Se la sete è abbaiare la condensa
di Mariasole Ariot
Johann Sebastian Bach, Toccata in E minor (Stehlik, B.)
Appaiono nella dimensione più alta i gorgogli della casa, dicono di arrivare e dirigere il verbo del fare al passato, una parola già pronunciata, l’accalcarsi di greggi e datazioni, il gorgo avvicendato dalle forme dimenticate – e ancora si chiudono corolle in direzione contraria al nascituro, dove e quando le mandrie di madri ricordano la caduta di un’esistenza masticata fino all’osso.
È questa la buca che separa, la dannata condizione che sborda ad ogni istante, un solo secondo per il dire, una camminata lenta alla fuoriuscita del feretro e del feto: se non ho mai parlato, se la voce è compressa in una cassa, l’eco si accascia nello specchio.
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Queste facce in forma di persone, le mascherine degli insetti che ronzano nell’attorno di ogni androne, quando le finestre sono chiuse e appiccicate al vetro si attaccano le scimmie. Avere il tempo dilatato per condensa, la voce che si adunca a petizione, la penitenza delle colpe ripetute, se ridendo come foglie a primavera mi formicano gli interni. L’esserino non si muove e ricorda una menzogna dell’attesa a ricompensa: ma quanto vero è il vero quando il cielo non ripete. Le ossa, questo piccolo ricordo di un corpo ormai scordato, lo strumento che s’insegue, la postura di una donnola nel mentre di un amplesso.
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Il ritorno non ci affanna, s’innaffiano le cose mute e già mangiate, è questo diventare il mio passato, è questo il divenire e il suo contrario. La porta che ci è data non respira, la devozione che divina – ma il sospeso è domandato, la domanda è una bocca che ferisce.
Dare e dire cosa, il presente che sfiorisce, questo manto addormentato che sborda come un angolo del petto, ho ancora una parola: il gettito che sente la tua voce e mi sovviene: l’agito che è già verbo, verbale è ciò che agisce. Di nuovo, appesi all’infinito e a questo spazio, se l’appeso è un aspettare, il gioco è dire basta, morire nella cassa toracica del niente.
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Più delle grida è lo snodo che sorregge, la durezza tradotta per errore ci muove testa a testa con la croce, un chiodo che si pianta è questo nostro mondo, la lingua che ingenera una morte, il terreno già sospeso – e dici il puntello della rosa, si fissa a tormentare nelle mani, un manico di falce deprime la mia testa. Aprire il corpo e scoprire un territorio.
È così che cede il ventre, così si cede un panico al suo astro: immobile a sanguigna l’eremita ci passeggia le budella, e quanta pioggia serve al derivare delle rive. I defunti che servono alle tombe, lo zampillo delle pozze: il nucleare ricordo della sete.
Immagine di copertina: Josef Koudelka
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Grazie.
Grazie a lei di aver letto, Vittore
grazie. si.