Scritture versipelli ed esistenze parallele: le Bistorte lune di Mariano Bàino
di Daniele Ventre
Sin dal titolo, la raccolta di “raccontini” di Mariano Bàino, Di bistorte lune (Galaad edizioni 2023) mostra un’aura evocativa caratteristica, e suggerisce allusiva l’idea della dimensione lunare, parantropica, di trasformazioni e mutazioni fisiche al limite dell’ibridismo e della natura versipelle.
Tramite questo peculiare sistema di immagini e archetipi, si annuncia così al lettore, a più livelli, quella che non esiteremmo a tutta prima a definire una scrittura “mannara”, o se si vuole una diegesi trickster, osmosi e transizione fra identità, confini, limiti, membrane separative di ambiti esistenziali; a livello espressivo, sul piano stilistico, per l’imponenza di fenomeni di plurilinguismo dispiegati pur nello spazio narrativo della maniera diegetica breve; a livello esistenziale, della rappresentazione dei corpi, o del dipanarsi dell’esistenza dei personaggi, per come in ciascuno di questi quattro racconti il corpo è mescolato, disfatto, a volte maciullato o scomposto in una sorta di sparagmós; a livello dei segmenti narrativi interni al racconto, per come si attuano rovesciamenti di ruolo e rapide transizioni, così che il lettore ne viene costantemente spiazzato. Trama di fondo dominante di questa disseminazione del personaggio è il flusso di coscienza, che a tale disintegrazione dell’io si presta.
La prima tappa della tetralogia, Chess-boxing, attiva questo processo di ibridazione e transizionalità, agendo “verticalmente” sul diaframma che separa, nel gioco e nell’agonismo, la dimensione intellettuale e mentale degli scacchi e del pugilato, che sono mescolati in un’unica forma di ascesi atletica, in cui, come suggerisce nella post-fazione Chiara Portesine, l’impegno fisico della boxe è momento di pausa dallo sport più violento e sfibrante, gli scacchi, consolidata allegoria dell’esistenza come match a tempo giocato con la morte. Ma sin dal principio di questa prima tappa, l’io in flusso narrativo avverte il lettore di una presa di distanza dagli scacchi e di un avvicinamento al go, alla dama cinese, né manca di rimarcare la differenza fra i due giochi. Gli scacchi, simulazione di un esercito su un campo di battaglia, mirano alla distruzione dell’avversario, senza lasciargli più vie d’uscita; il go implica una strategia di tipo più omeostatico, così che il giocatore, per vincere, deve seguire in un certo senso la norma del vivi e lascia vivere. Stesso passaggio ideale si compie, nella mente del protagonista, con il passaggio dal pugilato (una lotta fisica e violenta) al kendo, un’arte marziale in cui il rapporto fra vittoria interiore e vittoria sull’avversario è molto più trasparente che in altre forme di lotta. Il chess-boxing del protagonista (parola composta che evoca il più aggressivo e diretto kick-boxing/krav-maga) si trasforma così, passo dopo passo, con trasizione “orizzontale”, in go-kendo, una sorta di concezione della struggle for life come equilbrio, non senza però che il lettore avverta, alla fine, un’aura di fallimento dell’ambizioso progetto esistenziale: troppe le tare che minano il protagonista, stigmatizzato come “narciso-fallico” dalla sua controparte femminile, la fidanzata mezza olandese Maria Hubertina Mannaerts, con cui non riesce a superare l’Einblick della metafora scacchistica: i due sono come l’alfiere campobianco e l’alfiere camponero dei due colori opposti, deformazione espressionistica occidentale e parodia dissacrante di uno yin e di uno yang non mescolati e complementari, ma in mutua esclusione reciproca. Il rapporto di incomunicabilità con il femminile si fa qui specchio dell’ultimo match dell’io narrante, ancora pur sempre a scacchi-boxe, confronto che sul piano della boxe si conclude in uno stallo letifero, a sua volta inversione deforme e parodica del vivi e lascia vivere proiettato sulla scacchiera del go.
Tale incomunicabilità è la cifra dominante del secondo dramma della tetralogia, Con un certo ritmo, il cui titolo è estrapolato, non a caso, da un luogo ben preciso del raccontino: “in Inghilterra condannando ai lavori forzati, una volta, appendevano il condannato sopra una ruota, ruota che girava con l’acqua, e il condannato per non rompersi le gambe doveva muoverle con un certo ritmo…” I due personaggi che nel secondo raccontino campeggiano, sono in effetti, come nel precedente, due alfieri di campo opposto, destinati a non incontrarsi; ciò non tanto per l’opposizione fra il moralismo del protagonista, che parte come operaio saldatore a Breda (e ricorda una versione razionale e meglio centrata del “cocciamatte” Bonfiglio Liborio del romanzo di Remo Rapino) e il presunto “liberalismo radical chic” dell’amico professore (così Chiara Portesine nella postfazione), o per una presunta dialettica fra lavoro e potere. In questo caso la chiave di lettura della scrittura mannara, e della narrazione trickster, ci permette di sondare un livello interpretativo un po’ più profondo. Si assiste, nel secondo dei raccontini, al confronto fra un intellettuale adattabile e moralmente aperto (non banalmente elastico), tipico docente, da prima precario, appartenente a un cognitariato bohémien, e un personaggio multiforme per forza, il lavoratore, prima metalmeccanico a Milano, poi impiegato nel restauro della galleria Vittoria a Napoli, lavoro in cui è felice, perché invisibile, ammantato d’ombra notturna nell’ombra ipogea, dati orari e luoghi di impiego, infine improbabile (e un po’ morboso) fattorino di urine di anziane donne nell’ambito di uno studio sull’infertilità femminile, prima di avviarsi verso l’ennesimo mestiere di tappezziere per navi da crociera. L’aspetto della contrapposizione sociale fra l’operaio e il professore è abbastanza ovvio, ma non è la chiave di volta del racconto; la dialettica fra i due è presente, ma non sfocia mai nello scontro diretto, che è sempre eluso, il che non è un dettaglio secondario. Di questa opposizione è in effetti disseminata la micro-vicenda: l’inclinazione canora embrionale (“quasi fischiettavo”) è nascosta dall’operaio, per evitare i commenti stranianti dell’amico; allo stesso modo, fra i due scoppia un “quasi litigio” in merito al romanzo storico di cui sopra. Per il professore, artista, quasi etereo, ma fumoso, sbadato, “scombinato”, mal vestito nella sua trascuratezza, il lavoro dipendente è di fatto il corrispettivo moderno della schiavitù; è facile dedurre, dalla giustapposizione delle situazioni, che il quasi-litigio sul tema del lavoro forzato comminato dai magistrati dell’impero britannico, nasce da un’analoga comparazione fra prestazione coatta di carattere penale e mansioni lavorative. Ciò che conta è però il processo esistenziale per cui i due personaggi avranno opposta deriva: statico il lavoratore, l’operaio dai mille mestieri, pur nel suo continuo peregrinare e mutaformare, che non riesce tuttavia a fargli superare i limiti del giudizio ordinario, borghesissimo, su Esilda, la prostituta possibile moglie, in merito alla quale, a detta del professore, “ogni granchio ha la sua luna”; fluido e adattabile l’intellettuale, che infine si stabilizza (“professore di ruolo al nord”: potere percepito, non reale, non realmente opposto sul piano dialettico), cioè precipita nel suo status destinale, ma in virtù della sua estrema mobilità (apertura, non elasticità di convenienza) anche morale (sarà lui a sposare Esilda, in un happy end paradosso); per l’operaio, il rapporto con il femminile si ridurrà, nell’ennesimo mestiere transitorio di fattorino urinario, allo strano interloquire con le anziane donne, corrispettivo plurale opposto e archetipico di Esilda. Nell’ambito dell’archetipo “mannaro” o multiforme, il rapporto con il femminile è essenziale a definire l’essenza del pàredro; nella sua interiore auto-plasmabilità, l’intellettuale amico del protagonista va letteralmente verso la vita, ovvero verso una versione afrodisia del femminile (Esilda: la Fanciulla, eros pandemio -da ierodula pafia); l’io narrante come tale si muove fra complicità con i carabinieri e femminile para-tombale (le vecchiette preda prossima della comare secca, della morte, accabadora cosmica). In questa trama di archetipi, sono, per imprevedibile e beffardo contro-rovesciamento dialettico, mero epifenomeno congruo al tempo storico, tanto attuale l’auto-consegna del lavoratore precario alla complicità con apparati di controllo e gestione (carabinieri, aziende: strumenti del vero potere, di cui lo schiavo introietta e fa propri i meccanismi e gli ingranaggi come co-attore coatto -immagine delle masse che cedono a destra, strame da Bestia popolar-populista), quanto la spontanea fluttazione dell’intellettuale verso un connubio atipico a margine della professione del più largo appannaggio di sicurezza e tempo libero (secondo l’erronea percezione comune). I due personaggi sono, di fatto, due mezzi Ulissi: l’uno destinato all’esito felice di una partenza senza ritorno verso una Penelope impropria, compagna mercenaria di un numero imprecisato di proci, come da implicita tradizione secondaria del mito, l’altro votato all’esito grigio di un ritorno-non ritorno e a una pluralità di antiche e sterili consorti-non consorti, come da impreveduto riflusso tennysoniano.
La seconda diade di raccontini, Large White e Una lettera segreta, andrà letta in base alle coordinate stabilite dai primi due e in virtù dell’estremizzazione dei connotati diegetici profondi che vi si riscontravano: in sintesi, opposizione senza conflitto risolutivo, collassata in funzioni di onda esistenziali mutuamente escluse, parantropia, ibridismo, contaminazione e mutazione compiuta, positiva, e incompiuta, negativa, forclusione del femminile o sua accettazione integrale.
Il dialetto lombardo gergale di Large white e la cerebrale lingua aberrante dell’epistola impossibile di Lucia Joyce a Sabina Spielrein (fatta di parole macedonia, pseudoanglizzazioni terminali come “magary”, latinismi formulari come da ora-pro-nobis erotico-salutatorio: “vale”) sono le due facce complementari di questa seconda faccia della medaglia iper-dimensionale dei quattro bistorti raccontini.
La voce narrante di Large white esordisce con orgoglio vantando la purezza genetica dei suoi maiali: “I noster sono large white, la razza bianca che ha mandaa giò tante razze locali”. Inevitabilmente, il gioco evocativo del linguaggio qui attivato richiama il tema colonial-razzista tradizionale del fardello dell’uomo bianco; certo, si parla di maiali, ma la memoria ritrova all’istante, nel calderone reticolare dei referenti extra-testo, l’identificazione uomo-maiale degli apologhi orwelliani, ma anche le poco lusinghiere analogie fra suini e umani rinvenute dalla genetica. Diamo quindi per assodato l’ibridismo parantropico uomo-suino come dissacrante fondo di partenza del racconto, e incassiamo il dato evidente di come la prima nota di Large white sia effettivamente evocazione del sinistro passato dell’homo Europaeus, ora ridotto a obeso grufolatore tra i rimasugli della violenza. Che la creatura fantastica del porcus humanarius costituisca un tratto archetipico di fondo ben evidente lo mostra anche il dato di fatto che i due personaggi ricordati dalla voce narrante, Aquilio Uffreduzzi e Falconetta Papini (nomi da italietta del ventennio, a ben vedere, entrambi rapaci -aquila e falco- entrambi incrociati con formazioni neodannunziane, il secondo addirittura evocativo di una certa Claretta, ma con tanto di cognome da scrittore primo-novecentesco di aura lacerbiana, e sui nomi quasi-parlanti di Bàino -che laissent sortir des confuses paroles-, si tratti di un poliziotto Ingravoglia o di un avvocato Chiaffredo Buffaldieci Guastella, ci sarebbero da versare ancor più fiumi di inchiostro), di fatto assumono comportamenti che li avvicinano ai maiali: l’uno è un lavorante e dorme nella porcilaia, ma accanto a una scrofa che non è proprio di pura razza Large white (e verrà allontanato) l’altra, “sciora” romanziera interessata ai maiali, di cui vuol fare narrativa, e che prendendo in giro il personaggio narrante comincia a imitare il verso degli animali. Entrambi si uniscono, di fatto, ai porci, perché “hanno paura del freddo”: l’allusione al connubio zoorastico, in cui infine Falconetta troverà una morte atroce, costituisce l’evento culminante della ferocia “mannara” annidata nei raccontini. In questo racconto incentrato su di una specie mutante umano-porcina, super-razza bianca, obesa e degenere, sottilmente razzista, tutta lumbard, non si può non riconoscere una certa implosione antropologica e politica specifica di quest’ultimo ventennio. Fra i connotati di questo ventennio non manca nemmeno l’incidentale e derisoria allusoria alla volgarità e alla depauperazione culturale, ben rappresentata dalla battuta indiretta del padre ignorante del protagonista narratore, nel momento in cui va a dormire fra le improbabili braccia di una Moira-Orfei = Morfeo -e si potrebbe dire molto, non fosse il timore della sur-interpretazione, anche sulle sotto-allusioni implicite in questo nome circense reso ancora una volta parlante, rivelatore, “Deriva-destinale-assegnata figlia di Cantore-incantatore”, entrambi associati con il dio morfinico del sonno. L’imbestiamento e la trasformazione in grufolame da porci, degno delle operazioni magiche di una Circe, non conosce redenzione magica: nel caso specifico, il femminile stavola non domina, ma pur esso è imbestiato: Falconetta, è oggetto di un lurido rituale porcino cannibale di sparagmòs a ruoli invertiti; la controparte archetipica, il candidato mutaforma, non sfugge all’imbestiamento, ma è contaminato dall’inclinazione suina che aveva già colpito Aquilio, così che in definitiva quello di Large White è un altro Ulisse incompiuto.
L’ultimo raccontino, una lettera segreta che si immagina scritta, o anche solo prefigurata, nel delirio, da Lucia Joyce, figlia ballerina folle dell’autore dell’Ulysses, e ipotetica amante di Samuel Beckett, allontanatasi dalla danza e poi fatta internare dal padre, a Sabina Spielrein, madre della psicanalisi in Russia e vittima sia del totalitarismo stalinista (che giustiziò i suoi fratelli con futili pretesti), sia del totalitarismo nazista (che la massacrò insieme alle figlie). Sul piano della creazione linguistica, è il racconto più complesso: si è ipotizzato che i deliri di Lucia abbiano ispirato lo stile allucinato di Finnegans Wake, e una traccia del libro più sperimentale e complesso di James Joyce qui si ritrova in parte, intrecciata con la ripetizione di un vale da saluto mortuario antico, che è né più né meno che il corrispettivo dello yes ripetuto di una ben nota sezione del monologo di Molly Bloom. L’anno immaginario di questa lettera è il 1934: Lucia Joyce ha da quattro anni manifestato i sintomi dell’implosione mentale; entro tre anni da questa data, il marito di Sabina Spielrein morirà di infarto, la sua famiglia sterminata dalla polizia staliniana; entro otto anni la stessa Spielrein sarà trucidata dai nazisti. L’immaginario amplesso lesbico che le unisce a distanza è rappresentazione figurale, sotto la specie del contatto fisico profondo, della loro intima consonanza di vittime. L’unica dimensione puramente umana è qui incarcerata nella follia ed è rappresentata come proiezione onirica di una conoscenza impossibile, che si tratti di illusione scenica di storia alternativa, ucronica, o di semplice costruzione immaginativa e allucinatoria. Di fatto l’ultimo raccontino è in impropria responsione rovesciata col primo, in cui l’incontro fra i personaggi è impossibile come la sovrapposizione delle traiettorie di due alfieri di campo opposto sulla scacchiera. Qui l’incontro è ideale, intimo, ma materialmente irreale e impraticabile. Nell’ottica della scrittura mannara, qui la narrazione è intrisa di umanità pura: l’ibridazione e l’ircocervo, la multiforme natura, sono proiettate sul linguaggio, sistema di pedine atopiche sulla scacchiera della schermaglia amorosa. Se multiformità si deve qui riconoscere, la si rinviene nell’occasionale androginia del travisamento di Lucia (da Charlot) in una sorta di gioco di ruolo: dimensione tipica di un trickster collocato al limite delle distinzioni.
Se traiamo le somme della complessa equazione dei raccontini, ci troviamo di fronte a una responsione chiastica: apre la raccolta un racconto a dominanza maschile, in cui il trickster scacchista-pugilatore è a cavallo dei confini verticali fra mente e corpo e orizzontali fra occidente e oriente -e in tale racconto il rapporto col femminile è uno yin e yang incompiuto; la chiude un racconto al femminile in cui il rapporto col maschile è rappresentato dall’assente forza coattiva paterna che ha internato la protagonista, ma allo stesso tempo è fagocitato nell’androginia di quest’ultima, trickster inconscia. In mezzo le narrazioni multiformi e mannare (il clou negativo essendo rappresentato da Large White), in cui dominano Ulissi parziali e mancati. Il sistema tetralogico è poi, sul piano stilistico, strutturato in un dittico, in cui il grado (quasi-)zero del plurilinguismo è in Con un certo ritmo, opposto nettamente a Large White, che ha il timbro linguistico identitario più forte, a coprire la realtà più deteriorata. Le torsioni esistenziali che in questa tetralogia si rappresentano, non sono tanto sviluppate nel dipanarsi di un’unica dramatis persona in quattro maschere: piuttosto rappresentano il declinarsi in quattro situazioni complementari (uno yin e yang deforme, stavolta) di un sistema di archetipi strutturato, in cui le maschere affioranti sono molteplici e intrinsecamente dissociate, nel tentativo di tenere insieme pezzi di esistenza e di natura incompatibili: incapaci come sono di muoversi a cavallo dei mondi, i personaggi ne sono lacerati o mutilati o menomati.
Quel che se ne ricava è un paesaggio umano in cui l’ironia gentile dei nomi quasi-parlanti ed espressionistici, dei composti macedonia, delle parole deformate, del dialetto estremo, tipici di Mariano Bàino, fa da coibentazione e vetro di sicurezza per il lettore costretto a maneggiare il decadimento radioattivo dell’esistenza. Una sorta di versione affabile e quotidiana dell’occhio olimpico di classica memoria, che mostra la realtà delle cose nella sua crudezza barocca, senza consolazioni ed esorcismi epidermici, guarendo come può la ferita che è prezzo di ogni equanime e onesta presa di coscienza dell’uomo sulla storia e sul mondo.
I commenti a questo post sono chiusi
Confermo, si tratta di un testo di grande qualità in cui la varietà delle soluzioni linguistiche corrisponde a un campionario di umanità sopraffatta. E’ una lettura che riconcilia con il fatto che la letteratura ci mette in grado di cogliere cose che abitualmente non vediamo