Casa infranta
di Matteo Quaglia
A volte, io e Marina avevamo la sensazione di trovarci nel centro di una pozzanghera durante una giornata di pioggia battente; era piacevole; spesso però sopravveniva l’idea che la pozzanghera potesse trasformarsi in un lago o perfino in un oceano, e allora tutto si perdeva o farei meglio a dire si annacquava, anche e soprattutto le migliori intenzioni che ci avevano animato nel momento in cui avevamo deciso di andare a convivere nel vecchio palazzo che fino a qualche tempo prima avevamo potuto solo ammirare da lontano. Allora, capitava che io e Marina ci stringessimo sotto le coperte, soprattutto se fuori era buio e il lampione appeso tra il nostro palazzo e quello di fronte ondeggiava al vento proiettando ombre ballerine sul marciapiede. Ombre di spettri invisibili, di macchine transitate di lì chissà quanto tempo prima. Sotto le coperte condividevamo una sigaretta ai chiodi di garofano, facendo attenzione a non bruciare la casa. Dopo di che, Marina posava la fronte sul mio petto, io le carezzavo i capelli, a volte glieli stringevo troppo forte, finché lei si addormentava. Se non si addormentava, mi mordeva, poco sopra il capezzolo, fino a farmi sanguinare.
Ma per lo più la convivenza era tranquilla.
L’appartamento ci piaceva molto. Era spazioso — in sostanza erano due appartamenti collegati; Marina si sorprendeva ogni qual volta intuiva che nel soggiorno avremmo potuto organizzare una festa da ballo; l’avevamo portato via per pochi soldi partecipando a un’asta giudiziaria, il prezzo sborsato avrebbe dovuto suggerire spazi angusti e un certo decoro, invece la casa era grande e barocca e decadente, il covo perfetto per uno stormo di pipistrelli. I precedenti proprietari, o detto altrimenti, quelli a cui avevamo portato via la casa, avevano nascosto una lettera dietro un quadro sbilenco, una lettera indirizzata a noi; Marina l’aveva trovata quasi subito, ossia dopo pochi giorni da che ci eravamo insinuati nell’appartamento, e l’aveva bruciata nel camino dello studio (c’era perfino un caminetto, sì). Quando le avevo chiesto di parlarmi del contenuto della lettera, Marina aveva risposto di non essersi data la pena di leggerla. Di certo, doveva trattarsi di una maledizione, o di un avvertimento, o di qualcosa di troppo triste per essere sopportato in quella fase della nostra vita. Come darle torto.
Oltre a essere spazioso, l’appartamento cadeva a pezzi. Avevamo dovuto investire un certo capitale per ristrutturarlo — soldi prestati dai nostri genitori, in uno slancio di benevolenza. L’impresa di costruzioni aveva lavorato alla svelta. Il capo operaio ci aveva provato con Marina; ero stato costretto a minacciarlo con un cacciavite (il fatto era accaduto a lavori quasi ultimati, avevo approfittato di un attimo in cui Marina esaminava lo spazio dove avremmo posizionato la scarpiera, e dunque non aveva visto. In ogni caso, non avrebbe apprezzato il mio slancio di gelosia; mi avrebbe morso ancora più forte di come già faceva). Dopo tale episodio, i lavori erano stati sbrigati con una celerità inusitata; avevamo perfino spuntato un piccolo sconto sul costo della manodopera.
Io e Marina ci abituammo a vivere lì dentro nonostante lo spazio sprecato, nonostante le ristrutturazioni avessero restituito un’idea di appartamento molto lontana da quella che avevamo cullato nelle lunghe giornate trascorse nell’attesa che il tribunale formalizzasse il passaggio di proprietà. In quel periodo stavo litigando con dei racconti di Giorgio Falco e mi ero stupito nel trovarmi a leggere la storia di una famiglia a cui avevano portato via tutto, anche la casa. Era stato come se avessimo comprato proprio l’appartamento della coppia di quel racconto di Falco; mi ero convinto che le cose stessero in quel modo, che, insomma, la realtà avesse iniziato a traballare, come quando fuori fa troppo caldo e gli oggetti perdono i loro contorni, tutto si rovescia e distinguere i pensieri dalle preoccupazioni diviene materia per rabdomanti.
Oltre a questo, posso dire che io e Marina uscimmo senza graffi dal periodo del trasloco, e pure da quello del post trasloco (in genere, il più duro da affrontare se non si hanno figli da sgridare o vicini con cui fare la guerra — il che, a ben vedere, è quasi la stessa cosa); la faccenda iniziò a mettersi male solo più tardi, quando Marina si appassionò alla letteratura sudamericana, e in breve tempo, anzi brevissimo (calcolai che nel giro di quattro mesi lesse tutto ciò che c’era da leggere di Borges, una buona metà di Sabato e Soriano, e abbandonò prima della metà tre quarti della produzione letteraria di Arlt), Marina si innamorò di Cortazar fino al punto di chiedermi in maniera a dire il vero fin troppo esasperante di lasciarmi crescere barba e capelli, e se possibile, di crescere io stesso di una decina di centimetri, cosa tutt’altro che semplice visto e considerato che ormai avevo concluso la fase dello sviluppo da quattordici anni.
La prima volta in cui mi rivolse la sua richiesta ci trovavamo a tavola. Stavamo bevendo del pinot grigio, la cena era in forno, la bottiglia già mezza vuota, le chiacchiere latitavano. Marina teneva sulle gambe una copia di Rayuela, rovesciata in un frangente indeterminato della storia. Di punto in bianco, Marina disse che sarebbe stato molto bello se mi fossi lasciato crescere la barba; ma non come talvolta facevo (si riferiva alla barba da imprenditore high-tech che sovente sfoggiavo); intendeva una barba vera, lunga, possibilmente crespa. La guardai e le chiesi che storia fosse mai quella. Dal forno iniziò a uscire del fumo (in verità si trattava di vapore — Marina stava attraversando una fase di veganesimo, cucinava esclusivamente peperoni al forno). Ripeté che una barba folta, lunga, scura (a onor del vero, disse: una barba da mangia fuoco), mi sarebbe stata bene. Poi si alzò e andò a controllare che la cucina non bruciasse. Riflettei sull’idea della barba per alcuni secondi, finché Marina tornò al suo posto; decisi di cambiare argomento. Iniziai a parlare della giornata in ufficio. Nel mio team eravamo alle prese con una serie di reclami per mala gestio connessi al fallimento di una piccola compagnia aerea — non avevo alcuna voglia di farmi crescere la barba, pensai mentre parlavo dei rischi legati ai reclami; la barba non mi sarebbe stata bene, anzi, sarei sembrato un perfetto idiota, ovvero un hipster — e proprio non sapevo come avremmo fatto a contenere l’ira dei consumatori (usai proprio quell’espressione, che cosa da sciocchi). Marina mi interruppe dicendo che oltre alla barba, avrei potuto farmi crescere anche i capelli. Una bella chioma selvaggia, disse. Dopo di che, smise di parlare. Si alzò, disse che la cena era pronta, e per quel giorno la questione morì lì.
Mi trovai di nuovo alle prese con la richiesta di Marina la sera seguente. La scena era simile a quella del giorno prima, solo che l’indomani, quando Marina fece la sua richiesta, la bottiglia di vino era già finita. Marina era rincasata tardi; in quel periodo l’ufficio la stava annientando, così lei, e dopo lavoro si era fermata a fare aperitivo con una collega di cui non ricordo il nome, forse oltre a una collega era anche un’amica, non sono mai stato bravo in queste cose. Fatto sta che dopo l’aperitivo, Marina era rincasata e aveva aperto una bottiglia di ribolla gialla. Così, ci trovammo di nuovo a tavola, il calice vuoto in mano, la sensazione che stesse per mettersi a piovere. Hai pensato a ciò che ti ho detto, chiese Marina, di punto in bianco. Risposi che non sapevo a cosa si stesse riferendo. Alla barba, rispose lei. Alla barba e ai capelli. Mi guardò negli occhi in modo intensissimo, come capitava soltanto quando facevamo l’amore i primi tempi. No, confessai, non ci ho pensato. Com’è ovvio ci avevo riflettuto, giusto quei tre quattro secondi, e avevo deciso di cassare l’idea. Mi ripeto, all’epoca non volevo affatto una barba (se solo avessi acconsentito, penso ora, magari le cose sarebbero andate diversamente). Marina fece un sorso dal calice, poi allungò la mano verso la mia, la prese, la strinse, mi guardò nuovamente e disse però pensaci, okay? Promisi che l’avrei fatto.
Quella sera la strinsi forte a me, l’afferrai per i capelli, lei mi morse, insomma, tutto il campionario di quelli che potremmo definire “i giorni di sole del mio rapporto con Marina”.
Per alcune settimane ci fu possibile esistere senza suggestioni particolari, né richieste strambe. Marina rincasava troppo stanca per mettersi a leggere o a discutere, io avevo finito il libro di Falco; vivere nell’appartamento ormai ci era divenuto familiare; insomma, per un numero di sere che non so quantificare con esattezza io e Marina ci limitammo a sdraiarci sul parquet per seguire qualche trasmissione televisiva sulle reti RAI (stavamo ancora aspettando che ci agganciassero internet, disponevamo solo di un’antenna portatile, avevamo rimandato indietro il divano perché rovinato; la vita era alquanto complessa). Durante una pausa pubblicitaria, Marina passò la sua mano sulla mia faccia e disse che a quanto pareva non ero intenzionato a farla contenta. Le chiesi a cosa si riferisse, e lei rispose che stava parlando della mia barba, o meglio, della mia “non barba”. Per qualche giorno aveva creduto che avrei acconsentito a sfoggiare una barba da mangia fuoco (credo si riferisse alla settimana in cui mi dimenticai di radermi, complice una brutta influenza), ma adesso mi ero rasato di fresco, la qual cosa rendeva evidente che non volevo proprio collaborare. Dopo pochi attimi, non appena il programma TV riapparve, Marina si alzò, diede una scrollata alla sua gonna, disse che sarebbe andata a letto. Non suonava affatto come un invito.
Dopo quella sera, be’, non c’è dubbio che le cose iniziarono a mettersi male. E non mi riferisco alla lettera che ricevemmo un martedì mattina, una lettera consegnata a mano, priva di francobollo e di mittente, che trovai sopra la cassetta postale quando scesi di sotto per gettare l’immondizia (la lettera era scritta dal pugno di uno squilibrato, all’interno si sosteneva che il nostro appartamento fosse appartenuto a un gerarca fascista e che fosse maledetto, qualcosa del genere), bensì alla faccenda di C. Holz. C. Holz si palesò nell’androne del palazzo il venerdì seguente al martedì in cui ricevemmo la lettera anonima. Mi imbattei in C. Holz rincasando dall’ufficio. Lui mi guardò, fece un piccolo sussulto, come se non si aspettasse minimamente di vedermi entrare. Sembrò sul punto di chiedermi chi fossi. Mi fissò per alcuni istanti, feci altrettanto, dopo di che lui si voltò e prese a rovistare dentro una valigia, con la mano con cui non reggeva l’ombrello. Immaginai che fosse un ospite dell’appartamento al primo piano (la cui proprietaria era perennemente via di casa — da quanto si era intuito, la signora viveva in Brasile e tornava in città solo per Natale, o per Capodanno, o per Carnevale, non ricordo quale dei tre). Così, mormorai qualcosa e poi mi arrampicai su per le scale condominiali; non so dire se C. Holz rispose al mio saluto o meno.
Quella sera non dissi a Marina di C. Holz, a dire il vero mi dimenticai completamente della sua presenza non appena misi piede dentro casa. Marina stava cucinando; entrai in cucina, lei stava trafficando con i fornelli, nel mentre canticchiava una canzone di Julio Iglesias. Mi avvicinai, lei si voltò, disse che stava cucinando una cosa buona che aveva visto su una ricetta; era proprio di ottimo umore. Mangiammo, e poco dopo, mentre stavo infilando i piatti nella lavastoviglie, Marina tirò di nuovo fuori la storia di Cortazar e della barba. Disse che ci aveva pensato su, che era stata ingiusta con me, che se non volevo farmi crescere una barba da mangia fuoco lo capiva bene. Certo, le sarebbe piaciuto vedermi in quel modo, ma se non volevo se ne sarebbe fatta una ragione. Richiusi la lavastoviglie, la azionai, poi mi voltai e abbracciai Marina come non l’abbracciavo da molti giorni, lei dapprima fece come una smorfia di dolore, poi si abbandonò tra le mie braccia.
Il giorno seguente non uscii di casa, era un sabato piovoso in cui me ne stetti sul divano a leggere tutta la mattina; Marina invece dovette raggiungere l’ufficio per sbrigare alcune commissioni urgenti.
Le cose tra di noi andarono definitivamente in malora nel momento in cui Marina rincasò. Ricordo che stavo cucinando; avevo messo della musica, forse un artista jazz sconosciuto che ascoltavo quando ero da solo, o magari qualcos’altro, fatto sta che non mi accorsi di Marina finché non me la ritrovai al mio fianco. Mi chiese cosa stessi preparando di buono, risposi (è buffo, ma non ricordo cosa stessi cucinando, né la risposta che diedi), dopo di che mi voltai verso i fornelli e continuai a fare ciò che stavo facendo. Marina andò in bagno a cambiarsi, o come diceva lei, a mettersi comoda. Mi concentrai sulla musica, e anche sulle padelle, almeno finché non udii un colpo sordo provenire dalla parte sud dell’appartamento, dove si trovavano lo studio con il camino, la camera per gli ospiti e il secondo bagno (un bagno austroungarico, privo di bidet). Mollai le pentole e mi diressi verso l’origine del suono. La porta che collegava le due sezioni dell’appartamento era socchiusa, oltre la porta si sentivano dei passi. Feci per aprire ma i passi si fiondarono verso la mia direzione così, istintivamente, chiusi la porta. Dall’altro lato, udii il rumore della chiave girare nella toppa. È in trappola, dissi tra me e me. È in trappola, urlai, sperando di farmi sentire da Marina. Corsi in cucina, aprii il cassetto in cui avevamo riposto le posate, afferrai un coltello poi andai da Marina. Lei mi squadrò, e vedendo il coltello mi chiese cosa stesse succedendo. Cosa mi ero messo in testa di fare? Le raccontai dell’intruso. Marina mi seguì fino alla porta dello studio. È lì dentro, dissi. Marina guardò me, poi la porta, infine bussò. Signor Holz, chiese. Dallo studio giunse un gemito. Signor Holz, ripeté Marina. Di nuovo, un grugnito. Una voce, dall’altro lato, mormorò qualcosa. Marina sospirò, fece roteare gli occhi, poi mi prese per mano e mi condusse in cucina. Mi invitò a sedermi. Le chiesi cosa stesse succedendo. Chi o cosa era il Signor Holz? Marina mi chiese di calmarmi. Riempì un bicchiere d’acqua e me lo porse. Infine, disse che le cose non avrebbero dovuto mettersi in quel modo. In quale modo, chiesi. Marina sospirò. Si passò una mano sulla guancia. Disse che mi avrebbe spiegato tutto, ma prima avrei dovuto prometterle che non mi sarei arrabbiato. Promisi. Allora Marina raccontò che qualche giorno prima, presa dallo sconforto più totale, uno sconforto senza nome, aveva cercato su un sito dedicato a feste di compleanno e cosplay se esistesse un tipo di festa a tema “letteratura sudamericana”, e lì si era imbattuta in un gruppo di artisti (lei parlò di attori) che impersonavano personaggi presi dai libri che tanto amava. Nella scheda biografica, la compagnia teatrale riportava di aver inscenato, tra le altre cose, alcune opere di Borges. Allora, a Marina era venuta l’idea di ingaggiare uno degli attori. Il Signor C. Holz, appunto, il più economico tra di essi. Si era messa in contatto con lui e aveva sondato la sua disponibilità a ricreare una situazione presa pari pari da un racconto di Cortazar, uno dei suoi preferiti, quello in cui una coppia di fratelli scopre che delle presenze si sono insinuate dentro un’ala della loro casa. Aveva chiesto a C. Holz di intrufolarsi nel nostro appartamento mentre noi eravamo distratti, e di replicare, in buona sostanza, il racconto di Cortazar. Solo che C. Holz aveva sbagliato la tempistica e si era infilato nella stanza sbagliata, mentre invece avrebbe dovuto attendere che noi fossimo nell’altra ala dell’appartamento prima di cominciare la messa in scena. Così come si erano declinate le cose, invece, la rappresentazione non poteva funzionare. Eravamo noi, quelli che avremmo dovuto essere in trappola, e non C. Holz.
La spiegazione fu fumosa; a dire il vero, Marina era piuttosto agitata.
Quindi sei stata tu a far entrare quell’uomo, chiesi. Marina fece sì con la testa.
Restammo per qualche istante come congelati, dopo di che mi alzai, mi diressi verso la porta dello studio, bussai e dissi che era tutto risolto, che non avevamo cattive intenzioni. C. Holz fece scattare la serratura. Attesi un paio di secondi, dopo di che aprii la porta. C. Holz era seduto sulla poltrona accanto al caminetto. Stava piangendo, pareva disperato. Gli chiesi se desiderasse un bicchiere d’acqua; lui parve a malapena accorgersi della nostra presenza. Stava mormorando frasi sconnesse, forse in tedesco; posai una mano sulla sua spalla, allora lui ci vide, mormorò qualche vaga parola di scusa, disse che aveva sbagliato tutto. È solo che là fuori faceva freddo, e si era confuso. Lo rassicurai, dopo di che ritrassi la mano. Lui mi guardò, si alzò e, scusandosi ancora una volta, uscì dall’appartamento.
Io e Marina restammo a lungo nello studio, a fissare la poltrona su cui poco prima sedeva C. Holz. Poi mi scossi. Dissi a Marina che avremmo fatto meglio a liberarci dell’oggetto, che non si sa mai, i ricordi possono tirare brutti scherzi. Marina annuì in silenzio, dopo di che uscimmo dallo studio e facemmo come niente fosse.
Solo più avanti, quando ormai io e Marina vivevamo già separati (non separati in casa: separati e basta), mi accinsi a leggere il racconto di Cortazar che la donna che amavo aveva amato così tanto, e allora mi chiesi se il testo dello scrittore argentino potesse avere a che fare con il modo in cui si erano messe le cose, se potessi scorgere, tra le pagine di quel racconto, l’indizio di una crepa, la traccia per una spiegazione plausibile; infine, mi dissi che quel racconto c’entrava piuttosto con il mistero del mondo lì fuori, con il fatto di essere poco più che bambini, con ciò che poteva accaderti quando ti trovavi solo e abbandonato nell’ignoto, mentre quanto era capitato a me e Marina aveva più a che fare con il terrore che ti assale quando si insinua l’idea di aver compiuto uno sbaglio.
Ad ogni modo, fu proprio così che le cose tra me e Marina iniziarono sul serio a mettersi male. Poi fu il turno di altre lettere anonime, del bancomat clonato — anche le lettere anonime giocarono un ruolo importante nel nostro declino (del bancomat clonato non ce ne curammo minimamente), ma sostanzialmente fu proprio in quel modo, con la faccenda di C. Holz, che tutto prese a precipitare per davvero.