Operette mortali
di Laura Liberale
L’Europa è un clero morente
— E quindi, questo sogno?
— Cammino all’indietro in un corridoio tortuoso dalle pareti damascate, pressata da chi ho davanti, anche se dovrei dire dietro, visto come procedo. Arriviamo tutti nella stanza dell’esposizione: i tre vecchi prelati sono nei loro letti di morte, le lenzuola ricamate perfettamente tirate fin sotto il mento, gli occhi chiusi. Respirano ancora. Dietro le loro teste ci sono tre lettini, con le lenzuola altrettanto candide e ricamate, e dentro tre bambini, tutti svegli e terrorizzati. Sono piccoli ma di un’età indefinibile, e devono morire coi prelati, è stato deciso così. Muovono le teste, i corpicini bloccati dalle lenzuola, come dalle fasce di un sudario. L’officiante mi mostra un’ostia. È avvelenata, dice, così faremo morire i bambini contemporaneamente. Fine.
— Finisce così?
— Sì. Tu come lo interpreteresti?
— Mmh. È l’Europa.
— Cosa è l’Europa?
— I prelati sono l’Europa. Vegliarda moribonda che si trascina dietro nella morte i bambini. Li ammanta coi suoi paramenti – la sua legge – e li ammazza. In terra, in mare, ne abbiamo fin troppi esempi. Quand’è che hai visto l’immagine dei tre bimbi migranti annegati, tenuti in braccio come in un cerchio sacro e vestiti di rosso, il colore del sacrificio? L’altro ieri, tre giorni fa? Cammini all’indietro perché sei spinta dalla folla, ma tu non ci vuoi andare in quella stanza, guardi al passato, sai che tutto si ripete sempre… Hai fatto un sogno allegorico, non c’è dubbio.
— Dici?
Sindrome di Cotard
La madre fa yoga con noi da sei anni. L’idea naturalmente è stata della nostra insegnante, solo lei ha le competenze per una cosa del genere; questo rito, tra l’altro, l’ha appreso da un guru proprio un anno fa, durante il suo ultimo viaggio in India. Il Nataraja in bronzo che abbiamo al centro è stata la prima statua consacrata. Renditi conto quant’era disperata, quella donna. L’unico figlio con una malattia rarissima che glielo ammazza quand’è ancora vivo. Perché è questo che fa, la sindrome. Ti convinci di essere già morto, che la tua morte è già avvenuta, non senti nulla, nessuna emozione, diventi come un sasso, ti prosciughi. Ce l’ha detto lei: suo figlio credeva di essere vuoto, una specie di carcassa senza organi. Le aveva fatto riempire la casa di deodoranti per ambienti, per coprire il suo odore di cadavere. Farmaci e psicoterapia non erano serviti a niente. Lei ha cominciato a temere anche per sé stessa e il marito quando lui s’è messo a dire che erano già morti anche loro, soltanto non lo sapevano ancora. Così a L. è venuta quest’idea, tentare non avrebbe potuto peggiorare la situazione, al limite migliorarla o addirittura risolverla. La madre l’ha preparato, quel tanto che poteva essere preparato uno come lui, nelle sue condizioni. Gli ha raccontato dei templi indù, di come il prana pratistha infonda la vita in un idolo fatto di pietra, di argilla, di cartapesta o di metallo. Prana è il soffio, la vita. La murti diventa davvero dio, o meglio, il dio s’installa nella murti. La statua, l’immagine non è più inerte, inanimata, ma viva. Lui l’avrà ascoltata in quel suo stato di apatica sonnolenza, forse sentendo solo un brusio lontano, che ormai non lo riguardava più. Chissà. Fatto sta che alla fine la madre l’ha portato al centro, un giorno in cui non c’era lezione. L. ha approntato tutto: i fiori, la frutta, l’acqua, il latte, il ghi, gli incensi. L’ha fatto stendere a occhi chiusi sulla pedana rialzata su cui ci fa lezione, e ha celebrato il rito. Gli ha toccato ripetutamente le diverse parti del corpo, pronunciando i bija mantra per vivificarle, cospargendole poi dei doni rituali. È durato quasi un’ora. Alla fine gli ha sollevato le palpebre, come in una seconda nascita. E lui? La prima cosa che ha detto — e sua madre e L. gli hanno creduto, sua madre con le lacrime agli occhi — è stata che era come se il suo corpo fosse un palloncino: qualcosa lo stava riempiendo piano piano, a cominciare dal ventre, le mani e i piedi gli formicolavano, come se il sangue avesse ripreso a circolare. Poi aveva chiesto di riposarsi un po’ e che, intanto, L. gli raccontasse, come già aveva fatto sua madre in passato, della Durga puja di Calcutta a cui entrambe, insieme al gruppo di yoga, avevano presenziato quattro anni prima. La madre a questo punto piangeva senza freni, mentre L. si era messa a parlare con il tono basso e cantilenante che usa nella pratica per farci rilassare. Dopo un’altra ora circa, la madre se lo era riportato a casa. Me la immagino: trattenere adesso tutta la commozione e la speranza in un silenzio densissimo per il timore di turbare in qualche modo il presente, delicata come il soffio che immaginava stesse gonfiando di rinnovata vita sua figlio. Figlio che la notte stessa, ancora con la ghirlanda di fiori al collo, esce di casa ed entra nell’acqua del canale per annegarsi.
Come l’idolo di Durga consegnato al fiume sacro al termine della puja. Ma senza la sconfitta dei demoni.
Ri-nascite
La scrofa non può muoversi, non ha mai potuto muoversi davvero; a fatica riesce a sollevarsi, per poco, poi ricade sopra i suoi stessi escrementi. Non li può vedere, ma sente gli altri tutt’intorno a lei, irraggiungibili, eppure la loro sofferenza, la loro apatia, la loro smania la pressano da ogni parte nello spazio esiguo della gabbia di gestazione. Ha smesso da tempo di mordere le sbarre, ha compreso che le sbarre non si spezzano né si spezzeranno mai coi suoi morsi. Ha atteso che le piaghe sul muso guarissero, ha imparato quel che c’era da imparare. Ma c’è un altro dolore su cui lei non ha alcun potere, è il dolore che viene sempre con la paura, il dolore che viene con la femmina umana. La femmina umana non viene mai soltanto col corpo; porta con sé le cose del dolore: la lama con cui velocissima la incide, il bastone con cui la colpisce ripetutamente sulla schiena, e sempre quell’odore di rabbia e di piacere. Oggi, invece, la femmina umana viene col fuoco, mostra i denti mentre le brucia i capezzoli con la fiamma, poi la picchia così forte da ammazzarla.
Ha lacerato l’utero!, così grida il dottore. Chi ha lacerato? Le loro manovre? La pinza con cui le hanno rotto le acque? È sangue quello che perde? Fermate l’emorragia, Sacche di O positivo, Muoversi! E di colpo si muove tutto, tutto vortica, tutto è in affanno, tutto ha perso il centro, si frammenta, si disperde, deflagra dalle sue gambe spalancate, un dolore diverso le ha azzannato il ventre, lacerato!, e la bambina, non è mai stata quieta dentro di lei, tutti quei mesi stesa a letto, non è servito a niente, e ora, chi ha lacerato?, il sangue esce ma il sangue sta anche entrando, ce la faranno, lei ce la farà se solo l’aiutano, ma la bambina non è mai stata quieta, chi ha lacerato?, lei lo sa, la bambina ha lacerato, con la testa e le mani, l’ha strappata da dentro, non è mai stata quieta.
Che cosa fruttifica?, si chiede la bambina nel suo primo respiro.
Che cosa fruttifica?, si chiede la donna nel suo ultimo respiro.
Le sbarre hanno ceduto al mio morso, pensa la bambina.
Portavo le cose del dolore, pensa la donna.
Cedimento
Comincerò dai miei piedi scalzi appoggiati, un giorno qualsiasi, sul cruscotto (pessima abitudine, ma sorvoliamo). È estate e quindi sono nudi. Li guardo e scopro che si sono trasformati, devono averlo fatto molto in fretta, ma c’è da dire che non li ho davanti agli occhi così spesso come le mani. Ovviamente si è trattato di una cosa lenta, di un processo, eppure l’esito, il dato nudo, il dato scalzo è questo: i piedi sul cruscotto sono diversi: sono l’irrefutabile altro da cui comincia questo mio scritto.
La pelle dei miei piedi è stata sopraffatta da un frastaglio di pieghe, di rughe (è corretto dire rughe per i piedi?). I miei piedi sono improvvisamente vecchi, ed è palese che il temporaneo è escluso dalla cosa, che la faccenda è irreversibile. Quando è accaduta l’irruzione della vecchiezza? La solita questione delle origini. Ma abbiamo già acclarato che è stato un processo, dunque la domanda è fuori luogo, emotivamente sensata ma fuori luogo.
I piedi, ben oltre le scontate mani, sono lì ad attestare qualcosa di me, qualcosa che è uscito dall’orizzonte dell’invisibilità e di cui ora devo prendere atto.
Ma se adesso ti scrivo di questo è per dirti quel che è seguito alla rivelazione pedestre.
Lui ed io siamo da soli per un po’ di giorni. Un’occasione d’intimità e di recuperi. Ma non è più così semplice abbandonare la consuetudine della programmazione a vantaggio dello slancio estemporaneo, nemmeno quando lo si potrebbe fare. Allo slancio i miei piedi dicono ormai di no. Non molto tempo fa giravano per casa nudi, com’era nudo tutto il resto, e sapevano ancora dire di sì. Quindi? Stasera lui ed io programmiamo vagamente, ci promettiamo vagamente un tempo d’intimità fisica (e così facendo rinunciamo al potenziale slancio dell’adesso), procrastiniamo, ci rassicuriamo a vicenda sul futuribile. E quando sarebbe quasi arrivato il momento, purtroppo è già avvenuta la manipolazione lustrale del mio corpo: ho fatto una doccia, e la doccia non ha portato niente di buono.
Fino a non molto tempo fa, attraversavo nuda, con un pensiero leggero e di svagata gaiezza, il fascio di luce che poteva mostrarmi a chi mi abita di fronte. Ora invece mi appiattisco contro i bordi delle cose, tendo a uscire dall’orizzonte della visibilità. Il mio corpo è diventato qualcosa da nascondere.
Lui mi aspetta in camera da letto. Io entro, mi sdraio e gli dico di colpo parole di disastro. Non le ho pensate, nel senso che non ho pensato anticipatamente di dirle. Le ha pensate il corpo e ora me le dispone come un plotone.
Partono dal particolare per arrivare all’universale. Dicono che il mio corpo sta cedendo, e lo fa sempre più in fretta; che il mio seno si è afflosciato, che la mia faccia avvizzisce (la mia faccia sa come dire di sì agli slanci inesausti dell’avvizzimento). E come si fa ad accoppiarsi così?
Non comincia a essere grottesco? Le parole fanno persino una citazione pop: Marina Ripa di Meana, che in un’intervista dice che alla sua età il sesso, il sesso tra corpi vecchi, sarebbe impensabile, qualcosa di insopportabile, in primis esteticamente. Cito M.R.D.M., è un fatto, accade. Poi mi escono di bocca pseudotruismi tremendi, il male della banalità (inorridisco solo al pensiero di scriverli). M.R.D.M., però, parlava dei settanta, degli ottant’anni, quindi le parole hanno il buon senso di rettificare: Non che propriamente ci riguardi ora. Ma il corpo sta già cercando qualcosa con cui coprirsi, quindi: siamo così vicini al grottesco? Siamo già usciti dall’orizzonte della liceità estetica? Il silenzio che segue è l’invalicabile; concede solo alla sua mano di afferrare un volantino della Lidl dal pavimento.
Si doveva recuperare; c’era, in effetti, anche qualcosa da festeggiare. Vado a dormire sul divano, che è un altro bordo.
Pensare che sarebbe stato sufficiente riconfermare al corpo la sua presenza nell’orizzonte della desiderabilità è sbagliato, credimi. Ti sto parlando del tempo.
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Ringrazio la gentilissima signora Ariot per aver pubblicato questo brano di Laura Liberale che offre davvero molti spunti di riflessione.
All’inizio si parla di sogni, di un sogno.
Mi torna in mente una vecchissima canzone di Roberto Vecchioni, che non amo molto soprattutto ora, ma allora ero bambina, dodici, tredici anni.
Secondo me è la sua canzone più bella e si chiama “Figlia”.
Ad un certo punto dice, “E i sogni, i sogni, i sogni vengono dal mare, per tutti quelli che han sempre scelto di sbagliare, perché vincere significa Accettare, e se arrivo, vuol dire che a qualcuno può servire. E figlia figlia, non voglio che tu sia felice, ma sempre contro, finché ti lasciano la voce (…) tu grida forte, la Vita, contro la Morte.
La ascolto ancora oggi, qualche volta.
Grazie.