Vorrei Parigi adesso

di Giovanna Cinieri

 

Ho paura che un camion mi travolga. Temo di finire tagliata in due da una lamiera o che un tronco a punta trasportato da un vecchio furgone sulla strada provinciale per Martina Franca mi trapassi. Anni fa sfrecciavamo io e mio fratello sulla Taranto-Bologna senza soste a velocità inconcepibili e io ascoltavo musica: nessun terrore, avevo un cuore che era un mostro corazzato, tracimava luci dove manco Dio le avrebbe messe.

Sono tornata da Parigi da un mese, ho trovato Amilcare che non si tiene dritto sulle zampe: scivolano sul pavimento di marmo aprendosi come un mazzo di brugmansie arboree. Ho tenuto in mano un mazzo di brugmansie una volta: erano così bianche, le avevo prese dal giardino di mia madre, il loro albero le faceva nascere già appese, poi la notte diventavano lenzuoli abitati da fantasmi. Le brugmansie comunque mi davano sonno e Amilcare è così che lo vedo ora: come se dovesse dormire. Se penso al desiderio delle creature più piccole di restare sveglie sui bordi della terra mi viene da piangere.

All’appuntamento di venerdì scorso dal veterinario ci siamo andati in macchina, guidava mio padre: io tenevo Amilcare in braccio, ho pensato che il vetro dell’auto impattando con una qualunque delle auto della corsia opposta ci sarebbe scoppiato in faccia, saremmo stati io e il mio cane riflessi in centinaia di piccole schegge. Amilcare se ne sta andando, il veterinario me l’ha poi confermato: cosa pretende? mi ha detto guardando il suo corpo accasciarsi sulla lastra di metallo lì di fronte a noi — si stanno scaricando le batterie.

Soffre? Ho chiesto io.

Se non beve e non mangia, certo. Quindi ci pensi, ha detto mentre mi chiudevo la giacca prima di lasciare l’ambulatorio.

Andarsene a tratti, un boccone rifiutato alla volta, un goccio d’acqua che non scende, la sete che poi passa e non ritorna, che modi sono di farmi sentire l’eterno? Non riesco a contenere nessun infinito, se lo guardo da lontano già scompare, qui c’è è un mostro che lo terrebbe in vita anche a intermittenza, in un perenne panico, ma tra i fiori, amore caro, tra i fiori.

A Parigi ho visto per la prima volta Notre Dame, poi sono andata a inginocchiarmi ai piedi della statua di Giovanna D’Arco, sapevo che Amilcare era a casa di mia madre ad aspettarmi. Tutte le inutili preghiere bruciano, per questo a dieci anni diedi fuoco al giardino: la prima cenere caduta è stata quella delle brugmansie arboree, che magnifica danza hanno fatto, più belle di così non sono mai state. Mia madre gridava, eravamo sole dentro casa, io le presi la mano sudata e le dissi: siamo al riparo, pensa che sono solo luci dove Dio non le avrebbe messe. Poi vennero a spegnere tutto.

Ogni giorno è una parte di Amilcare che non risponde, ha la cuccia in camera da letto e intorno alla stoffa si annidano ciuffi di pelo rosso, li raccolgo piegandomi storta, il dolore che sento è imprecisato. Fuori dall’appartamento sono tutte auto che vorrebbero investirmi. Ogni ora della notte è anche peggio: posto che dalle diciannove in poi non ho nessun rimedio per Amilcare che si lamenta molto più che di giorno, la notte è una veglia su di lui che sonnecchia e sospira. Gli faranno male le ossa, le sue piccole ossa sottili; potessi mi farei una collana con le sue falangi e indossandola direi: questa collana è una mappa e se non vedi segnata Parigi è perché Amilcare non è potuto venire.

Vedessi invece i suoi occhi, pare che non abbia visto che questa stanza da letto in cui giace: una pupilla è ormai andata, non ci vede più per via della cataratta e il resto del colore scuro si è perso come un bambino in un parco dismesso. Vorrei Parigi adesso, l’albergo aveva una carta da parati con sopra stampati tanti cani diversi che indossavano occhiali da sole, ridevo di niente.

Ci pensi, mi ripete il veterinario quando lo richiamo. Io volevo solo avvertirlo delle feci liquide che ho trovato nella cuccia, se l’è fatta addosso mentre sdraiato guaiva.

Allora ho lavato Amilcare e l’ho preparato per uscire. Ho chiamato di nuovo mio padre per farci accompagnare. E siccome il mio cuore mostro non è più corazzato, una volta chiuso il telefono ho pianto per ogni singolo minuto che andava. Io ho messo quella giacca nera col pelo di orso, su di lui una coperta rossa da Cardinale. Abbiamo sceso le scale, sembravano altissime.

Ma è un perenne panico questo metterti tra i fiori, amore caro, tra i fiori. Le brugmansie arboree ancora bruciano.

Una volta aperto il portone i fari di enormi camion a tutta velocità ci hanno puntato addosso, autobus hanno deragliato e macchine ribaltate hanno cominciato a rotolare sulla strada. Sono rientrata nell’atrio, ho stretto più forte Amilcare, e senza avere più fiato ho richiamato mio padre: ci vogliono investire, papà, ci vogliono investire!

Rientrando dentro casa ho pensato alla lentezza. Ci sono solo porzioni minute di cose che si fermano, le altre si schiantano, perciò ho messo Amilcare nella cuccia e ho ripreso ad ascoltare musica.

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