Difficile come guardare dentro i sassi

di Giacomo Verri

(Proponiamo un estratto da Storie di coscienti imperfetti, la nuova raccolta di racconti di Giacomo Verri, pubblicata da Wojtek, 2024)

Perciò fu l’inserviente, entrando in camera, a farglielo nota­re. Signora, cos’è capitato?, disse ridendo. Lei non s’era accorta di nulla. A dire il vero, qualcuno aveva appoggiato sul tavolino da notte il bicchiere con le medicine da prendere a colazione; ma solo quello aveva notato Adelina Gioniso, e non sapeva se si trattasse della stessa persona che aveva fatto il resto; per lasciare le pastiglie non avevano di certo acceso la luce e, co­munque, lei dormiva ancora. Che cafonaggine, andare e venire dalla stanza di una vecchia signora assopita e inerme. Più volte s’era immaginata qualcuno del personale aprire i suoi cassetti, rovistare tra le cose che le erano rimaste – le uniche di una vita intera, per la miseria –, le foto dai colori sbiaditi di quando erano stati in Zaire a prendere Elsa, i biglietti che le aveva scritto Silvio mille anni prima, vecchi gioielli che non metteva più, il cappellino della sua dolce Mila. Maledetti! Lo diceva nella sua testa senza pronunciarlo a voce alta; ma, poniamo che di lì a qualche anno si fosse trasformata in una di quelle vecchie incapaci di tenere a freno la lingua, le sarebbe piaciuto allora togliersi il capriccio di coprire d’insulti quella gente che non faceva altro che spingere sedie a rotelle, chiederti se sei andato di corpo e, se non sei più in grado di farlo, imboccarti col cucchiaio e ripulirti la bocca e il mento.

Che le è successo ai capelli?, ripeté la ragazza. Non era di quelle che le stavano più antipatiche. Adelina si toccò la testa, sporse il labbro, chiedendosi se la stesse prendendo per il culo. Non so, disse. Dev’esserci uno di quegli specchi rotondi là dentro. Indicò un cassetto del comò di pessima qualità appoggiato sulla parete di fronte.

La ragazza frugò finché non l’ebbe trovato.

Dai qua, aggiunse Adelina facendo segno con una delle mani scarne e nodose. Ciò che vide non le piacque ma nemmeno la turbò; più di tanto brutta non poteva diventare e questa certezza le offriva un’indubbia superiorità sulla schiera di giovani donne che a turno le stavano tra i piedi. È vero quello che dicono?

Cosa? Cosa dicono?, domandò la ragazza, fingendo di non aver capito. Dato che ora stava aprendo la tenda per far entrare il sole, si era dovuta voltare e Adelina le notò un’ombra di paura negli occhi.

Dicono che sia scappato approfittando del viavai delle pompe funebri, aggiunse Adelina. Si riferiva a Sebastiano – come faceva di cognome? –, scomparso da due giorni, e lei continuava a pensarci, a quel vecchio testardo. A quanto pare sarebbe dovuto morire cinquant’anni prima per un tumore – sosteneva lui – ma poi la diagnosi si era rivelata scorretta e così era sopravvissuto alla moglie – una ex puttana, dicevano altri – e pure alla seconda moglie, se era una moglie, e forse anche al figlio.

Probabilmente è così, rispose la ragazza, riavvicinandosi per darle il termometro – da quando era iniziato quel casino, mi­suravano la febbre a tutti i vecchi tutti i giorni –, e forse sorrise ma Adelina ne dubitò; mezzo volto era coperto dalla masche­rina chirurgica, e come se non bastasse portava quegli occhiali grandi e spessi che facevano il resto.

La ragazza soffiò aria col naso, come se ce l’avesse un po’ chiuso o non riuscisse a respirare là sotto. Mi sembri impaurita, le disse Adelina. È così? E poi aggiunse, dato che quella non apriva bocca, Si può sapere come diavolo ti chiami?

Patrizia, rispose in tono affaticato.

Va bene, Patrizia, disse Adelina cercando di tener stretta l’a­scella attorno al termometro. Tu hai paura. Non hai bisogno di dirmelo. Fece una pausa e poi disse ancora, Ritira questo dan­nato specchio. Ormai non ci posso fare niente.

Quando Patrizia se ne fu andata, si chiese se fosse ancora pos­sibile vivere senza paura. Lei non ne aveva, alla sua età, figuria­moci – ormai sfiorava i novanta – e comunque non lo avrebbe ammesso. Ma quella donna – quanti anni avrà avuto, trentacin­que, quaranta? – doveva davvero averne.

Adelina non s’era fatta mettere la televisione in camera, perché sarebbe finita per non uscirne più; preferiva seguire i telegiornali in sala comune, accanto alla mensa, con un gruppetto di altri ospiti della casa di riposo. Nella maggior parte dei casi era gente con cui non aveva mai parlato né le interessava farlo. Ci fosse almeno un bel gattino da coccolare, pensava a volte, ma niente. Comunque i figli e i nipoti che venivano a trovarli sostenevano che in quella sala facesse terribilmente caldo. Può darsi. E lei stessa era convinta che il volume della televisione fosse tenuto a un livello demenziale tan­to era alto. Ma adesso nessuno poteva uscire dalla propria stanza, sgranchirsi le gambe, fare quattro chiacchiere con altri vecchi rot­tami come lei, figurarsi stare tutti appiccicati in sala comune. Ave­va capito che il virus colpiva soprattutto loro, la gente di una certa età, i nonni. Perciò che diavolo di paura doveva avere Patrizia?

Più tardi si appisolò e sognò se stessa giovane, diciamo più o meno all’epoca in cui avevano preso Elsa. Da qualche tempo le capitava di addormentarsi nel corso della mattina per poi ri­scuotersi di colpo per un rumore, una sedia trascinata a terra o lo zoccolo di una di quelle infermiere che urtava la gamba di metallo del letto; si trattava di risvegli volgari, come uno sbadi­glio fatto senza metterci davanti la mano.

Ora sognava di trovarsi a cavallo della sua vecchia biciclet­ta forse per portare un messaggio a qualcuno. Di sicuro c’era un’urgenza ma non sapeva quale. Però, mentre stava lì a darci dentro sui pedali, si ripeteva nella mente una cosa curiosa che aveva letto da qualche parte e che riguardava la ragione per cui si usa il punto interrogativo. Da dove diavolo saltava fuori quel fronzolo ricurvo?

Stava arrivando comunque; c’era un’ultima svolta e un pezzo di strada in salita. Quel posto non era Giave ma le suonava fa­migliare lo stesso. In fondo al sentiero una gabbia. Ecco la meta. Accanto alla gabbia – la loro gabbia di un tempo – suo marito. Silvio. Dovevano dare da mangiare alla leonessa.

Adelina aprì improvvisamente gli occhi e si leccò le labbra perché erano secche. Be’, che diamine ci fai qui? Luca Sulfo era entrato in camera, l’aveva spiata mentre dormiva e ora stava lungo disteso sotto le sue lenzuola. Siamo due vecchi, disse lei. I vecchi non dovrebbero stare così vicini. Poi c’è quel maledetto virus.

Hai paura di morire?, domandò Luca.

Falla finita, disse Adelina.

Se li avessero scoperti sarebbe di sicuro scattato l’allarme; da giorni era più che vietato avvicinarsi gli uni agli altri, figurarsi vedere quel vecchio topo coricato nello stesso letto con lei.

Quanti ne sono morti oggi?, disse Adelina. Sapeva benissimo che erano undici dall’inizio dell’emergenza, lo chiedeva per spa­ventarlo anche se non era certa di volerlo mandare via. Comun­que sì, disse, Ho paura di morire. Che domande.

Ma guarda, disse lui. Quello che sento mi piace. Le aveva appoggiato la mano sulla pancia, una vecchia pancia molle e priva di elasticità. Aveva il buon garbo di metterla al posto giusto, la mano, né troppo sopra né – per fortuna – trop­po sotto, dove iniziava il bordo del pannolone. Gesù santo, quell’uomo era un cavaliere.

Ho sognato mio marito, aggiunse lei.

Quando?, domandò Luca.

Un attimo fa, sai. Mentre dormivo e tu ti facevi strada come un ladro nella mia camera. Toccò con la propria la mano di lui.

E?

E niente. Entravamo nella gabbia della leonessa.

Una storia che Luca Sulfo conosceva perfettamente. Adelina e suo marito l’avevano comprata a un costo irrisorio, alla fine degli anni Settanta, da un tizio dello Zaire che trafficava animali eso­tici. A quell’epoca le leggi lo consentivano, almeno così diceva Adelina. Non ci crederai, gli aveva raccontato una volta, Ma per qualche tempo se n’è stata in centro a Giave, a casa di un amico, sul terrazzo. Poi però, quando non poterono più tenerla libera, sistemarono la gabbia lungo la strada così che tutti potessero vedere Elsa passando in auto; e ce n’era di gente che si fermava, altroché se ce n’era. Mentre i vicini, quelli no, erano stati orribili, gliene avevano fatte di tutti i colori. Oddio, diceva Adelina con una certa fierezza, Negli occhi di Elsa splendeva qualcosa di vec­chio come l’Africa. Una cosa che non ho mai visto dentro a degli occhi umani. Poi Silvio, un giorno, era stato ferito, dopo la mor­te dei cuccioli. Quando lei si accorse che qualcosa non andava, si precipitò alla gabbia e trovò un disastro. Forse non avremmo mai dovuto prenderla, ripeteva spesso, Ecco tutto.

Okay, disse lui. Quindi hai sognato l’incidente?

Elsa ci fissava, raccontò Adelina, E Silvio voleva che lo seguis­si in un angolo. Vedi tu, in realtà non credo che sarebbe stato possibile farlo davanti a quella bestia.

Luca tolse la mano dalla vecchia pancia ma lei frugò sotto il lenzuolo e gliela riprese. Sei calda, disse lui. Potresti avere la febbre.

Dove credi sia finito Sebastiano?

A camminare lungo la ferrovia.

Lungo la ferrovia?

Lo facevamo, prima. Prima che fosse vietato, intendo dire. Si mise dritto, perfettamente supino, accanto alla donna. La porta era socchiusa, dalla camera di fronte proveniva il borbottio di un televisore acceso ad alto volume, ovviamente. Sei calda ma hai i piedi freddi, disse Luca. Lui indossava le calze ma la tem­peratura della pelle di Adelina oltrepassava la stoffa.

Credo di aver fatto questo pensiero, disse lei. Luca si voltò a guardarla, in attesa. Ora provo a dirtelo, ma tu non ridere, siamo intesi? Adelina Gioniso si sistemò cercando di portare le spalle e la schiena un po’ più su. Disse, Se questo fosse l’inizio di una pandemia permanente? Luca intrecciò le dita e le appoggiò sul petto. Va’ avanti, fece. E lei continuò, Potrebbero non tro­vare mai un rimedio, un… come si chiama, una terapia. Il virus potrebbe modificarsi eludendo ogni risorsa dei medici. Potreb­be essere un virus più intelligente degli altri, una canaglia, uno che ce la farà pagare e porterà tutti a… non so. Morire soffocati? Un sasso che sprofonda dentro un lago fu ciò che le venne in mente, compreso il cupo suono dell’acqua che ne inghiottisce il peso.

Luca cercò di mantenere un respiro lento e profondo. Non è mai successo, disse.

E lei disse, Può sempre succedere, può sempre accadere qual­cosa di nuovo su questa maledetta Terra. Quel virus potreb­be modificarsi molto più velocemente di quanto noi saremo in grado di porvi un argine. Adelina rise un po’, poi aggiun­se, Cribbio. E ancora, dopo aver dato un’occhiata alle mani di Luca, Santo Dio.

Le venne da starnutire ma non starnutì. Si sentiva strana, aveva ragione Luca. Quella cavolo di Patrizia le aveva detto se aveva la febbre? Non lo ricordava. Ma se l’avessi avuta me l’a­vrebbe detto, diamine. Mi avrebbe chiusa qui dentro a chiave. Sorrise. Lui aveva lasciato nel letto un ovale di calore che durò qualche attimo, poi si confuse col suo. Adelina provò ad alzarsi, con fatica appoggiò i piedi a terra e li infilò nelle ciabatte di stoffa da signora anziana con la suola di gomma e la chiusura in velcro. Le trovava orribili ma comodissime. Perché diavolo non mi hai chiesto di aiutarti?, avrebbe detto lui se fosse stato ancora nei paraggi.

Con l’ausilio del bastone a quattro piedi andò in bagno, ap­poggiandosi con una mano alle pareti, poi con l’intero avam­braccio cacciò il pollice nell’elastico del pigiama e trascinò giù le braghe, quindi slacciò quel maledetto pannolone e lo lasciò cadere a terra. Era gonfio e pesante. Dunque ti sei ridotta così, signora Gioniso, pensò dandosi un’occhiata allo specchio. Infi­ne sedette sul water e fece qualche goccia di pipì, poca roba, a dire il vero. Quindi strappò un po’ di carta igienica e la tenne in mano, senza usarla.

Mentre stava lì ferma, ripensò a Patrizia. Certo non avrebbe mai saputo come faceva di cognome perché in quella stupida casa di riposo bisognava fare finta di essere amici e darsi del tu. Una cosa idiota, no? Senza parlare di quell’urlarci nelle orecchie come fossimo tutti sordi. Io non lo sono, perlomeno. Le tornò in mente un episodio. L’anno prima erano venuti i ragazzi del liceo di Giave a presentare i loro esperimenti scien­tifici; c’era stata una ragazza tutta vestita di rosa – mio Dio – che aveva colpito col martello un diapason, e poi un altro diapason, accanto al primo, aveva iniziato a vibrare; l’esperi­mento consisteva proprio nel percepire il suono del secondo diapason. Adelina c’era riuscita, eccome, ma molti altri no. Rimasero intontiti coi loro bastoni, le ciglia spettinate, chie­dendo che l’esperimento fosse ripetuto perché non avevano capito un accidenti; dunque la ragazza tutta rosa lo rifece ma quelli avevano continuato a non sentire nulla di nulla, e la stupida stava per mettersi a piangere, che ebete. Quanto a Pa­trizia, okay, lei non è male, ma è una donna scialba. Sì, credo sia una donna poco interessante, pensò, mentre finalmente infilava la carta igienica tra le gambe per darsi un’asciugata.

Eppure loro comandano e noi zitti. Non si fa questo, non si fa quello, il pranzo è all’ora tale e alle nove a letto. Per non parlare di quando si poteva ancora uscire: ti toccava snocciolare per filo e per segno un sacco di informazioni, dove saresti anda­to, con chi, per quanto tempo. Oddio, disse Adelina Gioniso, mentre cercava di tirarsi su dal water.

Prima di spegnere la luce diede un’occhiata al pannolone get­tato a terra e poi chiuse la porta. Se l’era già tolto in passato e l’aveva lasciato lì, senza buttarlo. Che storia era quella?, le ave­vano detto; e dopo i rimproveri lei aveva promesso di non farlo più. Ma aveva aggiunto, In cambio vorrei poter dormire con un’altra persona qualche volta. L’infermiera aveva sorriso, Vuole qualcuno in camera con lei? E Adelina aveva scosso la testa, No, diamine, Desidero solo coricarmi nello stesso letto con un uomo, stringergli la mano e addormentarmi.

Ovviamente non si poteva fare. Da bambina aveva doman­dato a sua madre perché lei dovesse stare da sola, mentre loro, i genitori, erano in due nel lettone. Dormirai per il resto della vita con qualcuno, le aveva risposto, Quindi accontentati. Non era vero. S’era messa sotto le coperte con suo marito sì e no per trent’anni, qualcuno di più, poi basta.

D’accordo, disse dopo qualche secondo, Diamo un’altra oc­chiata. Fece perno sul bastone, allungò il viso nello specchio so­pra il comò, girò la testa a destra e a sinistra piegandola in basso per vedere meglio. Qualcuno le aveva tagliato i capelli, quella notte, e non è che il lavoro fosse venuto un granché.

Credi che la tua vita valga di più di quella che sta vivendo quella donna, vero? Luca Sulfo era riuscito a tornare da lei, nel pomeriggio. Stava in piedi, accanto alla porta chiusa, tenendo vicine con la mano le ali del cardigan sbottonato.

Può darsi, disse lei. E grossomodo le pareva di non avere altro da aggiungere, ma si sforzò di farsi venire in mente il viso di Patrizia – se doveva formulare un giudizio tanto severo, era giusto che almeno l’aspetto di lei ce l’avesse presente – sen­za riuscire però a immaginarselo, tranne che per una leggera asimmetria che le dominava gli occhi, dietro le lenti. Credo che abbia paura di qualcosa, fece Adelina, poi rettificò, O for­se è solo triste.

Luca sorrise, ponderò per un attimo le parole della vecchia amica, e infine disse, Cara mia, tu sai osservarla, la gente.

La responsabile dell’area assistenziale riunì gli inservienti, compreso il personale delle cucine, nella sala comune, tutti ri­gorosamente a un metro di distanza gli uni dagli altri con le ma­scherine e i guanti, e disse loro che c’erano notizie del fuggiasco. Delle brutte notizie. Il cadavere di Sebastiano era stato trovato quel pomeriggio alla stazione di Giave. Patrizia Chitti avvicinò, fino a farle incontrare, le punte degli zoccoli che indossava ai piedi. E bravo Sebastiano, pensò, immaginando il silenzio della stazione, i binari invasi dalle erbacce perché a Giave il treno non arrivava più da almeno… quanti anni?

Non credo sia il caso di andare a spifferarlo a tutti gli ospi­ti della casa, aggiunse la responsabile. Ne abbiamo abbastanza, qua dentro, di morti.

Alcuni annuirono e molti pretesero informazioni aggiunti­ve. C’era da biasimarli, dopo tutto? Un po’ di morbosa curio­sità era quello che ci voleva, pensò Patrizia. Per sopravvivere tra quelle mura. A lei, poi, da giorni capitava di essere terroriz­zata non da quanto le accadeva attorno ma da ciò che succe­deva dentro la sua testa. Per un sacco di tempo – troppo tem­po, maledizione – non aveva fatto altro che vivere tra quelle persone anziane con crudele leggerezza, come se non avessero niente da dirle, niente da insegnarle. A volte alzava la voce con qualcuno di loro – mai con Adelina, che probabilmente ci aveva visto giusto –, insofferente per i tempi rallentati con cui sembravano vivere.

Si sentiva in colpa, ecco. Adesso che morivano uno dopo l’al­tro – come i cattivi di un film –, si sentiva tremendamente in colpa ed era atterrita, perdio.

Nei giorni successivi i controlli divennero più serrati ed era impossibile uscire dalla propria camera e, tanto più, recarsi in quelle altrui. Be’, è una cosa triste, ripeteva Adelina ogni tanto. Non stava per niente bene, le mancava il fiato e si sentiva debole. Se le cose fossero continuate così, l’avrebbero spostata nell’ala dei non autosufficienti. Una seccatura che voleva proprio evitare.

Luca le mandò un messaggio sul telefonino. Non lo usava quasi mai, tranne che per chiamare sua figlia. C’era scritto, Ciao. Lei rispose, Ciao, e lui continuò con, Non ci vedremo per un pezzo, e la frase era accompagnata da una faccina sorridente, vagamente idiota.

Lei scrisse, Non sto bene, senza aggiungere altro. Poi attese qualche minuto senza che arrivasse una risposta. Alla fine Luca replicò, Hai informato i tuoi?

I tuoi chi?, scrisse con rabbia Adelina.

I tuoi cari. Altra faccina sorridente.

Lei si risistemò la dentiera in bocca. I tuoi cari, suonava come un annuncio funebre. I tuoi cari, un corno. Pensava a come for­mulare la risposta, una cosa del tipo, Tanto non possono venire a trovarmi, loro sono in un mondo, io – noi – in un altro, non ci vediamo da settimane – era vero, cribbio –, non so neppure se mi pensano. Sì che la pensavano! Adesso, con quello che stava accadendo, certo che la pensavano. Più di prima, probabilmen­te. Le mancava Roberta, ma dopo cena le avrebbe sicuramente telefonato, come faceva ogni giorno. I nipoti invece… loro dav­vero non si facevano mai sentire.

Fissò ancora un attimo lo schermo del telefonino, quindi scrisse, Tutto è difficile come guardare dentro i sassi, ma poi cancellò la frase perché sarebbe stato troppo complicato spie­garla, dirgli che quando era piccola scendeva con lo zio lungo il fiume Sesia a scagliare sassi contro altre pietre finché non si spezzavano, e dentro sembravano più belli e più preziosi rispet­to a come apparivano da fuori. Voleva dire che, se oggi i loro figli avessero potuto fare una visita, li avrebbero trovati anch’essi più preziosi, e infinitamente più fragili.

Alla fine scrisse solo che sì, li aveva informati. Mise un punto e aggiunse, Non so ancora chi mi abbia tagliato i capelli.

Così arrivò la domenica e nella notte era cambiata l’ora, da quella solare a quella legale. Si era dormito di meno ma Ade­lina non se ne accorse neppure; in questo posto non ti accorgi di nulla, di quale temperatura c’è fuori, se fa bello o brutto, se l’aria è umida; figuriamoci se cambia l’ora. È tutto uguale, fa sempre terribilmente caldo, che sia inverno o estate. Pensò che una volta terminato il virus – se non ci fosse stata quella tremenda pandemia permanente di cui aveva fantasticato – le cose non sarebbero poi cambiate tanto. Le pareva che un dopo, per lei, non ci fosse comunque; non sarebbe uscita da lì, non avrebbe avuto nuovi amici, né nuovi impegni che l’emergenza aveva congelato per qualche settimana o mese.

Fu invasa da una nostalgia violenta e si sentì soffocare quan­do vide Patrizia. Toccò il petto e cercò di inghiottire un po’ di ossigeno per poterle parlare. Disse, Guarda un po’ quell’aggeg­gio, e indicò la sveglia elettronica sul comodino da notte. C’è da sistemare l’ora, è rimasta indietro. Dopodiché lasciò andare la testa sul cuscino.

La donna diede un’occhiata fuori dalla finestra – lungo la strada c’era una vecchia lattina di birra schiacciata – poi si voltò e raggiunse il letto di Adelina. Prese in mano la sveglia e sistemò l’ora. Infine toccò Adelina su una spalla e Adelina riconobbe una dolcezza infinita dentro quel gesto. Una cosa che non sen­tiva da anni, dai tempi dei grossi abbracci di Elsa, da quando aveva sepolto Mila, la sua tenera scimmietta – oh, cara Mila –, o da quando Silvio se n’era andato per sempre. Quella era malin­conia pura, signori miei, unita però a un senso di riconoscenza per quanto la sorte le aveva serbato, nonostante tutto. Diamine, la vita non è stata poi così male, pensò, e fu grata di ascoltare la solita voce di Patrizia – una voce fastidiosa, di sicuro poco interessante – che diceva, guardandole i capelli, Dovresti dargli una bella sistemata, non credi?

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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