L’ultima gita al faro
di Francesco Segoni
Qualche anno più tardi, al momento di spingere la lama nella coscia, Ursula ripensa a quel venerdì di fine marzo in cui avrebbe dovuto morire e invece era morto suo padre. Aveva dodici anni e se lo ricorda come un pomeriggio di sole: una cosa buona, perché aveva scelto un posto all’aria aperta per suicidarsi. Intorno al faro di Alnes c’erano solo mare e cielo.
Aveva visitato il faro per la prima volta insieme ai suoi durante un picnic, solo qualche mese prima che sua madre sparisse di casa con due valigie. Ci era tornata, da sola, ogni volta che cominciava a scolorire: quando vedeva la sua pelle farsi trasparente e la prendeva la paura di dissolversi. Sceglieva di preferenza un giorno di pioggia (meno vecchi a passeggio, meno turisti, meno gente a correre o a portare il cane a spasso) e a Godøya non c’era mai da aspettare a lungo per quello. Saltava sull’autobus che passava di fronte alla scuola, scendeva al capolinea e saliva a piedi in cima alla collinetta. Quando era sicura che non ci fosse nessuno, piantava le gambette nell’erba, prendeva un respiro e ululava verso il cielo pesante e la pioggia. Dieci, quindici minuti. Faceva a gara con il rimbombo delle onde, barcollava fino sentirsi pronta a cascare per terra (qualche volta era successo). Poi si ricomponeva e tornava alla fermata, aspettando paziente l’autobus col viso lucido e i vestiti bagnati. Non sapeva perché ululare intorno al faro di Alnes funzionasse, ma una volta tornata a casa constatava il ritorno dell’opacità sul suo visino bianco screziato dall’azzurro pallido delle vene. A suo padre raccontava che aveva fatto lezione di ginnastica all’aperto, nonostante la pioggia. «I tempi dei vichinghi non sono ancora finiti», scherzava lui.
Ma il giorno che Ursula aveva scelto per il suicidio era stato caldo e luminoso. Si era allontanata dalla scuola strisciando in silenzio, mentre i suoi compagni alzavano sbalorditi gli occhi al sole e si rincorrevano per prendersi a calci nel cortile, aveva aspettato in disparte sperando che nessuno le rivolgesse la parola. Quando aveva visto avvicinarsi l’autobus, aveva incrociato lo sguardo di Freya che attraversava la strada di corsa per venirle incontro.
«E tu che ci fai qui?» le aveva detto l’amica sorpresa.
«Non sono venuti a prenderti oggi?» aveva chiesto Ursula, cercando di mascherare la delusione (gambe molli all’improvviso, vuoto allo stomaco). Cosa poteva raccontarle ora?
«Oggi mia mamma lavora» aveva risposto Freya allegra. «E tu dove vai?»
«Al… al faro di Alnes, io… a fare una passeggiata» aveva balbettato Ursula maledicendosi.
«Perché non me l’hai detto? Vengo anch’io! Tanto a casa non mi aspetta nessuno, solo un panino al formaggio.»
Ecco il piano che va a rotoli, aveva pensato Ursula sorridendo tristemente. Si era rassegnata a passare un breve momento di svago insieme all’amica. Erano scese dal bus nel centro del piccolo abitato bianco e rosso di Alnes, i capelli e i vestiti schiaffeggiati subito dal vento furibondo della costa occidentale. Freya si era lanciata lungo la stradina oltre le ultime case gridando «di corsa fino al faro!» e Ursula aveva tentato più male che bene di starle dietro. Avevano già dato l’assalto alla collinetta erbosa quando Ursula aveva sentito un frusciare di carta alle sue spalle e il suo zainetto d’un tratto più leggero.
«Nooo!»
Si era fermata per controllare la cinghia dello zaino e raccogliere libri e quaderni. Gli occhi le si erano riempiti di lacrime che si era sforzata di spalmare su tutta la superficie della cornea facendo ruotare i bulbi perché non si vedessero.
Freya era ferma venti passi più avanti.
«Beh?»
Ursula non era riuscita a rispondere: se ci avesse provato sarebbe scoppiata a piangere. Si era messa a camminare verso l’amica lasciando asciugare il velo che le annebbiava la vista.
«Ah, cavolo» aveva detto Freya. Poi aveva cambiato tono, come se l’incidente fosse cosa vecchia e dimenticata. «Andiamo a sederci laggiù.»
Si erano sedute sull’erba ingrassata dalle piogge che avevano sostituito la neve da qualche settimana e asciugata dal sole durante la mattinata. Ursula si era sistemata le ciocche bionde dietro le orecchie come aveva l’abitudine di fare. Gli occhi ormai asciutti seguivano le nuvole strappate dal vento. Sembravano più veloci di fronte all’immobilità del faro, eretto sulla sua pianta quadrata a una ventina di metri da loro.
«Fa’ vedere» aveva detto Freya, riprendendo interesse allo zaino dell’amica. «Si può aggiustare. Ti vanno questi?»
Si erano divise un pacchetto di cracker. Ursula li aveva mangiati staccando uno a uno i grani di sale grosso dalla superficie dei cracker con la punta della lingua per triturarli fra gli incisivi e gustarne il sapore forte prima di addentare il resto. Strappavano fili d’erba per farne palline da lanciare lontano ma il vento se le rubava appena aprivano le dita per lasciarle andare. Una giovane coppia si era seduta sul pendio che scendeva verso il litorale: lui sembrava il figlio dell’insegnante di scienze, il professor Wallin. Avevano iniziato a baciarsi con foga, lunghi baci con la bocca spalancata dell’uno nella bocca spalancata dell’altra. Si stringevano come se dovessero stritolarsi, poi la mano del ragazzo aveva cominciato una serie di assalti, respinti ogni volta da quella di lei senza che s’interrompesse il gran movimento di mandibole.
Ursula e Freya si erano guardate complici, ridacchiando in silenzio. Dopo qualche minuto, il giovane Wallin, forse sentendosi incoraggiato da un momentaneo cedimento della ragazza, aveva provato a infilarsi nuovamente sotto la sua maglietta di cotone: lei si era staccata da lui, si era rimessa in ordine capelli e maglia e si era alzata dall’erba, offrendo la mano al compagno per quella che doveva essere una passeggiata distensiva.
«Farsi baciare da quello lì, che schifo, quant’è brutto» aveva riso Freya.
Erano rimaste ancora un po’ a guardare il mare, poi Ursula si era resa conto di non avere una scusa per il ritardo, perché non aveva previsto che sarebbe tornata a casa. Allarmata, aveva proposto di partire. Si erano piazzate in fondo all’autobus senza parlare. Nel momento in cui imboccavano il tunnel che aveva percorso tante volte, l’ultima delle quali neanche un’ora prima in direzione contraria, Ursula aveva notato che Freya si era addormentata.
Ursula, sei tu?
La necessità di sconfiggere il panico non fa che aumentarlo a dismisura. È come trovarsi di fronte a un cane randagio che ringhia e ripetersi ossessivamente non devo fargli vedere che ho paura. L’unica cosa che ottieni è di spaventarti ancora di più.
Pensare alla paura genera paura.
Tutti i giorni, dopo la scuola, nel momento in cui girava la maniglia e spingeva la porta e varcava l’uscio di casa –
Ursula, sei tu?
Le radici di quel panico affondavano nei giorni in cui suo padre la prendeva in braccio e le annusava l’incavo del collo, o la invitava a sedersi sulle sue ginocchia puntute, o si affacciava nella sua cameretta.
Vuoi giocare al solletico con papà?
Col tempo il panico aveva soppiantato ogni altra reazione. Era la certezza di non avere scampo. Né in quel particolare momento, né in tutti quanti i momenti passati e futuri. Il gioco del solletico, lo chiamava lui. Lei cercava di evitarlo: nascondersi, correre in bagno quando sentiva i suoi passi, chiudersi dentro, restarci più tempo possibile. Farsi dimenticare.
Ora conto fino a tre e lui si è dimenticato di me.
Ma lui non dimenticava. Lo annunciavano i passi prudenti, un bussare delicato.
Ursula, tutto bene? Vuoi che papà venga ad aiutarti?
Non bastava chiudersi in bagno. Ci volevano rumori, segni di attività. Allora apriva il rubinetto della vasca da bagno e faceva scorrere l’acqua bollente, lasciava che la sua faccia bianca da preda impaurita fosse inghiottita dall’appannamento dello specchio, che le piastrelle azzurre diventassero madide e l’aria irrespirabile, cominciava a pensare di finire soffocata, s’immaginava di essere ritrovata a terra, le labbra bluastre come il manico del suo spazzolino da denti, i capelli biondi appiccicati alla fronte. Vedeva i compagni di classe impietriti, zia Margit chiusa nel dolore, le insegnanti tristi e stupite. Solo i suoi genitori non riusciva a piazzarli nella scena del suo funerale. Papà avrebbe pianto sulla bara, inseguito dalla vergogna? Mamma si sarebbe fatta viva?
Apri, ti ho preparato l’asciugamano pulito.
Non la sgridava mai, faceva parte del loro gioco. Non le avrebbe mai detto qualcosa di brutto, non avrebbe mai alzato la voce.
Dobbiamo restare uniti, Ursula. Perfino mamma ci ha lasciati. Siamo solo io e te.
Non ricordava più se il gioco fosse iniziato prima o dopo che mamma era andata via. Forse era quello il motivo per cui se n’era andata. Non si dimentica una figlia: la si abbandona. Perché non l’aveva portata con sé? Poteva voler dire solo una cosa: Ursula era colpevole (schifosa), cattiva (marcia). Aveva provato a schivare le attenzioni di papà, ma le aveva mai rifiutate davvero?
Quel venerdì di fine marzo erano scese dal bus, Freya l’aveva salutata mentre già correva lontano. Ursula si era avviata verso la casetta di legno in fondo a un pendio erboso, quasi sul bordo dell’acqua.
Ursula, sei tu?
Aveva sentito la voce o l’aveva immaginata?
Aveva richiuso la porta d’ingresso, si era fermata nella penombra del piccolo ingresso. Le gambe tremolanti, lo zaino con la cinghia scucita in braccio, Ursula aveva atteso prima di decidersi a raggiungere la sua camera a piccoli passi. Aveva appoggiato lo zaino per terra, ai piedi della scrivania di legno chiaro su cui languivano un dizionario e alcune gomme colorate. Si era guardata intorno in cerca di una scusa per perdere altro tempo, tenendosi pronta per l’irrompere di quella voce che le avrebbe fatto serrare la bocca dello stomaco.
Si era tolta le scarpe, aveva infilato un paio di zoccoli di legno, era passata dal bagno per lavarsi e togliere dai vestiti ogni filo d’erba che potesse denunciare la sua fuga dopo la scuola. Poi aveva preso il corridoio verso la cucina, facendo rumore con gli zoccoli per annunciarsi (al padre non piaceva essere sorpreso), ascoltando i propri passi.
L’avevano colpita la tovaglia verde con le margherite sopra cui c’erano pane casereccio, formaggio e un piatto di aringhe affumicate. E il silenzio.
Era una situazione nuova, non sapeva cosa fare. Aveva provato a chiamare «papà», le era uscito appena un sussurro. Aveva aspettato al tavolo, passando la punta dell’indice sul contorno delle margherite. Il telefono aveva strillato a lungo, neanche quello aveva fatto apparire suo padre. Alla fine era andata a controllare in soggiorno, pensando di trovarlo addormentato sul divano di panno verdastro. La paura l’aveva talmente confusa che aveva cominciato a non fidarsi di quel che vedeva. Temeva di averlo sotto gli occhi e non riconoscerlo, o magari di trovarselo davanti all’improvviso.
Papà era in pensiero, Ursula.
Non era in soggiorno. Aveva scostato le tende gialline: in giardino, la vecchia sdraio a striscie bianche e blu era immobile al suo solito posto, un paio di attrezzi da giardinaggio giacevano per terra. Suo padre non c’era. Non era in camera sua, non era in bagno.
Papà non ti lascerà mai.
Quella frase era suonata sempre come una minaccia ma ora che cominciava a credere che fosse sparito, si era scoperta terrorizzata dalla possibilità.
«Mi ha lasciato.»
Il pensiero l’aveva folgorata. «Se la mamma è andata via, deve essere andato via anche lui.»
Restava il garage. Arrivando a casa aveva visto la vecchia Ford parcheggiata sulla piccola rampa d’accesso, di fronte alla saracinesca abbassata. Se la macchina era fuori, forse suo padre stava facendo qualche lavoretto di bricolage là dentro. Ursula aveva esitato qualche istante sul bordo della scala verso il seminterrato, da cui si accedeva al garage senza uscire di casa. Era scesa appoggiando le mani al muro perché non ci vedeva bene, sentendo ogni scalino con il piede prima di appoggiare il peso del corpo. Arrivata in fondo aveva trovato la porta semiaperta e l’aveva spinta con delicatezza: se suo padre stava lavorando era meglio non deconcentrarlo.
Siamo solo io e te, Ursula.
La prima e l’ultima cosa che aveva visto nella penombra erano le gambe penzoloni dentro un paio di pantaloni che conosceva bene. Era risalita di corsa inciampando due o tre volte, una delle quali si era rotta il labbro inferiore contro lo spigolo di un gradino, aveva infilato l’uscita col sangue che le colava sul mento e aveva continuato a correre all’impazzata, andando a sbattere contro zia Margit che le veniva incontro sul viottolo pieno di erbacce.
«Cosa ti prende, Ursula? Perché papà non risponde al telefono?»
Ursula aveva alzato gli occhi verso la zia. Hai visto, zia, io e papà abbiamo scelto lo stesso giorno per suicidarci ma lui ce l’ha fatta.
Non l’aveva detto. Le era venuto un attacco di riso incontrollabile.
Poi Ursula è di nuovo sola.
Il faro che vede oggi, dalla sua stanza nella casa di zia Margit, è quello di Molja, sul lato opposto del porto di Ålesund. Torna raramente ad Alnes, non tanto perché sia più distante (da quando hanno aperto tre tunnel sotto al mare Godøya è di nuovo raggiungibile in autobus, anche dal centro città), quanto perché non ha più bisogno di ululare al cielo: ha trovato un sistema più intimo e più comodo per fermare lo scolorimento che continua ad affliggerla. Deve ancora impratichirsi. Intanto ha imparato è stendere un asciugamano piegato in due sotto la gamba per evitare disastri sulle lenzuola. Smette di pensare, Ursula. Trattiene il respiro, stringe le labbra sottili e dà un taglio rapido verso il basso, senza premere troppo. Guarda il sangue che rapidamente comincia a colare in due rivoletti scuri lungo la coscia e imbratta il piccolo asciugamano azzurro. Poi espira con calma, aspetta che ritornino le tinte e l’opacità sul viso.