Su I pruriti del giovane Letale
di Marco Berisso
Come ricorda in una succinta nota conclusiva lo stesso Gentiluomo, la genesi di I pruriti del giovane Letale è ampiamente trentennale, visto che una prima parte, corrispondente a quasi tutto il primo capitolo, venne pubblicata sulla rivista «Altri Luoghi» in quattro puntate, dal numero 8 dell’aprile-giugno 1992 al numero 11, l’ultimo, del gennaio-marzo 1993 in una apposita sezione intitolata Appendice (la rivista articolava il materiale pubblicato sotto alcune parole-chiave). Alla scrittura del romanzo (che allora si suddivideva in due capitoli, In città e In viaggio) appariva aver collaborato alla stesura un fantasmatico Enea Ortis. Chiusosi «Altri Luoghi», il romanzo traslocherà dopo poco su un’altra rivista genovese, «Il Babau»: ne usciranno due puntate che corrisponderanno esattamente, ironia della sorte, al medesimo tratto del testo già edito, dopo di che se ne perderanno le tracce sino a questa edizione uscita all’altezza del quarto di secolo successivo. A dispetto dell’evidente filiazione suggerita dal titolo (e, nell’originaria confezione, come s’è visto, anche dal cognome del coautore fantasma), il modello di riferimento di Gentiluomo non è quella particolare declinazione del romanzo sentimentale che è stato il Werther (semmai, in parte, ma parodicamente, l’ibridazione politica di quel modello, l’Ortis, appunto) ma quello del genere agiografico (e del resto un suggerimento in questo senso, se proprio ce ne fosse bisogno, viene dai nuovi titoli dati ai due capitoli, entrambi prelevati dalla preghiera dell’agonia). Modello parodiabile per eccellenza, come si sa, e infatti oggetto qui di massiccia parodia. Il romanzo narra le vicende di Aldo Letale, rampollo di buona famiglia (ma in realtà i due genitori, Baldo Letale e la moglie ‒ questa senza nome e senza volto, visto che si presenta sempre con una pentola calata sulla faccia ‒ sono evidentemente due disadattati) e perciò destinato a ricoprire ruoli di altissima responsabilità in una società a metà strada tra teocrazia e tecnocrazia, in cui si pratica il cannibalismo come processo di ottimizzazione delle risorse e la carneficina (i «Gioviali Intrattenimenti», come vengono definiti) come swiftiano espediente per contrastare la disoccupazione e, nello stesso tempo, fornire un motivo di svago circense. A raccontare l’ascesa, la caduta e la definitiva santificazione di Letale è il compagno di banco e amico di infanzia, Paolo Palese, fetido (in senso stretto) appartenente agli strati più bassi di quella stessa società, costretto a narrare le vicende di Aldo e a registrarne i demenziali detti memorabili («Se scaglio un sasso, posso cagliare un asso, ma dato che si caglia solo il latte, lo scagliar è lasso») da una sorta di commissione di inchiesta formata da politici e religiosi (tra cui una ipersessuata suora incartapecorita, suor Pia Napastilla). La trasformazione di Letale in santo e quella di Palese in suo agiografo (che per quest’ultimo è anche letteralmente trasfigurazione, visto che subisce una plastica facciale che lo rende bellissimo) è in realtà all’origine della loro rovina, dal momento in cui vengono coinvolti in una rivolta popolare contro quel governo tecno-teocratico che li aveva sfruttati come strumento di propaganda. Come da regola del genere, Letale affronta quindi il suo martirio cristologico («Letale rimane in piedi e apre le braccia come un cristo in croce, con la testa piena di immondizie…») mentre Palese, fuggito in esilio come tutti gli altri protagonisti, inizia la stesura della vita di Aldo, con il romanzo che si chiude, ciclicamente, sul suo incipit. A questo punto si innesta un secondo racconto, Al maturo Palese gli prude, ovvero la biografia di Paolo Palese scritta da suo figlio Aldo, in cui lo schema agiografico si impreziosisce addirittura di raccordi narrativi neotestamentari («In quel tempo Arzilla si era distinta nell’aver dato assistenza alla suora superiora Pia Napastilla…») e che si conclude con l’assedio della casa in cui si rifugiano i due Palese, padre e figlio, e la loro cugina Arzilla Sevizzi, assaliti dalla stampa dopo aver ucciso il bieco premier Marcello Trappola, origine in realtà di tutti i mali sin dai tempi di scuola. L’accumulo parodico, e parodico al quadrato come si è visto, si ribalta alla fine, come per sua naturale destinazione, in una lingua ipertrofica, simile a tratti a quella a cui sono abituati i lettori del Gentiluomo poeta ma destinata qui a distribuirsi più sull’asse della sintassi che su quello delle invenzioni e concatenzioni verbali e retoriche (che pure non mancano, né le une né le altre, ma che appaiono massicciamente impiegate solo nel caso degli interventi di Armòdio Mannaia, sorta di idiota del villaggio che si esprime appunto tramite una improbabile mescidazione di italiano antico, semilatino, dialettalismi, accostamenti fonetici improbabili ecc.). Una lingua che, per certi aspetti, va a compensare la sostanziale afasia demente che colpisce ripetutamente i veri protagonisti, non a caso propensi a esprimersi prevalentemente attraverso flatulenze, rutti, conati e via dicendo, in una sorta di quasi totale identificazione tra espettorazione ed espressione (emotiva ma non solo). Non nuovo alle distopie parodiche (territorio già attraversato con Lo smaltimento, uscito ormai quasi quindici anni fa), questa volta Gentiluomo ce ne offre quindi un saggio in chiave esemplare: in tempi di ritorno prepotente del sacro e del santo, di profluvi di maiuscole (la Nazione, la Famiglia) e di simpatici mascalzoni e mascalzone pronti e pronte a suggerirci decaloghi e catechismi, l’attraversamento di questo resoconto in merito alla demenza persistente insita nella fede (si aggiunga la maiuscola, se il lettore lo desidera) può non solo procurare svago ma anche non pochi motivi di utilità.