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Una lettura di “La pantera” di Davide Brullo

di Vincenzo Gambardella

“La nostra natura è la rincorsa”. Leggo uno degli ultimi versi del libro, la poesia che chiude il romanzo di Davide Brullo, “La pantera” (Industria e Letteratura editore, 2024); e corro anch’io in avanti, verso l’origine, diventando una freccia che spicca nella direzione, che sembra andare diretta, scoccata da un arco fantastico, arco della velocità e dell’urgenza, nonché del destino che si compie…

Una selva di uomini mi ostacola, una folla di uomini in forma di alberi, una folla che è un bosco, che mi costringe a sbaragliare il campo, a sterzare su me stesso, a fare slalom, a sgomitare, ad abbassarmi per bisogno, a fronteggiare, a lasciarmi strappare i vestiti e la carne da dosso… “Non mi avrete” grido e risalgo, risalgo, perché adesso la folla (o il bosco), è diventata una corrente liquida, agitata, e trovo sempre più frasi che tremano nel buio… Per un attimo resistono, fin quando possono, non solo rispetto alla mia velocità, alla velocità che ha preso a svilupparsi dal mio corpo, ormai sagomato a siluro, o proiettile che non uccide, uomo diventato proiettile di fuoco, fuoco che brucia ma non distrugge, in quanto esperienza, ricchezza personale e dell’intero umano, in fase di chiedere conferma sulla propria essenza…

E in una fosforescenza incredibile leggo per un attimo su uno schermo luminoso, grande, dominante, sebbene effimero nella sua realtà di cosa visionaria, realizzata in sogno, incarnata di questo, leggo nel prosieguo de “La pantera” le ultime pagine: “Anche un seguace di Cristo deve espiare, di vita in vita, fino al giudizio, e chissà che forma avrà la carne, risorta”… Non mi accontento, anzi, la lettura mi rende euforico, alimenta la velocità che sono diventato, un puro moto che non trova più freno… Perché sto al testo, senza svelare né trama, né personaggi, ma dedicato alla parola; filologia immaginaria, inventata dal mio procedere per totale piacere di dire, fedeltà al dire di questo libro più che magnifico, più che trionfante, più che drammatico, più che felice… Ma come può essere?, mi chiedo, com’è possibile?, vista la natura tragica di quanto viene detto?… Eppure non è per questo che risalgo il romanzo fino all’origine?, fino all’inizio? Del resto la citazione che ho appena tratto dal libro, è completa; nel frammento c’è tutto, ogni frammento ha in sé il potere di racchiudere tutto, ma che dico!, di spalancare tutto dell’umano mondo…

Visione umanistica dunque, che trascende, reale che si fa cosmo, ogni frase (l’abbiamo detto!) porta impressa questa stimmate, di dire il mondo, la sua tragedia in atto, in antitesi con la letteratura attuale che è mancanza di tragico, mancanza che più si adatta al sistema del dire odierno e più si contrasta col dire, si trova fuori, si mette fuori dal dire, per ipocrisia, per ragioni personali, di successo, di clan a cui fare riferimento, da ottenere a costo di… Ma ecco che cosa avviene, se siete lettori, leggete: “Tra poco sarebbero apparse le ossa del costato, belle, vertiginose, come una cattedrale, l’abside dove tutto ciò che si confessa ritorna. Amava le bestie, la loro assolutezza – e amava le creazioni dell’uomo, anonime”…

Vi dico che in questa citazione tutto si staglia, che nel corso della mia risalita all’incontrario di questo romanzo, tra folla e boschi immaginari, io mi avvicino sempre più a un senso catartico, ultimo, o più che catartico, immenso nel punto più piccolo del cosmo della scrittura (ovvero, letteratura), così piccolo da costringere a sgranare il particolare nel grande disegno, che allude alle costole del Cristo, sporgenti per fame, per sofferenza.
Incredibile!, già il termine vertiginoso scuote, ché pare di vederle quelle ossa, rivelate, lì, davanti a noi, nella descrizione precisa dell’autore… Dunque siamo confermati, io stesso mi sento confermato nella mia rincorsa a capofitto nel libro, per cercare dove inizia, da cosa è iniziata tutta questa bellezza… “Secondo altri, è un peccato non sfruttare ciò che Dio ha offerto all’uomo: ciò che ferisce è l’ambasciata del perdono”… E all’improvviso vedo due uomini che escono a tentoni da una trincea, armati, sono due soldati che affrontano il nemico, sbucano fuori in un attimo, nemmeno il tempo di capire di quale esercito fanno parte, e… ma certo!, appartengono al libro, in effetti sono il ricalcato a bulino delle due figure protagoniste del romanzo, Charles e Edward Detmold, gemelli anche loro, come questi due soldati, che io immagino identici nel loro coraggio disinteressato, volitivi, maniera sublime di essere.

Illustratori del secolo scorso, disegnatori di animali, e in particolare di pantere, diciamo che sono stati estratti dal libro, e da me, in questo frangente, che tendo a sovrapporre, a fantasticare, per dire meglio il vero; e sono uomini che hanno combattuto, si vede!, ma questi hanno qualcosa di nuovo nel dire, o di sempre, perché nella corsa che intraprendono ognuno cita all’altro una frase del libro di cui stiamo parlando, che è diventato libro del mondo, libro senza riserve critiche, libro del dire umano… Così, uno dice all’altro, nell’affanno della corsa e della paura intrecciate insieme: “A chi si innamorava di lui chiedeva perdono…”. Lo dice sotto una miriade di pallottole fischianti ad altezza d’uomo; “… dicendo di essere nulla, un disadattato, un incapace”, continua l’altro a memoria, perché hanno mandato a mente il romanzo intero che li rappresenta, e ai due serve, si dimostra utile compagnia, nella selva fatta non più di uomini, non più di bosco, no, stavolta di proiettili impazziti, vaganti nell’aria…

“In realtà, era l’innocente che per difetto, per vigore di bianco segnala, degli altri, la mancanza, l’ingiustizia, la pochezza…”, e a questa citazione, interrotta di uno dei due, l’altro, nella ressa degli spari, dei trancianti che arrivano a fiotti, completa: “… Più si sottraeva più questa sfinita sensazione di pochezza aumentava”.

Non arresi, non esausti per quanto gli sta intorno, minacciati fino all’ultimo respiro, entrambi gridano di traverso a chi gli corre vicino, cercando di dire tutto con quel poco di fiato che esce a strappi dal petto: “Tutti gli uomini che avevano conosciuto finivano per contrarre una tragedia…”. E il gemello continua: “Ogni suo gesto sembrava l’ultimo…”. Ma la risposta, o continuazione del testo, non si fa aspettare, pur nel pieno della battaglia: “Si ama nel pieno di un duello… “. Perfetto, dico io, che assisto a questa visione pieno di speranza, per l’agonia della vita che piomba dritta nello sforzo della speranza. “Perché?” mi dice uno che arranca dietro di me e mi incalza, fino ad affiancarsi, e poi a superarmi, e più si allontana più ho la sensazione che posso raggiungerlo con le mie parole, che sono le parole del libro, ovvero quelle adottate per vivere ancora dai due soldati gemelli, universali, che vanno all’attacco…

La velocità di questa corsa non toglie niente alla verità, anzi l’accentua, la rinvigorisce mentre dice, mentre sente il fiato morire dentro, eppure affidato alla carne, che non è poco. “Siamo orfani di una tragedia!” grido io, stavolta è la mia voce che solca l’aria sul campo di guerra, in mezzo al frastuono folle delle detonazioni e ai fischi dei proiettili che sfasciano l’aria. “Ridillo!” mi sento invocare da qualcuno alle spalle. “Siamo orfani di una tragedia!” ripeto a perdifiato… Una cascata di colpi mi arriva dall’alto, senza colpirmi, sono anch’io adesso nella battaglia e non mi pare vero. “Cosa vuoi dire?” mi sento chiedere. “Non lo so” rispondo a stento. “Come? – dice la voce -, urla, urla, non ti sento!”. “C’è un centro granitico, tragico, nelle nostre vite, nelle vite delle nostre nazioni, negli uomini del mondo, credimi amico, ed è come sbarrato, negato al suo interno, crocifisso… Gli orfani si riconoscono al volo, eppure non siamo tutti orfani?, persino orfani di una tragedia, quindi della sua catarsi?”. E aggiungo, gridando: “Ricordati di me Signore, perché lei non si ricorda più di me”. “Lei chi?”, sento chiedermi. “La forma di coscienza divisa, che fa un tratto di strada e smette, non ce la fa, e abbandona… Ti dico che sono perso!”. “Non lo sei!” insiste a dire la voce che sfugge via vorticosamente, avvitandosi nello spazio, attraversato a una velocità impensabile.

“Tra meraviglia e morte la differenza è inconsistente…”. Ritorna di nuovo il dialogo tra i due soldati gemelli all’attacco. E uno tuona, sgolandosi: “… è incongruo che il bello sia incarnato in qualcosa di tanto fragile, da rendere effimero il sole”. Si avverte lo stile dei Salmi, vibrante dappertutto, che tocca ogni cosa rendendola alta, cantabile, un canto che ha per sua natura quella di non affievolirsi mai… “I frammenti dell’icona hanno il valore di un’ostia, sono salvifici”, continua uno dei combattenti, prendendo la mira e sparando, subendo poi il contraccolpo che viene dall’arma, strattonandolo. Ma ecco arrivare la risposta: “… capire che ogni relazione adombra l’addio, che ammirare morire è più affascinante che legarsi alla vita, gettarsi in un bacio”. Ora è chiaro, con questo passo detto è chiaro: l’idea non è di trasmettere un sentimento (ammesso che trasmettere sia la parola adatta), ma di un pensiero in azione. Brullo è scrittore tragico (l’unico scrittore tragico vivente in Italia, visto che Pasolini non c’è più), là dove manca il tragico, là dove il Paese, il nostro Paese, rifiuta, per temperamento e per abitudine, uno spirito predisposto alla catarsi; Paese, infatti, che non si sa cos’ha sempre da ridere, ma oppone chiusura, e convincimento che meglio è girare pagina, in modo che non si arrivi mai alla verità, a una considerazione effettiva di ciò che è veramente legittimo…

“Tu non sei la copia ma la congiura, il tentennamento, il rimedio – eppure noi cerchiamo l’irrimediabile”, dice, citando il libro, non a caso, uno dei due soldati gemelli, che continua a mirare e sparare. Ed ecco arrivare la risposta, sempre precisa, ineludibile dell’autore: “E’ proprio questo che ci inchioda alla vita: dare piacere ai morti”. Gli fa eco un altro passo: “Dobbiamo credere che esista qualcosa di inesorabile, estraneo alla vendetta”. Nel dirlo, uno dei due soldati s’impantana e cade, la faccia diviene una maschera di fango e suo fratello gli si mette davanti per proteggerlo, per consentirgli di rialzarsi; scaricando la sua munizione grida: “Per troppo tempo, abbiamo agito, ossessionati dall’agire – ora è tempo di attendere, di scrivere ciò che non faremo mai”.

Ci rincorre il bene, e il bene è un enigma, che comunque, tra fuga e rinascita, mette a fuoco la seconda. Fuoco che non distrugge, bensì è il compiersi di un’esperienza fruttuosa… “Amare significa togliersi il fiato” si legge ne “La pantera” di Davide Brullo. E non è quello che stanno compiendo adesso i due fratelli soldati?, incatramati di fantasia e di lettura, aperti al campo di sangue che hanno davanti, nostro agone infinito che si estende dal Novecento a oggi…

Afflitti, piombati nei loro rifugi, che non sono altro che fango e ancora fango anche per l’uomo qualunque che racconta, che vive di quello che ha; i due uomini si slacciano le cinghie, si sistemano come possono, finalmente riconciliati, finalmente raccolti, consapevoli di tutto il tragico che esiste nel mondo, pieni di una speranza irredimibile, prossima all’origine del romanzo che essi si sono mandati a memoria, e proprio per questo ne sono parte, proprio per questo. “Amava tenere a lungo il corpo di Cristo sulla lingua”, dice uno all’altro, nella notte. Si sentono solo le loro parole.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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