Il cassetto segreto. Conversazione con Costanza Quatriglio
di Daniela Mazzoli
10.000 volumi, 167 periodici, 827 tra fascicoli, cartelle, raccoglitori, buste contenenti articoli, manoscritti, carteggi, fotografie. 12 scatole riempite di 2000 pezzi d’archivio sparsi originariamente all’interno dei volumi. Sei mesi di lavoro per ‘mettere ordine’ nella memoria di un grande testimone del ‘900: giornalista, fotografo, scrittore, firma storica del “Giornale di Sicilia”, vicino ad artisti e intellettuali, amico di Sciascia e Guttuso, instancabile viaggiatore, cronista di un secolo. 95 anni di vita compressi e custoditi nella casa di sempre.
Giuseppe Quatriglio ce lo racconta con un documentario sua figlia Costanza, regista. Si chiama Il cassetto segreto: prodotto da Indyca, Luce Cinecittà e Raicinema, è stato presentato a febbraio nella sezione Forum del Festival di Berlino. Questo ultimo lavoro di Costanza, che dal 2003 firma cortometraggi e documentari come L’isola, Anna!, Il mondo addosso, Il mio cuore umano, Terramatta, vincendo importanti premi internazionali, è iniziato inconsapevolmente qualche anno prima della morte del padre, avvenuta nel 2017. Quelle girate tra il 2010 e il 2011 sono riprese innamorate, da figlia che vuole fermare ancora un’immagine, quel corpo, un altro po’, farsi raccontare qualcosa, trattenere una voce, un accento. Non sa ancora che futuro avrà questo ‘gioco’ di relazione, la memoria si costruisce ‘alle nostre spalle’. Suo padre Giuseppe, invece, come molti genitori che hanno raggiunto con l’età una commovente forma di pudore, vorrebbe sfuggire l’obiettivo che lo immortalerà coi capelli fuori posto, la giacca da camera, in una ‘casamondo’, dove ogni libro, ogni scatola, ogni scaffale è portatore di altre storie, persone, fatti. Cose che lui solo sa dove sono…
Costanza: Il lavoro con i bibliotecari è iniziato nel gennaio del 2022. Avevo deciso di donare quell’enorme patrimonio alla Biblioteca Centrale della Regione Sicilia. Molti mesi dopo ho deciso di far diventare quello che stava succedendo nella casa di mio padre un film. Ho aperto la sua casa, che è stata anche la mia, al mondo, e mentre facevo questo la casa cambiava. Io stessa cambiavo. Filmare il processo di catalogazione e archiviazione ha ulteriormente trasformato le cose, perché, come sempre penso, il mezzo condiziona la realtà, e mentre la riporta, ne fa una relazione, la cambia. La camera da presa cambia il flusso degli eventi. Questo è molto interessante per me. Volevo testimoniare quel passaggio, la trasformazione di un mondo.
Dunque tutto parte da un dono. Costanza decide di regalare la memoria, e in un certo modo anche la vita di suo padre, alla comunità: vuole rimetterla in circolo. Ma fare un regalo a volte non è semplice. Comporta fatica, bisogna renderlo comprensibile, maneggevole. Mentre Costanza e i bibliotecari cercano di dare una forma a questo ‘oggetto’, l’oggetto sembra farsi sempre più grande, ingovernabile. Costanza scopre e riscopre cose: intanto la sua prima voce, registrata in una cassetta. Così inizia il documentario, col suo pianto venuto al mondo. Insieme a quella della neonata c’è poi la voce del padre Giuseppe, che la consola, la ninna. Ogni casa è una memoria di voci, in una casa tutto parla, anche le cose mute, i quadri, le lampade, i libri, persino le piante che si prendono le mura, i cancelli, che invadono e ingoiano tutto se nessuno le ridimensiona. Quella che vediamo nel documentario è la storia delle voci che hanno abitato questi spazi famigliari. C’è quella di Giuseppe e di sua moglie, quella di Costanza e dei registratori, delle cineprese, delle migliaia di foto e filmini.
Costanza: Il film è nato proprio mentre vivevo l’esperienza del fare, mentre guardavo i bibliotecari, osservavo la loro sapienza. Quello a cui assistevo e a cui partecipavo era un continuo dialogo tra caos e cosmo. Il caos era dato dall’apparire della moltitudine degli oggetti. Il cosmo era rappresentato dal riscoprire un’organizzazione del pensiero di mio padre, del suo catalogare le cose in un certo modo. E così anche il mio pensiero, nel frattempo, si è organizzato, e ha continuato a organizzarsi fino alla fine delle riprese e poi al montaggio. Non c’è stata cesura, non c’è stato un prima e un dopo; se avessi aspettato la fine dell’operazione non sarebbe stato lo stesso. Il film è iniziato mentre vivevo quell’esperienza, ma anche anni prima direi. Quando ho cominciato a filmare mio padre non pensavo che avrei fatto un film con lui o su di lui.
Giuseppe Quatriglio è stato un perfetto testimone del secolo scorso, ce lo raccontano le sue foto: tutte un colpo al cuore, come il fotogramma che blocca la scena di un film che somiglia tanto alla vita. Le sue foto sono contemporaneamente vere e immaginarie, fanno parte del nostro patrimonio collettivo eppure ci rivelano istanti personali di una lunghissima storia. Non solo il muro di Berlino, il terremoto del Belice, New York, Stoccolma, il Giappone, ma anche Cary Grant, Wiston Churchill, Anna Magnani.
Costanza: Con questo film non ho voluto raccontare solo la sua avventura di vita e di esplorazione del mondo e del Novecento. Ma anche cose che mi riguardano. Tutti quegli oggetti appartengono anche a me, alla mia memoria infantile, sono talmente famigliari che diventano anche consolatori, una compagnia. Sono stati parte della mia educazione. Anche io sono quella casa, sono anche io un libro. Anche io faccio parte dell’archivio. E certo, anche io ho archiviato una parte di me, per un riuso futuro. Quello che ho cercato di fare, donando la biblioteca di mio padre alla Regione Sicilia, è stato creare l’occasione per uno sguardo possibile che va nel futuro. Volevo che quel tesoro potesse essere guardato e usato da altri.
Quello di Costanza nel film è anche uno sguardo ‘altro’. La regista guarda suo padre come un adulto con una e molte vite prima che lei nascesse e come un professionista con una storia propria, amicizie, idee, sogni. Mentre racconta la storia del più intimo degli affetti gli diventa anche ‘estranea’, e quella distanza aiuta il racconto, mette a fuoco l’obiettivo. Il risultato è più straziante perché meno sentimentale.
Costanza: Leggendo tutto e avendo avuto accesso a tutto posso dire che ho conosciuto dei lati della vita di mio padre che ignoravo, e ho trovato per esempio un certo amore per il cinema che io non conoscevo in lui. E ho scoperto anche un suo sguardo giocoso nei confronti della vita, forse più stupito, più curioso di come lo ricordavo. E questo è successo perché non sono stata solo figlia mentre facevamo questo enorme lavoro di catalogazione, ma sono diventata quasi una collega che osservava Giuseppe a prescindere dal fatto che fosse mio padre. Ho capito che anche per lui era forte l’idea della testimonianza. Si è sempre messo un passo indietro, in uno stato di ascolto che crea lo spazio per consentire all’altro di emergere. Questo è un film particolare per me, perché la voce dell’altro è la voce della casa, dell’archivio, della figlia anche. Ed è contemporaneamente un film di memoria collettiva. Le sue foto, i suoi racconti, i suoi viaggi, appartengono a tutti.
In una delle ultime immagini Costanza percorre le strade del cretto di Burri. Giuseppe era stato cronista di quel tragico terremoto del Belice che nel 1968 aveva spazzato via case e vite. E in mezzo ai blocchi che seppelliscono i resti di quelle case, di quelle vite, con un orizzonte di nuvole bianche come il cretto, Costanza Quatriglio sembra volerci consegnare non più un segreto ma un mistero: quello delle vie scelte tra mille per raccontare una storia, e insieme dell’impossibilità di rappresentare e catturare la verità delle cose. Possiamo solo continuare a cercarla, ad ascoltarle.