Vigilanza nera, ascolto bianco. Considerazioni critiche sull’antirazzismo europeo
di Andrea Inglese
Nel numero doppio 66-67 di “Testo a fronte”, che raccoglie i due semestri del 2022, pur essendo in realtà in circolazione solo da qualche mese, vi è un ampio dossier monografico su Zong! di NourbeSe Philip, curato da Lorenzo Mari. Le circostanze, che hanno occasionato un tale lavoro collettivo, risalgono al doloroso scontro tra l’autrice, da un lato, e la traduttrice, il curatore e gli editori della versione italiana del libro, dall’altro (Zong! Come narrato dall’autrice da Setaey Adamu Boateng [2008], a cura di R. Morresi e A. Raos, Colorno, Benway Series / Tielleci, 2021). Assieme a una serie di articoli quasi interamente scritti da addetti ai lavori – studiosi universitari di traduzione, letteratura nordamericana, questioni postcoloniali –, è stato raccolto anche un mio intervento apertamente “non specialistico”. In un caso, che riguarda un’opera complessa come il libro della Philip, il riferimento alla letteratura specialistica è praticamente obbligato, ma le questioni di portata più ampia, politiche e culturali, che esso solleva – e ha sollevato in ragione del dissidio sopracitato – non possono rimanere confinate alle cerchie del mondo accademico.
Del mio saggio presento qui i due capitoletti più importanti. Aggiungo solo due parole sul titolo. Non esistono popoli neri o bianchi come non esistono popoli mori o biondi, alti o bassi. L’esistenza di popoli neri o bianchi è una finzione storica creata da certi popoli (europei) per consolidare il loro progetto di sfruttamento illimitato di manodopera e di risorse di altri popoli (dell’Africa subsahariana). Pur essendo frutto non di natura, ma d’invenzione umana, questa frontiera distintiva non ha però cessato di esistere in molte circostanze del mondo attuale, come le forme di razzismo ordinario o istituzionale, in occidente e altrove, dimostrano. Per questo motivo, affrontando le questioni relative al razzismo inscritto nella storia e nella cultura europea, qualsiasi riferimento a una immediata e trasparente umanità, priva di ogni colore, mi sembra insufficiente. Finché il “nero” non sarà per davvero un colore indifferente, neppure il “bianco” potrà esserlo. Siamone consapevoli, soprattutto noi (europei, occidentali) che ci credevamo fatti del “non colore” dell’universale umanità.
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4. Disumanità europee: Aimé Césaire, Primo Levi, Toni Morrison
Guardare la storia della tratta atlantica e del colonialismo europeo da vicino non è più facile nel secondo decennio del XXI secolo che nell’ultimo del XX secolo. L’oblio, l’ignoranza, la semplificazione sono innanzitutto dei meccanismi di protezione. C’è una storia di sofferenze e di crudeltà estreme, di disumanizzazioni e disumanità inconcepibili, da cui vorremmo essere tagliati fuori e che vorremmo tagliare fuori dalla nostra identità collettiva di europei bianchi. È una storia che è stata difficile da scrivere, e lo è ancora, in termini non soltanto di volontà, ma per questioni tecniche, che riguardano la natura delle fonti, e anche per i limiti espressivi, di colui o colei che la scrivono. E, a maggior ragione, è una storia difficile da leggere, perché ci confronta con una realtà abissale, che bisognerà in qualche modo avvicinare e fare nostra.
Nel suo Discorso sul colonialismo del 1950, Aimé Césaire dice due cose che la maggior parte degli europei non è stata probabilmente in grado di ascoltare all’epoca: 1) “questo nazismo, è stato tollerato prima di essere subito, è stato assolto, non lo si è voluto vedere, lo si è legittimato, perché fino ad allora non si era applicato che a dei popoli non europei”[1]; 2) “Al compimento del capitalismo, desideroso di sopravvivere, c’è Hitler. Al compimento dell’umanismo formale e della rinuncia filosofica, c’è Hitler”. La Shoah è stata a lungo considerata come un evento storico incommensurabile, unico nella sua barbarie, a tal punto da porre artisti e scrittori di fronte al dilemma di una sua possibile “rappresentabilità”. Storici e altri studiosi ne hanno cercate le cause nel razzismo cristiano nei confronti degli Ebrei, nei nazionalismi e nel razzismo scientifico dell’Ottocento, nella follia di una ragione strumentale ignara dei propri fini. Immagino che, per lungo tempo, non sia stato possibile leggere lo sterminio nazista degli ebrei in continuità con il colonialismo europeo e la tratta atlantica degli schiavi africani. Césaire semplifica la storia dell’antisemitismo europeo, affermando che il nazismo è divenuto insopportabile agli occhi degli europei quando ha applicato ai “bianchi” la violenza illimitata che i coloni applicavano agli algerini, agli indiani o alle popolazioni subsahariane, ma ci obbliga a riconoscere che un identico processo di “fabbricazione dell’Altro” – per usare un’espressione della scrittrice afroamericana Toni Morrison – ha funzionato nei confronti degli schiavi neri e dei popoli colonizzati, così come, più tardi, nei confronti degli ebrei e di altre minoranze quali i rom e i sinti. La fabbricazione dell’Altro, così come la descrive Toni Morrison, implica un duplice movimento di carattere intellettuale e affettivo: non solo disumanizzo un gruppo umano in base a una serie di tratti fisici, culturali o religiosi, ma confermo in questo modo la mia appartenenza all’umanità. Questa operazione è stata ben analizzata dai testimoni e dagli studiosi della Shoah, e Primo Levi per primo ha insistito sulla centralità dei dispositivi culturali ed educativi, in grado di produrla. Ma essa è indispensabile, come ricorda Morrison, anche per rendere possibile la pratica quotidiana della schiavitù: “La necessità di fare dello schiavo una specie aliena sembra un tentativo disperato per confermare che si è noi stessi normali. (…) Il pericolo di compatire lo straniero sta nella possibilità di diventare lo straniero. Perdere il proprio rango definito dalla razza, significa perdere la propria differenza, consacrata e apprezzata”[2].
Non è però sufficiente cogliere alla radice dello schiavismo e del colonialismo occidentale quella “fabbricazione dell’altro” che è all’opera anche nell’antisemitismo europeo e che ha prodotto, nel secolo scorso, quell’evento senza precedenti che è la pianificazione industriale del genocidio ebraico. Sia l’istituzione della schiavitù sia il razzismo, sono fenomeni ampiamente universali. Basterà ricordare in proposito la tratta transahariana e verso il Medio Oriente organizzata dai mercanti arabi tra l’VIII e il XIX secolo, che coinvolse secondo alcune stime 17 milioni di schiavi provenienti dall’Africa subsahariana. Se una continuità può essere vista tra la tratta atlantica, il sistema della piantagione, la dominazione coloniale e l’universo concentrazionario nazista, essa implica il riconoscimento di una singolarità europea nella storia immemorabile della sopraffazione e dell’annichilimento di certi esseri umani da parte di altri esseri umani. La Shoah, ricorda Levi nella prefazione ai Sommersi e salvati, ha costituito per l’umanità novecentesca, per le sue capacità di comprensione e raffronto, un unicum. “In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo, di crudeltà”.[3] Nell’articolare il suo ragionamento, Levi passa in rassegna una serie di eventi storici – dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki ai Gulag, dalla guerra del Vietnam all’”autogenocidio cambogiano” – per affermare che nessuno di essi possiede “sia come mole sia come qualità” le caratteristiche crudeli e distruttive del Lager. È poi interessante notare come, a conclusione di questa riflessione, egli si soffermi su quello che potrebbe essere l’unico controesempio importante rispetto alla sua tesi, ossia il genocidio di “60 milioni di indios” provocato dai “conquistadores spagnoli” nel corso delle sedicesimo secolo. Per Levi, però, questo genocidio – nonostante l’enorme quantità di persone che ha travolto – non si è svolto né in modo pianificato né con il coinvolgimento diretto dello Stato. E chiude con questa frase: “Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene, sentenziando che erano ‘cose di altri tempi’?”[4]
5. Per una società post-occidentale
È singolare che Levi, tra i più consapevoli e lucidi scrittori della sua epoca, non prenda in considerazione nel corso del suo ragionamento proprio la schiavitù atlantica, l’evento prolungato su diversi secoli che collega la conquista delle Americhe al colonialismo europeo sopravvissuto nel secondo dopoguerra. È lui stesso, d’altronde, a fornirci una chiave di comprensione che vale non solo per la sua generazione, ma anche per quelle venute dopo, e di cui io stesso faccio parte. Le navi negriere, le piantagioni, la dominazione coloniale sono state percepite a lungo come ”cose di altri tempi”, ossia forme residuali di barbarie in seno ai Tempi Moderni, aspetti marginali e infami, di una civiltà protesa verso nuovi valori come il progresso tecnico e sociale, e la felicità per tutti. Tutto questo ampio e articolato sistema disumano e disumanizzante ha rappresentato nell’immaginario comune la traccia di un passato sociale ancora dominato dall’oscurantismo e dall’irrazionalità, un sistema che ha coabitato in modo incoerente con le rivoluzioni, con le carte costituzionali, con i diritti dell’uomo e del cittadino, con la secolarizzazione dei saperi e l’avvento di una nuova tecnologia industriale. Gli studi recenti sull’argomento ci costringono a correggere questa visione consolatoria, che ha accompagnato la nostra educazione ed è stata largamente condivisa in Europa. Nel mondo anglosassone, in modo particolare, si è riaperto un dibattito tra economisti e storici intorno al ruolo fondamentale della schiavitù nello sviluppo del capitalismo in Occidente, nel sottosviluppo dei paesi colonizzati e nella genesi della stessa rivoluzione industriale. Quali che siano le differenti tesi in gioco, più nessuno studio specialistico, economico o storico, può minimizzare il nesso tra modernità europea e commercio coloniale.
Sono questioni, queste, che interessano anche lavori di stampo sintetico e divulgativo, come quello pubblicato dalla giovane storica francese Aurélia Michel nel 2020 dal titolo Un monde en nègre et blanc. Enquête historique sur l’ordre racial (Un mondo in negro e bianco. Inchiesta storica sull’ordine razziale). È l’autrice stessa che, in quanto studiosa bianca e specialista dell’America Latina, sottolinea il rischio ancora attuale di una distorsione “cognitiva”. Aurélia Michel scrive:
la Francia è probabilmente la nazione che ha portato il sistema schiavista e coloniale al suo apice e alla sua piena potenza. Pertanto, la connessione di questa storia con il razzismo è debole. C’è senz’altro l’ostacolo anzi l’impossibilità di dire una tale violenza. Ci sono anche, di fronte ai fatti, dei meccanismi di difesa ricorrenti, che consistono per esempio nel fare della storia dello schiavismo una storia marginale, una storia delle vittime, una storia del ripristino memoriale, o di contrizione. Ora, perché mai lo sviluppo del capitalismo atlantico, che è la base dell’economia industriale mondializzata nella quale viviamo tutti, e nella quale la schiavitù e la colonizzazione hanno avuto un ruolo maggiore, sarebbe periferico?[5]
Quello che Aurélia Michel, e altri studiosi[6] prima di lei ci dicono, è che non solo la tratta degli schiavi e il lavoro nelle piantagioni sono stati un elemento centrale nell’evoluzione del capitalismo, ma lo sono stati in quanto hanno prodotto un ordine inedito e moderno di sfruttamento delle risorse umane e naturali, e una nuova giustificazione ideologica – l’inferiorità della razza “nera” – che si sarebbe ulteriormente rafforzata con lo scientismo ottocentesco e le “teorie” biologiche. L’abbondante flusso di manodopera coatta subsahariana per i territori di conquista nelle Americhe ha prodotto simultaneamente la fabbrica della piantagione e la fabbrica dell’Altro in quanto “nero”. (Non è il razzismo che ha giustificato la schiavitù, come ricorda sempre Michel, ma “è proprio perché gli Europei hanno trasformato in schiavi gli Africani che sono diventati razzisti”[7]).
Il carattere moderno del sistema schiavistico e dell’ordine razziale presentano un ulteriore aspetto, che sollecita una considerazione filosofica estremamente attuale. Nel già citato Achille Mbembe, ne troviamo una formulazione chiara: “Quanto alla schiavitù, essa fu un modo di produzione, di circolazione e di ripartizione delle ricchezze fondato sul rifiuto d’istituzionalizzare un qualsiasi ambito del ‘non appropriabile’. Da tutti i punti di vista, la ‘piantagione’, la ‘fabbrica’ e la ‘colonia’ sono stati i principali laboratori dove è stato sperimentato il divenire autoritario del mondo, che osserviamo oggi”[8]. Il “divenire autoritario” di cui parla Mbembe è una conseguenza di quella cancellazione dei limiti di ciò che è “appropriabile” dall’uomo e dal suo armamentario tecnico e scientifico. Tocchiamo qui un punto centrale, sul quale ha insistito uno dei filosofi più importanti della seconda metà del Novecento, ossia Cornelius Castoriadis: “bisogna che l’immaginario capitalista di uno pseudo-controllo pseudo-razionale di una espansione illimitata sia abbandonato”[9]. Non è sufficiente, come è accaduto nei ranghi della tradizione marxista o in quella socialdemocratica, predicare un superamento del capitalismo in nome di una società più egualitaria, così come oggi non è sufficiente mutare le proprie strategie energetiche o dedicarsi a progetti di resilienza su scala locale, per limitare l’impatto della crisi ecologica. C’è un immaginario, radicato non solo nelle leggi e nell’organizzazione sociale, ma anche nelle nostre menti e nei nostri cuori, che va riconosciuto, analizzato e trasformato. E questa analisi comporterà anche un confronto tra bianchi e neri, intorno alla storia della schiavitù e del colonialismo moderni. È in quel contesto che si afferma per la prima volta in tutta la sua crudezza e hybris, come sostiene Mbembe, il delirio di espansione illimitata che ha caratterizzato l’evoluzione dell’Occidente in stretta connessione con l’evoluzione del capitalismo e dello sviluppo tecnologico.
La scrittrice francofona d’origine camerunese Léonora Miano, oggi residente in Francia, propone una via per uscire dall’immaginario capitalistico, una via che lei stessa definisce utopica, e che d’altra parte si oppone a scenari che, vantandosi di essere più realisti, non sono meno catastrofici. Un’Europa dei nazionalismi, e delle identità separate o in conflitto, non potrà che rendere velleitaria qualsiasi alleanza attiva per contrastare il riscaldamento climatico, oltreché indebolire ulteriormente la tenuta del patto sociale. Per Miano, l’unica strada percorribile passerà per una ridefinizione dell’identità collettiva, a cui lei dà il nome di Afropea, ossia di un’Europa che: 1) riconosce la componente africana della propria storia – e quindi gli afrodiscendenti che costituiscono una parte significativa della popolazione del continente, e che 2) in virtù di questa componente (grazie ad essa), sarà in grado di liberarsi da quello che Miano chiama: l’occidentalità. “Designo così il carattere dell’Europa conquistatrice e delle sue estensioni americane, che l’umanità ha dovuto sopportare a partire dalla fine del XV secolo. Si tratta di una maniera d’essere al mondo che fonda i rapporti con gli altri sulla violenza: l’invasione, l’appropriazione delle risorse, le reificazione o l’uccisione, l’egemonia epistemica”[10].
Il discorso di Miano si rivolge in larga parte agli afrodiscendenti sparpagliati nei vari stati europei, e difende un progetto politico che sia in grado di riconoscere e sostenere la specificità dell’esperienza “afropea”, distinguendola sia da quella afroamericana sia da quella delle varie popolazioni subsahariane. Miano critica ogni tentativo di evasione separatista, verso sogni identitari senza radicamento sociale, quali la negritudine o un vago panafricanismo. Questo non significa aderire, ad esempio, all’universalismo repubblicano della Francia, un universalismo astratto e ipocritamente color blind, che vieta per principio statistiche “etniche”, evitando così di constatare il livello di discriminazione della società francese. Quello sui cui la scrittrice insiste è quella che io chiamerei la “clausola d’appartenenza” e che mi sembra fondamentale in tutto il suo discorso, anche perché gli permette di rivolgersi simultaneamente a noi bianchi. Si tratta di un passaggio magistrale per lucidità, che riporto per intero:
È perfettamente possibile ricusare l’occidentalità, combatterla come lo fa Afropea. È possibile dire di no alla supremazia bianca indicando, nello stesso movimento, che è proprio in questa terra europea che siamo cresciuti e, poiché così stanno le cose, poiché bisogna che questo voglia dire qualcosa, ci diamo per compito di disoccidentalizzarla. La legittimità di una tale ambizione impone questo: è necessario appartenere. Senza ammettere il nostro legame con una società, con tutti quelli che la compongono, è impossibile chiederle conto, spingerla a trasformarsi.[11]
Se l’occidentalità di Miano corrisponde alla volontà di potenza di Mbembe e al delirio di espansione illimitata di Castoriadis, il compito degli afrodiscendenti d’Europa è, necessariamente, anche il nostro. Ma rigettare questa componente ingombrante e patologica della nostra storia, non significa rinunciare del tutto alla nostra eredità europea né cancellarla con un tratto di penna, per il semplice fatto che essa è plurale e contraddittoria. In questo compito di scelta del nostro passato, potremmo essere aiutati da coloro con cui, qui dove viviamo, è fondamentale costruire il nostro futuro: gli afrodiscendenti.
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NOTE
[1] Aimé Césaire, Discours sur le colonialisme suivi de Discours sur la Négritude, Présence Africaine, Paris, 1995 e 2004, p. 13.
Ibid., p. 14.
[2] Toni Morrison, The Origin of Others, 2017; nella versione francese L’origine des autres, Christian Bourgois, Paris, 2018, pp. 34 e 35.
[3] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986, p. 12.
[4] Ibidem
[5] Aurélia Michel, Un monde en nègre et blanc. Enquête historique sur l’ordre racial, Seuil, Paris, 2020, p. 12.
[6] Il punto di partenza di una riconsiderazione critica e militante della schiavitù nello sviluppo del capitalismo europeo e nordamericano risale alla storiografia “radicale” degli anni Trenta, promossa da autori come Eric Williams, originario di Trinidad, o l’afroamericano W. E. B. Du Bois.
[7][7] Aurélia Michel, Un monde en nègre et blanc, op. cit., p. 19.
[8] Achille Mbembe, Sortir de la grande nuit. Essai sur l’Afrique décolonisé, La Découverte, Paris, 2010, p. 81.
[9] Cornelius Castoriadis, Une société à la dérive. Entretiens et débats. 1974-1997, Seuil, Paris, 2005, p. 306.
[10] Léonora Miano, Afropea. Utopie post-occidentale et post-raciste, Fayard/Pluriel, Paris, 2021, p. 107.
[11] Ibidem, p. 200.
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Immagine: Adrian Piper, Decide Who You Are #1: Skinned Alive, 1991, photo-text collage, 3 panels
Grazie, davvero interessante e offre molti spunti sociologici e storici. Grazie davvero.