La storia come luogo delle possibilità
di Alessandro Zaccuri
Quella che segue è la postfazione di Alessandro Zaccuri al nuovo romanzo di Roberto Plevano “Di spada e di croce”, pubblicato di recente da Edizioni Biblioteca dell’Immagine
Prosecuzione e compimento di un lavoro narrativo e di ricerca storica avviato da anni, Di spada e di croce di Roberto Plevano è un libro che in un colpo solo mette a tacere almeno due pregiudizi. Il primo – e più evidente – è quello che riguarda la natura del romanzo storico. Che non si basa sulla separazione delle carriere tra storia e invenzione, la prima delegata a servire da fondale più o meno accurato e la seconda incaricata di predisporre un adeguato armamentario di personaggi e passioni e colpi di scena. No, il romanzo storico è veramente romanzo quando è storico in tutto e per tutto, come accade appunto nell’opera di Plevano. Certo, il protagonista di questa piccola saga è l’immaginario Amalrico della Provincia, trovatore e filosofo che dal Sud della Francia elegge dimora nel Nordest d’Italia, diventando sodale del principe Ezzelino da Romano e perdutamente innamorandosi della sorella di lui, Cunizza. Il punto però non è questo, la verosimiglianza di una narrazione non può essere demandata alla mera presenza di un nome in un regesto diplomatico.
Di Amalrico, al lettore, interessa la perfetta adesione rispetto alla mentalità e perfino alla lingua dell’epoca che Plevano, medievista di provata esperienza, ha scelto per la sua cantafavola. In Di spada e di croce il fiore del romanzo germina direttamente dal terreno della storia, ne assorbe i succhi e i veleni, applica con ferrea coerenza il rifiuto di ogni anacronismo: culturale, psicologico, lessicale. Anche la passione impossibile tra Amalrico e Cunizza non ha nulla di artefatto, semmai può essere interpretata come rappresentazione estrema dell’amor cortese. Non potendo vivere insieme, gli amanti preferiscono attenersi alla norma di una lontananza che non rende meno acceso il reciproco desiderio. E poco importa se a stabilire le regole del gioco sia la sola Cunizza. Per quanto ignaro, Amalrico sa che questo può accadere. In un certo senso, è un bene che questo, e non altro, accada proprio a lui e alla sua diletta.
Per essere veramente romanzesco, insomma, il romanzo storico non ha alcun bisogno di tradire la storia. Se poi la storia è quella del Medioevo, ecco che un altro pregiudizio si presta a essere abbattuto. Tutt’altro che uniforme, il panorama dell’Età di Mezzo si rivela meravigliosamente accidentato e complesso. Per esempio, in Di spada e di croce eresia e ortodossia stanno a un’incollatura l’una dall’altra e a fare la differenza non è tanto la fedeltà all’Evangelo quanto la compiacenza verso un ordine di potere che spregiudicatamente confonde il sacro con il profano. Plevano sa bene che non esiste un solo Medioevo, e non soltanto perché nel millennio che dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente arriva fino alla scoperta dell’America (la periodizzazione è grossolana, ma proviamo ad accontentarci) si susseguono stragi e rinascite, albe luminose e notti all’apparenza interminabili. Il Medioevo è epoca di cambiamenti, non di immobilità. Si rinnovano tecnologie e conoscenze, il latino assume i connotati di una lingua franca vivacemente instabile, i confini si ridisegnano di continuo, sorgono imperi e si estinguono regni. Nei romanzi di Plevano, questo processo magmatico è colto nella sua manifestazione definitiva. Siamo in Italia, nel cuore del XIII secolo, mentre la corte mobile di Federico II si sposta tra la Sicilia e la Marca veneta, portando con sé un’irripetibile mescolanza di saperi e consuetudini. È in quegli accampamenti che si verifica il prodigioso contagio tra la poesia provenzale e la nascente lirica in volgare italiano: è per effetto di quella contaminazione che il notaro Giacomo da Lentini escogita il dispositivo del sonetto, che nei secoli successivi sarà per l’Europa una sorta di linguaggio comune, pressoché indifferente alla dislocazione da un idioma all’altro.
La modernità del Medioevo (che è, per inciso, il momento in cui l’aggettivo modernus assume il suo significato attuale) sta in questa commistione inestricabile di codici espressivi e di istanze concettuali. La stessa contrapposizione tra guelfi e ghibellini, spesso tristemente ridotta a una cruenta forma di campanilismo, trova la sua ragion d’essere nello scontro fra due diverse visioni della realtà. Per restare alla trama dei romanzi di Plevano, Amalrico non sceglie di schierarsi con lo Stupor Mundi per questioni di opportunismo, ma perché in “Friderico” ritrova la sua stessa febbre di conoscenza, lo stesso desiderio di libertà intellettuale che per primo l’imperatore persegue e sostiene. Allo stesso modo, Di spada e di croce – come e più del precedente romanzo di Plevano – non è, a rigore, il romanzo di Ezzelino e della sua corte, ma non si può fare a meno di notare come l’impresa di Plevano sottragga il nome del principe di Romano all’ambiguo fascino da cui è contornato fin dai primi anni del Trecento, quando Albertino da Mussato compone la sua Ecerinis. Una tragedia nello stile di Seneca, autore prediletto nel circolo del cosiddetto preumanesimo padovano. Prima di attecchire a Firenze, dunque, l’imitazione dei classici si annuncia in Veneto, con Albertino che costruisce il suo capolavoro attorno al mito recentissimo del tiranno della Marca.
A differenza di quanto cercano di fare gli storici, Plevano non pretende di fornire una ricostruzione incontrovertibile o, se non altro, a prova di smentita, Per lui, come per ogni romanziere, la storia è il luogo della possibilità. Una battaglia vinta anziché persa, un dispaccio arrivato per tempo, un inquisitore meno feroce degli altri: sarebbe bastato un nonnulla perché gli avvenimenti prendessero una piega differente. La vicenda di Amalrico si colloca proprio qui, sul crinale tra quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. Un terreno misterioso e sorprendente, nel quale solo la letteratura riesce ad avventurarsi.