La sineddoche israeliana e la contestazione studentesca

di Andrea Inglese

Il comportamento del governo di Israele, e dei governi che lo sostengono, ci fornisce un’immagine che va ben al di là della specificità del conflitto israelo-palestinese. Questo comportamento è da leggere come sineddoche di una situazione più ampia, sia sul piano politico che culturale. Quando la propaganda delle classi dirigenti occidentali ripete ottusamente che “Israele è comunque una democrazia, è l’unica democrazia in Medio Oriente”, si stanno in realtà dicendo diverse cose attraverso questo ritornello. La prima cosa, la più inconfessabile, è che qui “democratico” acquista quasi i tratti dell’aggettivo “bianco”, e tutti i privilegi umanizzanti che esso attira a sé, all’interno di un discorso razzista. Si sta insomma dicendo che, quali che siano le cose che lo Stato di Israele fa sotto il governo dell’attuale estrema destra, esso è garantito da un capitale morale inestinguibile, quello di essere una democrazia all’“occidentale”, ossia un paese che economicamente e culturalmente ci assomiglia molto. I palestinesi hanno come governo Hamas, che è considerato una pura e semplice entità terroristica (senza nessuna legittimità politica) e inoltre l’espressione di una cultura islamista retriva e oscurantista. Hamas, quindi, e per metonimia il popolo palestinese, non gode di nessun capitale umanizzante. Quando muoiono dei palestinesi innocenti, è una tragedia, dicono i commentatori, non un crimine commesso da qualcuno. Gli ammazzati sono separati, quindi, dall’ammazzatore, e inseriti nella colpa generale di essere un popolo primitivo, che ha espresso una realtà politica oscurantista e barbara, e quindi la loro morte, la loro cancellazione, è in qualche modo fatale. Si giustifica da sé. Non c’è bisogno di cercare altre responsabilità. Il sottotesto razzista, in tutta questa faccenda, è ben percepibile, anche se alcuni portavoce del governo Netanyahu non si sono certo esonerati da renderlo un testo esplicito nelle loro molteplici e pubbliche affermazioni. Ma è in virtù di questo sottotesto razzista, nel caso specifico antiarabo e islamofobico, che il governo Israeliano ha quasi senza eccezione riscosso una solidarietà dalle destre estreme di tutti i paesi occidentali, Europa in testa. E qui veniamo alla seconda cosa che dice il ritornello della propaganda filoisraeliana: se Israele è una democrazia, e fa quello che fa, allora tutte le democrazie possono permettersi di agire similmente. E questo vale poi tanto per la politica interna che per la politica estera. Anche i paesi europei hanno conosciuto gli attacchi del terrorismo islamista. Ora, se le estreme destre andranno al governo, e saranno dominanti anche nel parlamento europeo, possiamo immaginarci una democrazia europea calcata sul modello israeliano: business e sicurezza sopra ogni cosa (e quando possibile: business della sicurezza). Sparizione o delegittimazione della sinistra, considerata come nemico interno, traditore e antipatriottico. E finalmente forme di apartheid più o meno ufficiali nei confronti dei quartieri popolari, con una maggioranza di cittadini immigrati o figli di immigrati. Ma le votazioni resteranno libere, anche perché garantite da un controllo di governo sui media sempre più capillare. Non ci sarà perdita di diritti civili per i gay (almeno nell’immediato, poi si vedrà), ma nell’educazione la vecchia morale cristiana riprenderà pieno diritto. Insomma, in gioco c’è in effetti la questione della democrazia occidentale, ma non di quella vecchia, novecentesca, dominata dalla competizione tra modello socialdemocratico e modello liberale. Si sta guardando qui alla possibilità di una nuova democrazia, perfettamente capitalistica, ma governata da un’estrema destra autoritaria, razzista e conservatrice. È possibile? Le destre estreme europee pensano che, nonostante tutte le differenze del caso* – che non sono poche –, il modello israeliano vada salvaguardato e sostenuto. Ma questo, per altro, non è un obbiettivo esclusivo delle destre radicali occidentali in Europa o in Nord America. Anche quelle sudamericane si chiedono come poter portare avanti governi autoritari, che difendono il grande capitale, delegittimano le sinistre e possono reprimere liberamente le minoranze dei nativi, senza per forza instaurare ogni volta dei regimi alla Pinochet.

Quello che gli studenti ventenni di diverse università occidentali vedono, è quello che vede anche un non studente di cinquantasei anni: i crimini di Hamas, anche se sono gravissimi, sono rimasti circoscritti al 7 ottobre. Quel massacro d’innocenti ha incontrato un limite nel tempo e nello spazio. Oggi, quello che studenti (e non studenti) constatano, è un semplice fatto: i massacri d’innocenti che sono venuti dopo il 7 ottobre non trovano limite alcuno nella realtà, perché non sembrano esistere ostacoli in grado di arrestarli. E il loro problema, come il mio, non è scegliere tra l’autoritarismo teocratico e ultranazionalista di Hamas (che non ha mai accettato ufficialmente l’esistenza di Israele) e la “democrazia” razzista e colonialista di Netanyahu, ma è quello di esprimere il desiderio e la speranza di un ostacolo che arresti la macchina dei massacri, in nome di una giustizia possibile. Per questo motivo, dalla propaganda mediatica, gli studenti – oggi come nel corso del Novecento – sono volentieri considerati: mentecatti, pericolosi, infiltrati, antisemiti, autoritari, ecc. (Quando delle inchieste vengono fatte per davvero sul campo, l’individuazione di casi singoli detestabili – presenze fasciste e propositi chiaramente antisemiti – non sono sufficienti per screditare le ragioni  di un intero movimento.) Ma ancora una volta la reazione delle democrazie occidentali ci dice qualcosa che va al di là della questione specifica che mobilita gli studenti. Sembrerebbe, secondo le autorità, che gli studenti abbiano uno statuto sociale che circoscrive per bene il loro spettro d’azione legittimo: essi sono giovani cittadini, il cui ruolo sociale è quello di studiare, di ricevere, quindi, il pacchetto di nozioni e valori che la società trasmette loro attraverso le sue più prestigiose istituzioni educative e formative (le università). Secondo le classi dirigenti che controllano i vertici di quelle università e i loro portavoce mediatici, in una università lo studente dovrebbe semplicemente studiare, ossia incorporare docilmente il pacchetto di nozioni e valori che faranno di lui un futuro dirigente di una società democratica e occidentale. Solo che quel pacchetto è avvelenato alla radice. In esso, a partire addirittura dall’educazione nelle scuole elementari, si sono infiltrate delle nozioni di “giustizia”, di “autonomia”, e a un certo punto persino di “spirito critico”. Il giovanissimo educando delle nostre democrazie non ha imparato a scuola a venerare né i paragrafi di un libro sacro, né i propri capi di governo (questo avviene in altri tipi di regimi e culture politiche), ma a conoscere parole e azioni di un’ampia famiglia di personalità letterarie, filosofiche, politiche, scientifiche che, in genere, hanno rifiutato qualcosa dell’eredità che le istituzioni sociali del mondo storico di cui facevano parte trasmettevano loro. Insomma, gli abbiamo inculcato noi l’idea che le questioni di giustizia non sono riservate a degli specialisti, come accade invece per le questioni tecniche di un ambito disciplinare specifico. Noi abbiamo insegnato loro che, in determinati contesti storici, le leggi dello stato possono essere ingiuste e che sono da ammirare come eroi coloro che le trasgrediscono. Nessuna scuola pubblica in Europa e in Occidente insegna a disprezzare coloro che trasgredivano le leggi razziali sotto il regime nazifascista o gli uomini di scienza che si esponevano alla persecuzioni delle autorità ecclesiastiche. Bisogna, quindi, decidersi: o li abbiamo veramente educati male, e allora bisogna rivoluzionare i programmi scolastici, e imparare dalla Corea del Nord, oppure dobbiamo constatare che, nelle democrazie, il dissenso studentesco, per scomodo e criticabile che sia, non può essere criminalizzato e risolto in termini puramente polizieschi. Anche perché, quando questo avviene, è ormai troppo tardi. Bisognava cominciare a farli cantare inni elogiativi a Meloni, a Macron o a Biden alla scuola materna.

Anche in questo caso, è chiaro che è in gioco il modello di democrazia che vogliamo scegliere, come cittadini occidentali, per gli anni a venire. Dobbiamo, infine, decidere se il passato fascista e nazista va in qualche modo recuperato e salvaguardato, con qualche censura locale e circoscritta, o se vogliamo salvaguardare qualcosa della contestazione studentesca che attraversò il pianeta alla fine degli anni Sessanta, con qualche censura locale e circoscritta. In altri termini, c’è ancora qualcuno, nelle nostre classi dirigenti, in grado di distinguere il concetto di “democrazia diretta” da quello di “apologia del terrorismo”?

Concludo questo intervento con una citazione tratta da uno scritto del 1986 di Cornelius Castoriadis:

Vorrei davvero che qualcuno contesti per un attimo, con degli argomenti razionali, il diritto degli studenti di porsi, appena ne sono capaci, la domanda: perché e in che cosa ciò che ci insegnate è interessante e importante? Vorrei davvero che qualcuno contesti l’idea che l’autentica educazione consista anche a condurre gli studenti ad avere il coraggio di porre questo tipo di questioni e di argomentarle.

⇔⇔⇔

 

Nota *: L’ossessione per la sicurezza israeliana ha come sua ragione principale odierna il proseguimento della colonizzazione della Cisgiordania e (prima del 7 ottobre) il blocco di Gaza. Ma al di là delle strumentalizzazioni realizzate intorno a questo tema dalle diverse forze politiche israeliane, la responsabilità di Hamas non puo’ essere sottostimata, ed è politica prima ancora che militare, dal momento che ufficialmente nega il diritto di esistenza a Israele.

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2 Commenti

  1. Credo che il nucleo principale da cui passa il rischio di involuzioni autoritarie oggi in Occidente non sia un recupero ideologico del nazifascismo, ma la convinzione che appunto Israele è una democrazia nonostante tutto, cioè che esista un nucleo o forse sarebbe meglio dire una sostanza che è la democrazia di un paese occidentale e un accidente che è questa o quella politica colonialista (perché poi in fin dei conti Israele non sta facendo nient’altro che una politica colonialistica, solo che su un territorio molto piccolo e su un avversario che ha un apparato mediatico in grado di documentare in tempo reale i vari massacri, cosa con cui gli inglesi non avevano a che fare in Iraq, India o Kenya o gli italiani in Etiopia o Libia), che però non modifica la natura di fondo del paese. Semplicemente il colonialismo conta di meno.

  2. Nel suo attualissimo (ahimé) “Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione”, Maurizio Lazzarato scrive: “Il fascismo storico era un modo per attuare la forza distruttiva delle guerre totali; oggi, al contrario, si diffonde sotto i nostri occhi un modo di fare guerra alla popolazione”. E’ innanzitutto la guerra ai poveri, ai migranti, agli assistiti, ai gay, agli intellettuali, ecc. Le destre estreme in Occidente, che hanno tutte le radici nel fascismo storico, – l’Italia sempre all’avanguardia – stanno capendo come trasformare la democrazia, senza dover propagandare progetti dittatoriali, partiti unici, ecc. E hanno già vari esempi sotto gli occhi: la presidenza Trump, Orbàn, e oggi modello insuperato Netanyahu. E il punto è esattamente quello che tu sottolinei. Ma possiamo ribaltare la tua immagine ironica in un ritratto realistico: un involucro democratico e un autoritarismo di fondo, che afferma, legittima e diffonde (con la violenza) forme d’ineguaglianza sempre maggiori all’interno del tessuto sociale. Il caso d’Israele è certo particolare: sia per il progetto d’occupazione e sfruttamento di terre altrui, sia per un reale conflitto storico con il mondo arabo e con i palestinesi, per il riconoscimento alla propria esistenza. Ma quello che è esportabile è lo scenario generale: “il capitale morale inestinguibile”, dato dall’involucro democratico e neoliberista, nonostante si torturi, si affami, si distrugga, si bombardi. E il fatto che questo avvenga in risposta ad un attacco terroristico, non muta il discorso. In una democrazia autentica, in salute, non rispondi al terrorismo con un terrorismo ancora più veemente.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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