Rêveries
Il workshop dell’idealista indiperdente
di
Mirco Salvadori
La sede della radio padovana è posizionata in un luogo assai pericoloso, per chi ha un’alta e viziosa compagna chiamata glicemia; vicino alla storica emittente indipendente si trova una delle migliori pasticcerie della città. Chi soffre di questa invisibile malattia si sente come il barone Leopold von Sacher (non a caso) Masoch: totalmente assoggettato ad una superiore e peccaminosa creatura che gli impone di ingoiare quanto di più dolce è esposto sul banco della prima colazione, abbinandolo al magistrale e pannoso cappuccino, una montagna di schiuma sulla quale spargere piccoli puntini zuccherosi di color bruno, giusto per mandare in orbita gli zuccheri godendo nel peccato.
Ma se la radio è libera ma libera veramente, come cantava un lontano fratello ora perduto, perché mai lui non poteva godersi qualche innocuo granellino di brown sugar adagiato sopra un morbidissimo letto di immacolata neve, accompagnando questo sublime piacere con un croccante croissant ripieno di gustosa marmellata il primo, e di maliarda Giacometta il secondo? Suvvia, al massimo un capogiro, qualche mancamento che si risolve con un buon sonno e l’ago della penna che il giorno dopo segna la medaglia al valore glicemico più alto mai raggiunto da un mese a questa parte, di molto superiore alla normalità di valori a cui mai si era adeguato.
Erano anni che non entrava in quel vicolo gremito di abitazioni per nulla in linea con l’idea che uno si fa della Milano del nordest, tutta grattacieli e traffico, negozi di lusso e migliaia di bar pronti a soddisfare il bisogno mai sopito di alcol e apericene. In questo luogo discosto, all’ombra dell’enorme costruzione ospedaliera che lui ben conosceva, si sviluppava un quartiere gremito di vie strette, case che il suo sguardo da abitante della Laguna leggeva come abitazioni di campagna. Ogni cosa poi, giaceva sotto l’imponente architettura di una basilica che tutti chiamavano del Santo. Aveva sentito dire che all’interno vi si custodiva la lingua di un uomo chiamato Antonio nato nel 1195 a Lisbona e considerato protettore dei viaggiatori, delle donne incinte e dei matrimoni, forse riparatori, aggiungeva con una malcelata dose ironica per nulla politicamente corretta. Ma tutto sommato questo era: un inconscio viaggiatore nel tempo munito di bagaglio a mano, una piccola borsa contenente depressione e ironia facili da mascherare ad ogni controllo doganale.
Si trovava lì grazie al piccolo impianto hi-fi della Pioneer e al primo disco che quel vecchio e da decenni rottamato giradischi aveva fatto girare: Cocker Happy era il titolo, uscito nel 1971. Un album ascoltato fino allo sfinimento, che avrebbe dato la stura ad un percorso capace di portarlo assai lontano da quelle note iniziali, sempre alla ricerca di suoni diversi e poco diffusi. Da quasi cinquant’anni navigava a vista immerso nella musica senza esserne pienamente consapevole, continuando a ricordare gli oltre trent’anni conducendo programmi nelle vecchie radio in FM, come dj durante l’invasione della Nuova Onda e lo tsunami elettronico dei primi ‘90 e da quasi quarant’anni sulle pagine di una storica rivista musicale specializzata in musica indipendente, sempre avesse ancora un senso chiamarla tale. Un percorso di vita votato al lato nascosto del suono che tuttora continuava a fluire dai suoi auricolari, musica ai più ignota, per lo più sconosciuta e recondita elettroacustica il cui ascolto poteva appartenere solo a irriducibili idealisti indiperdenti.
Questi erano i motivi per cui ora lui si trovava lì.
Pochi passi nel vicolo il cui nome gli rimandava le atmosfere cupe di un racconto di Poe, ed eccolo attraversare la piccola entrata che l’avrebbe condotto a curare il suo primo workshop di giornalismo musicale.
Proprio non se la ricordava quella stretta e ripida scala in legno che portava al primo piano, sede della radio. Improvvisamente svoltava a gomito, spingendo lo scalatore in un nero baratro creato dall’improvvisa mancanza di luce. L’effetto del suono che ancora gli pulsava nei timpani attraverso gli auricolari lo destabilizzò ulteriormente. Perduto nell’imperiale intro di batteria che apre “Dreams Burn Down” degli immortali Ride, improvvisamente si ritrovò nel buio assoluto. Era come esser investiti da un Mack Anthem 6 cilindri in linea con tecnologia turbocompound, 13 litri e fino a 505 cavalli e 230 chilogrammetri di coppia, avvolto nel frastuono della frenata che nulla può contro l’impatto devastante. Cadde disteso nel nulla, un dolore lancinante al ginocchio e un silenziosamente urlato ZIOBILLY!! che come sempre andava a sostituire la bestemmia che mai riusciva a farsi sfuggire di bocca, forse perché alla fin fine lui in D-o ci credeva.
Entrò zoppicando nella grande stanza, luogo di ritrovo, bar, sala riunioni e si trovò faccia a faccia con il N. 10 – 7 Maggio 1972 di Potere Operaio, rivista dell’omonimo movimento che ai tempi veniva definito extra-parlamentare; svettava appesa al muro di lato ad un altro cimelio degli anni ’70 che la sua memoria aveva relegato chissà in quale cassetto chiuso da decenni: Lotta Femminista numero unico in attesa di registrazione – Settembre 1973. Spense il suono che ancora teneva in circolo, doveva correre ai ripari, mollare i primi anni ’90 gettandosi con l’immaginazione, a capofitto nella musica di quel remoto e improvviso ricordo. Sebbene con qualche anno di differenza, mentalmente scelse Kashmir dei Led Zeppelin uscito nel 1975, perfetto per celebrare l’incontro con un vecchio amico/nemico che ben conosceva, visto che spesso si scontrava con lui, lungo i corridoi dell’istituto tecnico frequentato per inerzia e nella più assoluta ignavia di giovane decisamente pigro e assolutamente immaturo. FGCI VS POTOP! Se li ricordava quegli scambi feroci, gli sfottò, le assemblee antagoniste, i nuclei di lotta, il ciclostile della Federazione Giovanile Comunista, il palazzo sul Canal Grande che lo accoglieva, le continue riunioni, i contrasti ideologici tra fazioni perennemente immerse nelle sfumature rosse di un bosco autunnale. Gli scontri tra noi e gli altri, che quel bosco lo frequentavano come neri cani affamati di nero odio. Quanto ci stava bene quell’intro in salire suonato dal Page in stato di grazia, spinta dalla potenza infinita della batteria di Bonham: una colonna sonora di inestimabile valore poliritmico.
Vecchi ricordi raramente riesumati dal cassetto che li conteneva.
Dalla cucina, posizionata dietro al banco bar, apparve all’improvviso Rossela conosciuta come ‘la senza doppie’. Giunta dalla Campania con le doppie al posto giusto, le perse a contatto con il dialetto padovano che non tende a eliminarle ma proprio le cancella dal vocabolario. Considerata e giustamente da tutti avvocato per la sua laurea in giurisprudenza, la specializzazione, un master e l’abilitazione d’avvocato, si definiva una delle ‘anziane’ della webzine, un’anzianità che lo intimoriva ma al contrario, visto che lui la surclassava in età con un peso di quasi quarant’anni di differenza, ma il divario temporale sarebbe stato il trend che sottotraccia e silenziosamente, avrebbe attraversato tutta la due giorni di workshop organizzato dai ragazzi di una webzine che ancora stavano nutrendo gli anni più prosperi della loro vita.
La sala si stava riempiendo di incaute anime ancora intonse, interessate a capire e imparare come scrivere e soprattutto come muoversi all’interno del panorama giornalistico dedicato alla musica indipendente. Il proposito sembrava accattivante ma non descriveva fino in fondo un mondo profondamente cambiato, governato da un’industria produttrice di materiale altamente tossico per un ascolto che non fosse rodato e reso immune dal tempo. Il workshop era una prova di resistenza nei confronti del tempo, pensava sorseggiando da un bicchierino di carta riciclata un tonificante caffè che più bollente di così non poteva essere. Non aveva esperienza di contatto con la gioventù, ma non intendeva essere colui che insegnava, voleva evitare che si instaurasse il classico rapporto educatore/studente. La sua idea di workshop era tutta racchiusa nella sconnessa fantasia che si sorreggeva in bilico sul ricordo delle lezioni tenute da alcuni professori delle superiori, quelli più fighi. Erano i prof che si presentavano come amici, con i quali uscivi a bere e mangiare, i prof che chiamavi per nome, ai quali davi del tu parlando di politica e rivoluzione. Era un’idea che si sviluppava tutta nella sua testa ed evitava di crollare miseramente nel nulla grazie alla sua piena volontà di apparire come realmente era: un tipo decisamente maturo ma tranquillo, senza pretese di superiorità dettata dall’esperienza.
A dirla tutta? Stava sprofondando nella pura paranoia.
Attorno al tavolo regnava un silenzio imbarazzante capace di uccidere anche un grizzly ferocemente incazzato, incapace di centrare con le lunghe unghie e le zanne affilate, manco mezzo salmone mentre, assieme a migliaia di suoi simili, risale la corrente del fiume Naknek in Alaska. Quale migliore occasione allora, per partire con la domanda che tutti, ma proprio tutti, fanno in questi casi: che musica gira nei vostri ascolti? In verità era un quesito che gli serviva per comprendere il trend musicale con il quale si sarebbe dovuto confrontare e che mai avrebbe immaginato fosse così lontano da quanto lui, inesperto frequentatore del mondo giovanile, pensava.
Venne accolto da un diluvio di indie ognicosa: dal rock al cantautorato, dal prog all’hardcore, da Coca Puma agli ancora (buon per loro) vivi Verdena, passando per rare sfumature di jazz, indefinita musica elettronica e decisamente più presenti sfumature reggae. Ascoltando quell’elenco per lui sorprendente, si rese conto che ci si deve immergere nella reale, per conoscerlo. Ciò di cui si è convinti crolla, quando ci si trova faccia a faccia con chi ascolta Motta o La Rappresentante di Lista e lo fa con convinzione, traendone piacere. Nella realtà dell’ascolto il più disparato, si deve esser preparati ad accettare le molteplici tendenze che lo contraddistinguono, si deve accettare e rispettare il gusto dell’altro, non ci si può ergere a giudici guadagnando l’aureola di santo martire, vittima del malvagio infierire degli altrui molesti ascolti.
Allontanandosi con fare illuminato dalla sua propensione alla condanna, venne colto dalla volontà di conoscere e capire una generazione che pensava all’avanguardia in ogni settore artistico scoprendola ferma a schemi di ascolto classici, contaminati dalle malefiche infiltrazioni dei talent show e soprattutto, lontani anni luce da quanto erroneamente lui pensava fosse pratica di ascolto diffusa: quella del suono elettronico, per nulla conosciuto dagli universitari presenti e relegato all’ascolto dei più attempati. Una corrente musicale, quella elettronica prima ed elettroacustica di ricerca e derivazione ambient poi, a cui dall’inizio degli anni ‘90 lui continuava a dedicare anni di intenso ascolto e, a quanto pareva, inutile continua ricerca.
Immerso in questi pensieri, ricordò le parole scritte da Pier Vittorio Tondelli alla fine di un’epoca per molti aspetti unica, forse celebrata un po’ troppo sopra le righe e mai vista come in realtà era: una flebile copia di quanto successe fuori dai nostri confini. “Ci sono periodi buoni e altri meno buoni. Quello che è importante è saper trarre, anche dai cattivi momenti che si attraversano, uno stimolo nuovo, una elaborazione che permetta di superarli traendone un qualche insegnamento”. Cosa potevano saperne di nuovi stimoli questi ragazzi nati e cresciuti molto tempo dopo la scomparsa dello scrittore di Correggio e, in contemporanea, del movimento indipendente pronto al suicidio a fini commerciali? Loro erano nati con l’indelebile prefisso ‘indie’ appeso sulla porta del loro Spotify personale, vagavano in un deserto di suoni che raramente conteneva quella parola ormai desueta chiamata: ribellione. Ogni segno che la poteva rappresentare veniva intercettato e subito decodificato; trasmesso sugli schermi televisivi, sui palchi del primo maggio e su quelli dei festival dei fiori, sulle radio un tempo private e libere, sulle piattaforme di ascolto, lungo i mille canali nei quali loro, al pari del grizzly incazzato, tentano di pescare quel salmone che mai riusciranno ad afferrare perché già inscatolato a valle.
“In verità io mi occupo di ciclismo, di questo in teoria scrivo per la nostra webzine. Tu non hai idea della difficoltà che si incontrano intervistando i ciclisti, quelli professionisti dico. Un mondo a parte nel quale a loro è assolutamente vietato mostrare anche il minimo sentimento personale che vada oltre la gara, le prestazioni o i traguardi raggiunti.” Lui era Nicola, un altro ‘anziano’ tra i redattori della webzine; non che lo dicesse ma lo faceva capire non appena obbiettavi che avere quarant’anni non era certo la fine e lui guardandoti, controbatteva confrontandosi con il gruppo di ventenni raccolto attorno al tavolo. Nicola era un tipo di quelli che da subito ti piacciono: risposta arguta, facile e brillante uso dell’ironia, conoscenza della materia come tutti coloro che formavano la redazione della webzine, perché Nicola pedalava si, ma anche ascoltava parecchio e sembrava non avesse preclusioni di sorta. Era un attento ascoltatore con un vasto range di musicale, ascoltava per esempio Motta e conosceva bene le sue vicissitudini di coppia con, non ricordava più, quale attrice italiana.
Lungo la scala che portava alla sala concerti trasformata in aula per il workshop, realizzò che il tempo era il soggetto a cui più si riferiva, da quando era iniziata quella per lui strana, ansiosa ma piacevole avventura. Tutto era direttamente legato al tempo, quasi avesse sopra il capo un’invisibile clessidra che continuamente si capovolgeva, quasi a suggerirgli di muoversi, raggiungere l’obbiettivo, tentare una realizzazione di se stesso, prima del suo ennesimo ribaltamento.
Tra le mani aveva la scaletta della due giorni, un ineffabile elenco tecnico preparato dalla incomparabile Rossela senza doppie che da energica persona di legge aveva il ruolo fondamentale di PR, organizzatrice e conduttrice dell’evento. La playlist argomenti da trattare era indubbiamente ben pensata e organizzata in modo tale da non stancare i partecipanti al workshop mantenendo alta la loro attenzione. A lui aspettava l’apertura con una serie di punti cardine che ben introducevano la realtà del giornalismo musicale. In quella storica radio padovana, dove era sbarcato con una sorta di prudenza politica dovuta ad inconsistenti ricordi lontani, vigeva ancora un termine ovunque messo al bando a favore della diffusa personalizzazione che andava a stravolgere il lavoro stesso del giornalista, assunto a protagonista al posto del musicista e della sua opera. Il termine collettivo ancora largamente usato in quell’isola (forse) felice, contribuiva ad azzerare ogni caratterizzazione individuale a favore della musica. Questo il motivo per il quale, tra gli argomenti elencati spiccava un pregevole e inconsapevolmente incontaminato capitolo: gli esempi virtuosi di giornalismo musicale di qualità. Non esisteva riscontro di tale virtuosismo nella realtà da piccolo mondo antico del giornalismo musicale indipendente italiano, un mondo a parte nel quale ignorare l’altro era pratica istituzionalizzata. Mantenere con le unghie e i denti il posto guadagnato era l’imperativo che obbligava ad ignorare o svalutare chi, nella paranoia montante che ormai regnava incontrastata, tentava di rubarlo.
Non gli interessava raccontare ai ragazzi quanto succedeva in quel cortile, uno spazio ristretto che ben rappresentava la critica musicale indipendente del Bel Paese, chiusa dentro confini del tutto invalicabili, se affrontati con quella mentalità. Cercare di esaltare la passione che già albergava nei loro ascolti, era ciò che si era prefissato. Di tempo ne avrebbero avuto, per scontrarsi con la triste realtà.
Virò sulla bibliografia utile, consigliando i lavori di Simon Reynolds, David Toop, Carl Wilson, Simon Frith, finanche il buon Lester Bangs, con l’eccezione rappresentata dall’italiano Valerio Mattioli e il suo Exmachina, un intenso saggio dedicato ad una corsa non ancora terminata, dai primi anni ‘90 fino ad un futuro che probabilmente non interessava i giovani aspiranti giornalisti, visto che trattava materia elettronica, poco diffusa nei loro ascolti.
Il secondo giorno di workshop lo vide intento a fare dei confronti con quei ragazzi che man mano imparava a conoscere, raffrontandoli con la realtà della sua gioventù, carica di sbandierato impegno politico prima e trasgressione poi. Nel comportamento di questi ragazzi regnava il low profile, nessuno si vantava di nulla, erano talmente naturali da apparire disarmanti. Parlando con loro, scoprivi che erano volontari in associazioni che operavano in quartieri a rischio, operavano in centri di accoglienza, lavoravano part-time per poter pagare l’affitto della stanza. Erano coscienti che il futuro non sarebbe stato accogliente e la musica era una delle sostanze irrinunciabili per poter affrontare questo viaggio per nulla semplice.
Nei momenti di pausa si godeva i loro discorsi, ne rubava le espressioni, si sentiva un esploratore immerso nella realtà aliena di un’età che non gli apparteneva. Li seguiva mentre descrivevano la musica che riempiva i loro file: basso, batteria, chitarra e il cuore che correva loro dietro. Questo era quanto, mentre il tempo – sempre lui – continuava a capovolgere quella clessidra.
Il workshop si era concluso. Mentre stavano allestendo per il dj set di fine corso intensivo, si sdraiò sulla poltrona del salottino adiacente al bar e iniziò a valutare il suo operato. Cosa era riuscito a trasmettere a quei ragazzi, cosa era riuscito ad aggiungere alla loro passione? Il dubbio era la sua scimmia da sempre, accovacciato sulle sue spalle, continuamente gli sussurrava che non era abbastanza, doveva esporsi di più, mollando gli indugi e lasciandosi andare. Valutò con calma la cosa e giunse alla conclusione che quanto aveva inconsciamente accumulato dentro di sé in anni di scrittura dedicata al suono, in questi due giorni era in parte riuscito a trasmetterlo a quei ragazzi. Poteva riassumerlo in poche parole: conoscenza, competenza, modestia, rispetto, sincerità, sensibilità, immaginazione, forza d’animo e passione che sempre doveva giungere dal profondo. Sentiva l’esigenza di lasciare delle chiavi per poter loro permettere di avvicinarsi alla porta della scrittura: certo un’incrollabile passione, ma anche la ricerca di un proprio stile espressivo, attraverso le parole che evocano, le emozioni che parlano, i fili invisibili che collegano terre lontane, parole e suoni. Ognuno doveva trovare la propria chiave e sapere che era la sua, ed era unica, riconoscibile e riconosciuta.
Lo chiamarono per il discorso di saluto: Vi devo ringraziare ragazzi, sono stati due giorni di immersione in una realtà che a pensarla ora, per me era aliena. Vi ringrazio per lo scambio che siamo riusciti a costruire, per ciò che sono riuscito a comprendere e spero anche voi abbiate compreso da quanto detto e raccontato. Il mio grazie anche alla crew della webzine, gente coraggiosa e determinata, anche se ancora indie come gran parte di voi, maledetti. Vi abbraccio! Ringraziò tutti quei ragazzi che lo avevano seguito nella due giorni immersiva, lo sentì come un moto d’animo impossibile da trattenere, anche se doveva colorarlo con l’ironia, arma insostituibile e un po’ ruffiana che era parte imprescindibile del suo malandato arsenale comunicativo.
Uscendo dalla sede di quella vecchia radio libera si sentiva più leggero, quasi fosse riuscito dopo molto tempo a correlarsi con qualcuno che realmente aveva le sue stesse intenzioni: un alieno tra incontaminati alieni. Il suo destino forse era questo.
Mi sporgo sul lato premiato dall’ascolto, lo faccio con un insospettabile rispetto, riverisco e mi commuovo ancora e da sempre, mi commuovo ben cosciente che non potrò mai allontanarmi da questo porto che ricovera il mio malconcio natante, lo salvaguarda dalle terribili tempeste del mare aperto, lo culla e lo protegge vibrando di basse frequenze e lenti sogni che si avvicendano come piccole onde, le une sulle altre. Mi sporgo sul lato premiato dell’ascolto mentre la pioggia cade fitta e leggerissima evitando alle lacrime di farsi scorgere sul viso che il tempo ha reso vittima della lotta impari contro il ricordo di ciò che non torna.
Era sorprendente come la sua memoria, definitivamente andata in pezzi, ricordasse per filo e per segno quanto aveva scritto la sera prima, immerso nella recensione del nuovo lavoro in uscita di Alva Noto. Sorrise mentre la ragazza dietro al banco di una delle migliori pasticcerie della città, ricambiando il sorriso, gli porgeva il croissant da due giorni agognato. Tradire era cosa che faceva sovente anche con se stesso, ma farlo con la Giacometta era un’esperienza impossibile da descrivere.
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Grazie, grazie, grazie. Letto e riletto. Al maestro Forlani e a Mirco che mi ha commossa. Che mi ha fatto ricordare i miei allievi che mi hanno rubato. Che ha creato un personaggio col diabete che ricorda Pereira, uno dei personaggi che porto accanto al muscolo cardiaco. Bello. Se dovessi aggiungere un pezzo alla fanzine, sarebbe sicuramente “My favourite things”.
Il mio iperglicemico grazie di cuore, Irma. Nome sublime, il nome di mia madre.
Grazie ancora.