Les nouveaux réalistes: Luigi Macaluso

 

 

L’Ovarola o la Moglie del Serpente

di

Luigi Macaluso

 

Narrano le cronache non scritte di Trizzulla, paese dell’entroterra madonita, che all’indomani della legge Merlin l’arrivo del nuovo parroco don Basilicò fu accompagnato dalla presentazione d’un prodigio: la nipote Lina, meglio nota alla memoria dei fedeli come l’Ovarola o la Moglie del Serpente. Appena salito sul pulpito l’ecclesiastico liquidò i convenevoli di rito con l’apocalittico annuncio: la giovane, ricevuta in sogno la conoscenza biblica del biblico rettile, aveva ottenuto il carisma di porre fine all’altrui procreazione sessuata. “Partenogenesi la chiamano gli scienziati. Ma io vi dico che il Serpente si è congiunto in Spirito alla mia diletta parente per lasciare un segno dell’imminente redenzione cosmica. Il nostro gregge non avrà più bisogno di sporcarsi le coscienze per dare la vita”. La vita, assicurava il teologo, sarebbe sgorgata grazie alla fede degli aspiranti padri che, uniti in preghiera alla devota erede, avrebbero fatto ritorno a casa con un uovo. Un uovo comparso ex nihilo come lógos spermatikós dall’oscurità feconda della Santa che, se usato con temperanza teologale per soffocare i tormenti labiali del Dio di carne celato all’ombra crurale delle pretendenti madri, le avrebbe ingravidate. Prima o poi. Prima gradita una libera offerta di 4.000 lire. La resistenza eretica da parte maschile fu spenta quando Lina si rivelò: contorta nelle sue forme emiliane, limpida come solo l’afa, era la migliore puttana mai apparsa a Nord dello stretto di Magellano.

 

La risposta degli accaniti ospiti del Caffè del Corso non si fece attendere: occorreva un piano d’azione e, nel codice militare dei digestivi alcolici o dei calici d’acqua e zammù, ciò equivaleva a mandare in avanscoperta Totino Baiamonte. Totino era un artista e aveva esplorato il mondo. Demiurgo dei fregi del carro di San Calemonio abate – patrono di Trizzulla che, nel 1141, era riuscito a scongiurare un’epidemia di herpes zoster trucidando dozzine di massari sospetti – aveva acquisito maestria nella lavorazione della cartapesta dopo essersi trasferito per qualche tempo a Viareggio. E delle donne del continente non aveva mai smesso di millantare le più mirabolanti prodezze in favore della sua virilità titanica. Tanto più inverosimili in quanto le notti toscane, nella memoria dell’affabulatore, restituivano la scena di lunghe degustazioni di rosolio al rosmarino a casa della zia emigrata. In verità l’espatriato aveva compromesso l’onorabilità della cugina Agata e, per questo, si era affrettato a isolarsi nell’isola, lasciando in pegno una promessa riparatoria. Ma il segreto fu protetto e lo scandalo impedito grazie all’impegno da lui profuso nel ruolo di sensale nel fidanzamento in casa (quantunque a distanza) tra Agata e Arcangelo Marinaro, virgulto della premiata merceria “Saro Marinaro & Figlio”.

 

Come Achille, di cui forse era pure discendente, Totino aveva una gloria da preservare e, indossato il completo bianco d’ordinanza, opportunamente inzuppato di colonia Vallý, acconsentì a farsi accompagnare fino alla porta della Chiesa Madre dagli sguardi ammirati dei suoi Mirmidoni trepidanti. “Che è sto profumo di zagara? Ah, sei tu?”, disse Don Basilicò, per niente sconvolto. “Voscenza, posso avere udienza con la Vostra purissima nipote?”. Il pellegrino stava per giustificare il motivo del suo buen camino di trenta metri quando il prete, incurante del dato che il visitatore non avesse moglie, lo invitò ad accomodarsi nella camera dell’ex perpetua. Difficile descrivere l’eternità, se non come assenza di tempo. Ma il tempo smise di battere davvero nel cuore di Totino dopo che apparve Lina, ammantata di soli simboli alla maniera della verità gnostica, nuda di tutto e del tutto. Quando, genuflessa ai suoi piedi, questa verità sensibile cominciò a scuotere la testa come davanti al muro del pianto, a piangere fu lui, Totino, che finalmente avrebbe vissuto la gioia di spiattellare un segreto autentico.

 

Era Maggio. E un anno passò veloce, schiacciato da una smania di metafisica generazione da parte di tutti gli uomini in età d’erezione, seconda soltanto a quella di Dioniso disceso in India. Per le consorti non fu un gran problema: a parte la seccatura di vedere i mariti titillarle per qualche secondo con un uovo in mano, beneficiarono di una consistente riduzione delle prestazioni appaganti il solo immaginario dei loro baffuti passionnés, unita a un forte incremento del numero di frittate settimanali. Un evento pubblico molto sentito fu invece il ritorno in Sicilia di Agata, convolata a nozze con Arcangelo proprio a inizio estate. Fu un matrimonio che imbavagliò molte malelingue, ree di avere sbandierato la fondata insinuazione che il rampollo in fondo in fondo fosse un po’ troppo francese. La ragazza dal canto suo, avendo ormai raggiunto la veneranda età di ventisette anni, sapeva che, se anche il coniuge transalpino l’avesse sfiorata con il pensiero, cioè con l’unico contatto tattile di cui poteva essere capace, non avrebbe obiettato nulla di fronte alla scoperta della sua natura illibata quanto quella di un pacchetto vuoto di sigarette Macedonia. Questo equilibrio entrò presto in crisi a causa del patriarca Marinaro che reclamava con urgenza un nipotino a cui lasciare in eredità il nome (Saro, proprio Saro, non Rosario nè Baldassare). Il vegliardo era un uomo intensamente religioso che a compieta alternava i grani del rosario alle bestemmie e, preferendo giocare d’anticipo, obbligò il figlio a recarsi dall’Ovarola.

Istruita da Don Basilicò la Moglie del Serpente, tutta contenuta in uno scialle nero, ebbe modo di manifestare la sua sapienza cabalistica. “Mi astegno [mi astengo] dal darle troppo speranze, in questi giorni sono stata ammaraggiata [ho avuto la nausea, come in preda al mal di mare]. Preghiamo, hai visto mai che l’uovo spunta lo stesso”.  Saro Marinaro però aveva fatto fortuna con i filati intrecciati all’ostinazione e non era certo uomo da mollare la presa. Ecco allora che anche Agata fu costretta a partecipare alle riunioni, nella speranza di un travaso di fertilità per osmosi.

 

Gli incontri tra le due donne, l’inseminata dall’Angelo refrattario e l’impenetrata dall’Arcangelo trizzullario, divennero frequenti durante il viaggio di quest’ultimo a Bruges, dove si teneva l’Esposizione Universale di merletti. Il Prestigio, il Portento, il Miracolo accadde al suo ritorno: Agata aveva ricevuto in dono l’uovo e, nell’ordine straordinario delle cose, il suo uovo cresceva di settimana in settimana. L’organizzazione delle megere del paese fu teutonica, simile a quella del servizio d’ordine della live di Nilla Pizzi a Pompei, e una processione di Pateravegloria emananti come l’Uno plotiniano dalle rigorose gonnelle impregnate di naftalina fu preposta a separare la Benedetta dalla corruzione dell’universo esterno. Ingresso privilegiato nelle stanze familiari di Palazzo Marinaro restò consentito a Totino, incaricato di farsi carico dell’occorrente utile ad allietare la cova. L’iniziativa della Chiesa fu annunciata nel corso di una funzione domenicale in cui Don Basilicò comunicò di avere affidato a Totino la realizzazione di una piccola coppia di Telamoni atta a sorreggere l’uovo che, conti alla mano, ne era convinto, si sarebbe schiuso il 20 Aprile, Festa di San Calemonio abate (e per coincidenza della nascita di Adolf Hitler).

 

Nel giorno della celebrazione la piazza era gremita e in tripudio. Da Privitera, da Cacciapuoti e addirittura dall’esotica Ninnibòva le masse erano accorse per non perdersi l’evento. Al centro stava un palchetto con sopra i Telamoni e sulle loro spalle, con timore adagiato dai pompieri in livrea, l’uovo che, borgesianamente fantastico al punto da sembrare quasi di cartapesta, era ormai alto circa un metro e mezzo; un separè circolare copriva parte del femminil gamete e all’interno di esso mamma Agata provvedeva alle sue amorevoli cure sussurrando parole tranquillizzanti. Un coro di voci bianche dava il ritmo a Don Basilicò per stringere le mani con la dovuta solennità alle autorità convenute, il Sindaco, il Maresciallo dei Carabinieri, il Barbiere, e accanto a lui l’Ovarola dispensava sorrisi educati, spostando con la dovuta discrezione le molte mani venute a pizzicarle il culo. Totino osservava compiaciuto l’opera prodotta, Arcangelo non si tratteneva dalla felicità saltellante abbracciando ogni due per tre Iano, il figlio del macellaio, Saro Marinaro imprecava contro una colomba di pace, colpevole di aver cagato sulla sua giacca di lino color sorbetto al limone.

 

Gli angioletti avevano appena intonato lo Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, quando successe. Coloro condannati a vedere per speculum in aenigmate instillarono il dubbio di una porticina tratteggiata che venne giù come pan di zucchero. Ma non fu così. A prorompere fu una paffuta bimbetta di forse tre anni, brutta come l’herpes zoster e avvolta da una tunica bianca recante le insegne del mite patrono (la frusta e l’argano) che, messo piede sul palchetto, allungò il braccio indicando Totino e urlandogli “suca”. I sostenitori del materialismo dialettico spiegarono l’accaduto adducendo come prova che la bambina fosse la figlia del peccato consumato da Totino e Agata, e che questa, ricompensata con i denari della famiglia acquisita la permanenza della piccola presso l’Ordine delle Carmelitane col Tacco, capillarmente presente in molti anfratti delle Madonie, avesse escogitato il trucco per giustificarne la legittimità agli occhi del popolo. O almeno a quelli del suocero che lanciò comunque una santiata quando scoprì che il proprio sangue si sarebbe chiamato Sara. Per coloro la cui fede rimaneva un fragile vaso di terracotta custodito in Timore e Tremore quel che seguì, invece, fu un’assurda conseguenza: il timore di Don Basilicò a trasferirsi in missione in Congo per volontà inappellabile della Curia romana (poi ammorbidito nel ‘65 a seguito della sua fortunata partecipazione al colpo di Stato di Mobutu); il tremore di Lina, l’Ovarola, che qualcuno scovò in un club di Parigi intenta a fare con un serpente “cose che non si vedevano nemmeno ai tempi di Tiberio”. Ma quale che sia la verità, se un viaggiatore oggi si reca a Trizzulla e lancia un roboante “suca”, la risposta può essere soltanto una: “Sempre Ubbidito Calemonio Abate”.

 

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2 Commenti

  1. Grazie Rossana e grazie a effeffe (e’ il mio terzo tentativo di risposta, spero non spuntino gli altri due, anche se ho appena ammesso la mia incapacità informatica, quindi…)

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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