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Da “Note di servizio per Franco Fortini”

di Luca Lenzini

I.

Modificazioni

«I moderati toscani…»: indicando con un cenno il Lungarno da Vespucci a Corsini e oltre, una volta che in auto passavamo insieme il Ponte alla Vittoria, Fortini disse così, quasi parlando tra sé, in un a parte della conversazione. Sulle facciate dei palazzi dell’aristocrazia fiorentina, coreografia così consueta e celebrata da non esser quasi più percepibile allo sguardo nella sua connotazione storica e di classe, si rifletteva la luce del pomeriggio; ma niente, mi pareva, era in comune tra quel paesaggio e chi mi stava accanto. Per quanto nato a Firenze e lì vissuto fin oltre i vent’anni, Fortini era per me (e non solo per me) milanese: organico ad un modo d’essere e ad un background sociale ed economico che nulla aveva a che spartire con la storia di quella che era anche la mia città natale. La distanza tra lui e quei «moderati», ceto proprietario e di governo, non poteva essere più grande, abissale persino, almeno quanto lo era la skyline di Milano rispetto alle dimore affacciate sull’Arno o alla Torre di Arnolfo. Non sapevo, allora, che Fortini era nato proprio sul Lungarno, ma sull’altro versante rispetto al Ponte Vecchio, e sul lato d’Oltrarno: al numero uno di Piazza Poggi, in una pensione di fronte alla Torre di San Niccolò. Piccola borghesia; anno il 1917, quello dell’Ottobre.

* * *

Il quartiere di San Niccolò è rievocato in una poesia di Poesia e errore intitolata (con citazione da Quadri di un’esposizione di Musorgskij) In lingua mortua, nella seconda strofa:

… io sono cresciuto ragazzo

nella città di Firenze

e il verde di San Miniato

non lo posso dimenticare,

l’ulivo delle mattine,

le rose amare, il lastrico lavato,

le vene dei cipressi sulla Mensola,

la luna sui sentieri, le colonne

beate e le lame turchine

di marzo sui tetti

e sopra le torri d’Oltrarno.

Quella città non la posso dimenticare

anche se so,

anche se so che non posso tornare.

E queste parole che dico

erano in bocca a mia madre

tra il Lungarno Serristori

e la chiesa di San Nicolò

dove la lapide dice

che l’acqua dell’Arno rubò

uomini, case, armenti, alberi e campi,

e dove s’era nascosto

in quegli antichi tempi,

nel danno e nella vergogna

Michelangelo Buonarroti…

Sono versi che recano la data del ’45 e probabilmente risalgono ad uno dei ritorni di Fortini a Firenze nell’immediato dopoguerra, ritorni di cui è traccia in una serie di articoli dell’epoca. Ai ricordi di giovinezza della prima parte subentra poi, nel testo, una memoria più lunga: il finale riporta alla caduta della Repubblica fiorentina e alla leggenda secondo cui Michelangelo si nascose, al ritorno dei Medici, nel campanile di San Niccolò; la lapide cinquecentesca lì posta, in latino, rinvia invece all’alluvione del 1557 (con reminiscenza dei versi del Lasca[1]). E certo a lui, che si era laureato in Storia dell’arte con Mario Salmi (dopo la laurea in Legge), erano ben presenti – lo attesta In lingua mortua, ma anche La città nemica in Foglio di via – i versi di Michelangelo riportati da Vasari nelle Vite, quelli in cui è la Notte a parlare[2]:

Grato mi è il sonno, e più l’esser di sasso

Mentre che il danno e la vergogna dura,

Non veder, non sentir mi è grata ventura:

Però non mi destar, deh parla basso.

Ma «so che non posso tornare»: Firenze, a quest’altezza della biografia di Fortini, è già il passato[3]. Il presente è Milano e questo è il luogo della speranza, del rinnovamento; tutto quello di cui Firenze, obbediente ad una secolare sceneggiatura che ne prescrive l’eternità, è ai suoi occhi la negazione. Anche la “ricostruzione”, a Firenze, gli sembrerà piuttosto una restaurazione. Tra il ’41 e il ’45 erano successe troppe cose, e troppo importanti: il richiamo alle armi, la guerra, l’Otto settembre, l’esilio in Svizzera e i campi di lavoro, l’esperienza della resistenza in Valdossola. Non fu la parentesi avventurosa della biografia di un qualsiasi chierico, bensì il periodo in cui Fortini diventa l’intellettuale e il poeta che si staglierà con nettezza, con una voce inconfondibile e fuori da ogni coro, sul fondale del secondo Novecento. In una intervista del 1960, riandando agli anni della guerra, osserva:

L’evento decisivo fu la scoperta, nelle caserme (a metà del 1941: avevo ventiquattr’anni) del soldato, cioè del contadino e del proletario, e dell’ufficiale, cioè del borghese come me, posti gli uni di fronte agli altri.

Quasi da solo, e cioè senza più rapporti con l’ambiente in cui ero cresciuto, giunsi fra il 1941 e il 1943 ad integrare, più che mutare, il mondo dei miei sentimenti e delle mie idee e a decidere di votarmi ad una trasformazione della nostra società, sia con l’azione pratica sia con la parola poetica o letteraria. Se nell’inverno 1941-1942, discutendo con Pietro Ingrao, ero ancora ben lontano dall’intendere il pensiero marxista, nella primavera del 1943 ero già, senza saperlo, al di là delle posizioni che sarebbero state della maggior parte dei miei amici e conoscenti, e cioè del Partito d’Azione. La sera stessa del 25 luglio 1943 annotavo che cominciava non solo una nuova vita ma la vita, almeno per me; e pochi giorni dopo, a Milano, la mia vera scelta era fatta. Sarei uscito dalla guerra con una persuasione che non mi avrebbe più lasciato: gli uomini possono essere modificati, strappati al sempre-uguale; questa modificazione è in rapporto alla modificazione del regime della proprietà; la società che ci circonda dev’essere rovesciata e trasformata, con ogni mezzo; la salvezza individuale è il più abietto dei privilegi[4].

L’incontro con «il volto della gente dei nostri paesi fino ad allora sconosciuto» (Sere in Valdossola[5]) e con la realtà del conflitto non fu esperienza solo individuale, ma di una generazione di intellettuali (anche tra loro molto diversi) che in quel giro di anni passarono, bruscamente, dalla giovinezza alla maturità. Rossana Rossanda parlando di sé e dei “suoi” del Novecento, «Calvino, Fortini, Pasolini», ha scritto che ognuno veniva dalla stessa percezione «di dover scegliere impreparati, attraversare una tragedia non prevista […] La prima generazione dell’antifascismo poco ci aveva parlato o potuto parlare[6]»; e parole non dissimili, su quel tratto di storia comune, ha usato le stesso Calvino[7]. In Fortini però quel passaggio, indelebile per tutti, assume una connotazione e un peso di particolare evidenza.

Il contadino e il proletario «di fronte» al borghese; la possibilità del cambiamento, di una cesura nel «sempre-uguale»; la scelta e il nuovo inizio; la trasformazione e il rifiuto di ogni «salvezza individuale»; lo sguardo dal basso alle vicende in atto. Il nucleo di convinzioni allora acquisite e la nuova prospettiva che si forma a partire da un punto di vista di parte, costituisce la base mai più revocata dell’esistenza e dell’attività intellettuale di Fortini, la bussola cogente e definitiva dell’uomo e dello scrittore. È perciò qui, in questo passaggio cruciale, che dobbiamo far centro, se vogliamo puntare il compasso all’interno di un’opera come la sua, tanto vasta quanto complessa e ramificata, per coglierne i lineamenti essenziali; così come è nel contesto della storia europea e della sua immane tragedia che si situano le coordinate morali e culturali da quell’opera presupposte: «Non esiste altra via da percorrere, alcun altro compito da adempiere fuor di quello che abbiamo imparato a distinguere nei vent’anni che vanno da Madrid a Stalingrado e da Treblinka a Budapest.» Così Consigli a pochi[8], nel ’59: dentro quelle coordinate, dunque, potevano innestarsi e dovevano rinnovarsi le impronte della cultura che aveva caratterizzato la giovinezza di Fortini. Se il concetto di «persuasione» gli veniva da Michelstaedter e quello di «scelta» da Kierkegaard, le letture giovanili  (Barth, Dostoevskij, Kafka, i «Salmi, Giobbe, Isaia, letti e riletti con terrore e rapimento[9]») potevano ora conferire alla decisiva (ma non ineluttabile) «trasformazione» additata da Marx un senso preciso e non astratto (anche in chiave esistenziale, nell’ordine del vissuto), da perseguire insieme ai compagni «liberi in fermo dolore» (Italia 1942), a fianco degli «uomini usciti di pianto in ragione» (Canzone, 1955). Nel passaggio da un generico antifascismo e da una giovinezza con venature estetizzanti, da un «cristianesimo tragico-eroico[10]» ad una cognizione dinamica e collettiva dell’idea di conflitto, quale è propria della società moderna, inseparabile dal progetto di emancipazione che ne segna la nascita, si delinea il profilo specifico del comunismo di Fortini e insieme il suo taglio radicale e insofferente delle ortodossie, resistente a ogni ideologia imposta “dall’alto”.

* * *

[1] Anton Francesco Grazzini detto ‘il Lasca’ dedicò una madrigalessa e un sonetto all’alluvione, vedi Anton Francesco Grazzini, Scritti scelti in prosa e in poesia, a cura di R. Fornaciari, Firenze 1911, pp. 235-237.  Dopo l’alluvione del 1966 Fortini accorse da Milano a dar una mano agli “angeli del fango”.

[2] Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, Torino, Einaudi, 1986, p. 903.

[3] Sugli anni fiorentini vedi L. Daino, Fortini nella città nemica: l’apprendistato intellettuale di Franco Fortini a Firenze, Milano, Unicopli, 2013.

[4] DI, 31-2

[5] F. Fortini, Sere in Valdossola, Milano, Mondadori, 1963; n. ed. Venezia, Marsilio, 1985, p. 13.

[6] R. Rossanda, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2000, p. 209.

[7] Vedi I. Calvino, Autobiografia politica giovanile, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, t.II,  in particolare Un’infanzia sotto il fascismo, pp. 2733-2748.

[8] Il saggio è presente solo nella prima edizione di F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1965, p. 33. In SE è ripresa la seconda edizione (ivi, 1969).

[9] F. Fortini, I cani del Sinai, Bari, De Donato, 1967 (n. ed. Einaudi, 1974; Quodlibet, 2002), poi in SE p. 415.

[10] F.Fortini, Leggere e scrivere, a cura di Paolo Jachia, Firenze, Marco Nardi, 1993, p. 36.

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3 Commenti

  1. Buongiorno,
    commento in modo molto timido un articolo che meriterebbe a mio avviso un saggio che non sono in grado di scrivere. Franco Fortini mi ha sempre disarmata, intimidita, fatto anche paura. Lui come un solo altro autore, diversissimo, e tenterò di spiegarne le ragioni: John Steinbeck. Preciso che il mio non vuol essere un commento politico ma letterario, eppure, in questi due autori che ho sempre considerato “inarrivabili”, e spesso mentre li leggevo mi cadevano le braccia e mi dicevo ma come hanno fatto, come hanno fatto, la tensione politica nel senso più puro del termine emerge in ogni parola. Ambedue, Fortini e Steinbeck, inseriscono il loro profondissimo, raro, umano in quelle che chiamerei “società di gelo”, e lo fanno abbandonando, non ripudiando (il ripudio implica un certo odio), ogni romantismo sia narrativo che poetico. Romantismo, non romanticismo. Spesso faticavo a leggerli, perché non ne reggevo la potenza e il rigore e la bellezza. Nei pochi versi evocati qui, e ringrazio moltissimo per averli potuti leggere, c’è inspiegabilmente tutto quello che si può chiedere alla parola quando diventa rivelazione. nella tensione dell’io che si specchia e si scontra e forse si ritrova non solo nell’altro, ma in un concetto di umanità molto più ampio, direi totale. In Fortini non c’è forse l’epos che si trova in Steinbeck, ma c’è come una quieta presa d’atto. L’ampolla sociale è quella che è: dura, irreversibile, (Fortini non si “agita” come Pasolini, lui siede sulla riva del fiume), ma può contenere, perché è un’ampolla. e dunque in quel gelo di metallo o di vetro il Fortini poeta riversa il tempo dell’umano nel tempo del disumano. Il tutto con tale rigore, che già Romano Luperini, e fu uno degli ultimi poeti di cui scrisse, con Volponi, aveva ben rimarcato.
    Stamattina, su “La Stampa”, il buongiorno di Mattia Feltri è dedicato alla bellezza del concetto di fabbrica di Adriano Olivetti. Ecco, ebbi modo di ascoltare in una libreria una parte dell’epistolario tra Fortini e Olivetti, che erano ottimi amici, e non mi stupisco affatto. Scusate la modestia di questo commento di fronte a una figura che continuo a percepire gigantesca, nel panorama del Novecento italiano.

  2. Grazie Irma, per questa testimonianza. Io sono restio ai culti e alle venerazioni, ma condivido un’ammirazione che non si è affievolita con il tempo per i saggi e la poesia. Fortini è diventato per me davvero un classico, qualcosa che funziona ogni volta che lo si legge quali siano i contesti culturali o storico-politici. Non sono tante le voci novecentesche, e particolarmente voci italiane, che riescono ad arrivare in modo cosi netto nonostante il passare degli anni e il mutare delle mode intellettuali. Ma quando parlo di “classico” non intendo de-storicizzarlo. Intendo dire che, visto come va il mondo, Fortini non puo’ invecchiare. Egli reclama tutto quello che non ha cessato d’indebolirsi, e le sue pretese quindi – putroppo – sono al tempo stesso continuamente smentite dall’attuale svolgimento storico, e quindi anche perfettamente necessarie, attuali.

  3. Gentile Andrea, la mia è ammirazione, per me non esiste il culto, anche se forse a volte l’entusiasmo, di fronte all’odierno, desolante panorama contemporaneo, mi fa alzare un po’ i toni. Fortini è semplicemente un grande poeta. Grazie.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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