Racconti del postmitologico
di Romano A. Fiocchi
Livio Santoro, Le favole nuove, Edicola Edizioni, 2024.
Alcuni ominidi (del passato? Del futuro? Di un mondo senza tempo?) fuggono attraverso un bosco. Una marcia forzata con sette giorni di vantaggio. Su chi? Non lo sappiamo. Passano le notti ora arrampicati sugli alberi, ora tra le rovine di un edificio con parte del tetto crollata e un’antica bifora. Finalmente appaiono le rotaie, corrono lunghissime su una massicciata silenziosa. Bisogna seguirle. Ma dove portano? Non sappiamo neppure questo. La fuga continua, dormono in case cantoniere abbandonate, accendono fuochi, mangiano tarassaco, crespigno e cardi mariani. Incomincia a piovere copiosamente. Attraversano un ponte e si cibano di gamberi di fiume. Gli alberi diradano, si alternano prati e macchie boschive, infine è la steppa. Niente più case cantoniere ma sporadiche capanne di lamiere e legno marcito. Le rotaie proseguono e loro continuano a seguirle, sempre con sette giorni di vantaggio. La sera ingannano la fame raccontandosi storie inventate, evitano così di attingere alle memorie del prima (che è poi il titolo del racconto). Durante la marcia rinvengono la carcassa di un caprone ricoperta di ferite profonde. Chi l’ha ucciso? Ennesima domanda senza risposta. Lo sventrano entusiasti e ne mangiano il fegato. Avvistano infine la cordigliera e abbandonano le rotaie. Si rifugiano nelle grotte, si nutrono di pipistrelli cuocendoli sulle braci, con il loro sangue tracciano disegni sulla roccia. Si raccontano nuove storie, e storie di voci che raccontano altre storie. Favole nuove? I sette giorni di vantaggio non contano più. Contano i sette giorni di racconti e di disegni sulla roccia, i sette giorni di banchetti, il ‘sette’ come numero in sé.
Ho qui sintetizzato la prima delle ventotto storie che compongono Le favole nuove di Livio Santoro. Terzo volumetto di una trilogia di racconti, preceduto da Piccole apocalissi (2020) e da Commedie del vespero e della notte (2022), tutti usciti per la collana “Lo stivale” di Edicola Edizioni. Mi sono soffermato sul primo racconto in quanto si tratta di un corposo incipit che anticipa tutta la magia e la visione poetica di queste favole. Certo, c’è poi l’eleganza del linguaggio di Santoro, che è la sua cifra, e che contribuisce a proiettare questi brevi e brevissimi racconti – che variano da un massimo di sette pagine a un minimo di mezza paginetta – in un tempo tra il mitologico e il postmitologico. Sono storie di un mondo leggendario inesistente, racconti coerenti e compatti, scolpiti a uno a uno con precisione orafa, incastonati di vocaboli preziosi che attestano l’amore e il rispetto di Santoro per la lingua e al tempo stesso la sua capacità di manipolarla. Di manipolare anche i nomi propri inventando appunto nuovi eroi e nuove divinità: la compassionevole Lèmina, i primordiali Brali e Arnali, progenitori rispettivamente degli umani e dei cavalli, l’immensa vestale Calonia Vanià, il pantagruelico Mellio, le aggraziate Pondili Trosti Mararandi, l’imperatrice Euelinga Tricei, il giudice Serina detto l’Efferato o il Sanguinario o l’Integerrimo o il Giusto, Glodana Mosselet, Imaiami. Poi creature sconosciute come gli atrorsi, i dendrocefali morati, l’equivoco sànvalo.
Alcune storie sono leggende straordinariamente belle e crudeli, come quella delle due sorelle regine (Ex solum) che con i propri eserciti si disputano il controllo del regno, sino all’esilio e alla loro morte per inedia sopra una zattera che diventerà un’isola. Oppure racconti raffinati giocati su sottili variazioni semantiche, come I giardini prensili di Babilonia, dove piante e fiori afferrano (in quanto prensili) e divorano ogni intruso ma non solo: sono loro stessi ad avere edificato le mura e a tenere in prigione la città. Oppure ancora racconti cupi e inquietanti che sembrano narrazioni pittoriche di Bosch, come quello del cerusico ciarlatano Nomidio che estrae la pietra della follia dal cranio del matto Stassio Plaggioni. O ancora visioni cosmiche (La sua parola) descritte da esseri misteriosi la cui origine risale a ere indefinite, e che solo nell’epilogo lasciano intendere la loro identità.
A volte i testi rasentano la poesia, si rarefanno quasi fossero una prosa ermetica (Il mio primo sogno), si trasformano in litanie che potrebbero essere cantate da antichi aedi (Madre dal vasto grembo), ma in ogni caso conservano l’eleganza e la precisione della lingua, spesso arricchita di latinismi rari: «rubro» in luogo di rosso, «igne» in luogo di fuoco, «scopulo» in luogo scoglio e così via, che non sono – si badi bene – sfoggio di erudizione bensì vocaboli funzionali alla narrazione, elementi portanti dell’atmosfera arcaica (o postmoderna) in cui Santoro colloca le storie. Che si risolvono tutte, così come nelle precedenti raccolte, in un finale inaspettato, illuminante o viceversa enigmatico, comunque arguto, come ad esempio le uniche parole pronunciate improvvisamente dalla bestia: «Mi disse per favore, Lèmina, non mi raccontare quelle vecchie, raccontami piuttosto le favole nuove».
C’è anche dell’ironia, strumento che Santoro utilizza proprio per sdrammatizzare certe immagini, come nel caso del comportamento marziale e ottuso delle milizie «in quanto appunto milizie», o per smorzare la malinconia che ispirerebbero personaggi come Mellio, rovinato dalle pessime buone intenzioni della gente che lo nutre in modo così smodato da fargli raggiungere le dimensioni di una montagna riconoscibile a distanza. Per cui – questa volta ironica – ecco la consueta imprevedibile battuta finale del racconto: «Lo vedi? Sì, è proprio quello lì. E lo vedi che la vetta anche adesso si muove? Esatto, Mellio sta masticando ancora».