato una tesi di dottorato sulla cultura popolare nel Medioevo, di cui portano testimonianza la predicazione dominicana ed alcuni canti centrali del Purgatorio dantesco.

La figura di VR è emersa quasi immediatamente nella prima fase di questa nuova mia ricerca. Ho infatti realizzato molto presto la necessità di dover consacrare un’analisi approfondita ed esclusiva a questo personaggio, la cui importanza per me, negli anni cruciali della prima giovinezza, era stata innegabile, così come continua ad esserlo per la canzone italiana. Mi accinsi dunque a scrivere un testo in inglese, doveva essere attorno al 2016, che, tuttavia, dopo un primo tentativo e la stesura di un’ottantina di pagine, decisi di cestinare, intuendone l’incongruità intrinseca. Essa risiedeva nella mia indecisione quanto al punto di vista da adottare: ricostruzione storica degli eventi (già fatta e rifatta, e dunque da trascrivere, nella nuova lingua, come mera copia)? Valutazione critica della produzione musicale, pur non avendo io alcuna nozione di musicologia (la lettura, in quel torno di tempo, di un eccellente libro sui Led Zeppelin, ricco di analisi di questo tipo, mi mise rapidamente di fronte alla insipienza)? Ricorrere a un approccio mutuato dalla sociologia della cultura, e basato di conseguenza su sondaggi condotti presso fan e forum di discussione (di cui tuttavia non conoscevo nessun esempio a cui ispirarmi, così come non avevo nessuna relazione all’interno di questi gruppi)? Dovevo trovare una strada mia, dopo aver interrotto quella intrapresa. Prima di tutto, avevo bisogno di una più seria attrezzatura di carattere teorico e metodologico sugli studi di cultura popular, e di quelli sulla musica in particolare. E tuttavia, questa semplice constatazione non era sufficiente a spiegare il mio scacco, persisteva un problema più spinoso, strutturale, che mi impediva di avanzare. Me ne si è chiarita la natura solo dopo molto tempo.
Il soggetto osservatore coincideva con l’oggetto osservato, e viceversa. Nell’esaminare la figura di VR, non potevo, in altre parole, fare astrazione da me stesso, io che l’avevo tanto amato, e che ancora amavo. Il legame sentimentale che mi univa a lui, da così tanto tempo, era troppo forte, non c’era niente da fare, mi era impossibile considerarlo come un puro oggetto di analisi, prescindendo da questa profonda implicazione. Affrontarlo significava, allora, mettermi a guardare me stesso, nella speranza che, da questo doppio sguardo, sarebbe risultata la verità che cercavo, la mia interpretazione di lui. Questa era la strada che dovevo percorrere se intendevo interessarmi a VR, un cammino che passava attraverso di me, per poi tornare a lui.
Giungere a questa conclusione non è stato comunque agevole. Dovevo in primis giustificare a me stesso la rilevanza conoscitiva della cultura popular, capire il suo possibile impatto sociale e piscologico, indagandola dal punto filosofico della produzione di virtualità. In sostanza, le domande che incominciavo a pormi riguardavano la possibilità, per la cultura popular, di essere un vero strumento di liberazione e incremento di coscienza critica, e non tanto di mera evasione, secondo un’immagine che non cessava di perdurare e circolare.

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2 Commenti

  1. La differenza tra cultura “alta” e cultura pop è innegabile, non per questo si deve disprezzare quest’ultima – e neppure i suoi fruitori. Tuttavia, mi chiedo come sia possibile considerare la cultura pop, con tutti i limiti artistici che si pone da sola, «di essere un vero strumento di liberazione e incremento di coscienza critica». La coscienza critica necessita di studio, esplorazione, approfondimento, che in genere la cultura pop non compie se non in direzioni solitamente superficiali, che non scavano nell’essenza delle cose. È più facile che la cultura pop si nutra di conformismo, al massimo di anticonformismo di facciata, commerciale, che non di indagine scientifica. E dove c’è conformismo non ci può essere arte, o conoscenza.

  2. Ciao, Cristian, scusa, leggo solo ora il tuo commento. Grazie per la critica, che trovo molto stimolante. Sai, quando si e’ vissuti cosi’ a lungo in US, e’ necessario, quasi vitale, diventare gramsciani rigorosi, nel senso che in qualsiasi espressione culturale, anche in quelle piu’ becere e superficiali, come tu giustamente dici, e’ essenziale poter scorgere un lucore, per quanto minimo, di spirito critico, cioe’ di cultura, pena il perdere del tutto la fiducia nei destini dell’umanita’, che invece bisogna sempre conservare. Purtroppo, il mio discorso e’ intimamente legato ad un’esperienza di vita trentennale che cerco di spiegare nella lunga introduzione al libro che ho scritto, e di cui qui si publica solo un piccolo stralcio. Grazie ancora!

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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