L’esplosione dei testi
Un viaggio incerto di Caroline Peyron e Il carosello delle ore di Marianna Iozzino in mostra alla Biblioteca Nazionale di Napoli
di Marco Viscardi
La sintesi l’ha trovata uno dei visitatori delle mostre, che parlando con una delle due artiste le ha detto: hai liberato le figure. Stavano sul tuo taccuino e ora le hai dato una strada, uno spazio. Le hai fatte danzare. Forse era tutto un gioco di liberazione: davvero la partita era liberare figure e creature. Farle uscire dai libri, consentire loro di invadere spazi indifesi. Non stupisce che in una biblioteca ci siano ben due mostre ispirate ai libri, ma quello che colpisce è il carattere ‘eversivo’ delle due esibizioni. Così Carosello delle ore di Marianna Iozzino fa letteralmente esplodere il magnifico manoscritto del XI secolo delle Metamorfosi a cui si ispira, mentre da Un Viaggio Incerto di Caroline Peyron, inaugurata il giorno tradizionalmente indicato come quello dell’inizio del cammino dantesco, viene fuori da una lettura personalissima, intima della Commedia.
Si associa sempre Virgilio a Dante. Virgilio è il sapere, il dolcissimo padre, la guida umanissima e presente che arriva ai limiti dell’umano per poi sparire, dissolversi e tornare nelle regioni malinconiche del limbo. Virgilio è l’appoggio per sostenere la guerra | sì del cammino e sì della pietate | che ritrarrà la mente che non erra, come leggiamo nei primi versi del canto II dell’Inferno. ‘Cammino’ e ‘pietà’ sono parole profondamente virgiliane, fissano l’esistenza di Enea, la sua difficile missione, il suo sgomento di fronte alla violenza del mondo e delle cose. Violenza che a volte è giustificata dalla grande missione della fondazione di Roma. Quel fuoco finale che rischia di bruciare tutto. Eppure questo incontro di Dante e Ovidio esposti negli stessi spazi, sulle stesse severissime e lucide scansie della Biblioteca Nazionale, svela un aspetto della Commedia forse meno noto ai lettori. Ovidio è ovunque, ovunque sono le sue Metamorfosi, le sue trasformazioni, le sue ibridazioni e i suoi sogni.
L’ultima citazione letteraria di Dante, alle soglie della visione diretta di Dio, viene da Ovidio: Un punto solo m’è maggior letargo | che venticinque secoli a la ‘mpresa | che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
Lascio la spiegazione al più grande commentatore novecentesco del poema, Natalino Sapegno:
il poeta ha accennato all’impossibilità di esporre in modo chiaro e certo il contenuto della sua visione, perché la memoria umana, legata ai sensi, non è in grado di tener dietro al volo dell’intellezione pura; ora viene ad illuminare, di passaggio e rapidamente, la speciale qualità di questo oblio, non determinato, come solitamente accade, da lungo trascorrer di tempo, bensì dall’istantaneo contatto della mente con una realtà che infinitamente eccede le limitate forze dell’uomo: “un attimo solo (un punto) è cagione per me di più profonda, totale, dimenticanza, che non siano stati venticinque secoli per l’impresa degli Argonauti, quando l’ombra della prima nave che solcava le onde marine suscitò lo stupore di Nettuno”.
Il mondo fantastico di Ovidio dà a Dante le parole per fondere stupore e dimenticanza, meraviglia di fonte all’apparizione e dolore dell’oblio, della perdita, della difficoltà del dire.
Il lavoro di Caroline Peyron si intitola appunto Un Viaggio Incerto. Caroline è un’artista francese che vive a Napoli da decenni e che da sempre dialoga con la complessità sociale e intellettuale della città. Il punctum è quell’aggettivo: incerto. Per noi italiani, la Commedia rischia di diventare il testo meno avventuroso che possiamo incrociare. Perfetto e cristallizzato, è il racconto del viaggio dal male al bene, dal peccato alla salvezza, sono questioni capitali, ma che ci appassionano poco perché già sappiamo che finisce bene. Lo diciamo anche a scuola: si intitola Commedia perché inizia male e finisce bene. Ma i grandi lettori stranieri di questa impressionante poesia ci hanno restituito il senso avventuroso del poema, che tocca l’aspetto più incerto dell’esistenza. Quella dimensione da cui nessuno torna, quel confine che i nostri genitori, i nostri amici, i nostri legami attraversano ogni giorno e nel quale entreremo anche noi. In quella luce forse anche noi danzeremo.
Passare dal male al bene, guardare tutto il male profondo, il dolore, la rabbia, la distruzione della persona e poi vederla lentamente ricomporre, tornare alla luce, riformarsi in una nuova compattezza, in una integrità che per noi, frammentari e narcisi, è impensabile. Questa forse è la Commedia che Caroline ha trasformato in forme di colore, in dischi che dal nero ostinato dell’abisso risalgono alla luce di puro oro del Paradiso. L’artista si è trovata senza Virgilio, la sua guida ha superato il confine, è passata dalla parte degli assenti, lasciando Caroline senza protezione.
Quello che mi è piaciuto dei lavori di Un Viaggio Incerto è la rinuncia alla narrazione, il defilarsi dalla gloriosa tradizione di miniaturisti e degli illustratori, per seguire la strada meno segnata della visione, del diario fatto di linee e colori, sempre più accecanti, ma fra il nero dell’Inferno e l’oro trionfale del Paradiso c’è l’azzurro del Purgatorio. Per correr miglior acque….così inizia la cantica. È il regno della luce, ma non della luce divina che devasta, della luce del sole, del tremolare della marina, del cielo che si strugge nell’ora del desiderio e del tramonto. Una cantica marina, il Purgatorio è un’isola di riconciliazione, ci siamo tutti, qualcuno per poco, altri – e forse fra questi chi sta scrivendo ora – per un tempo più lungo. Riposa lo sguardo, guardando quei dischi, e tutto si riconcilia.
I dischi, o lampi, con i quali Caroline Peyron, squaderna la Commedia non sono solo colore, ma su ognuno c’è un frammento di movimento. Corpi allungati e filiformi, essenze filanti, danzano in questi spazi e se nell’Inferno hanno la gravità del terreno, arrivati al Paradiso sono quasi linee, idee, accomodamento del gesto che li ha eseguiti, compiaciuta calma della fine.
Anche noi che abbiamo assistito all’inaugurazione, siamo stati corpi fra i lavori di Caroline, anche noi ci siamo mossi fra i regni e le cantiche mentre attorno a noi si leggeva il capitolo di Se questo è un uomo in cui Primo Levi spiega, nell’orrore, il canto di Ulisse. Siamo stati parte della Commedia con la nostra incertezza.
Da un altro luogo d’orrore, anche Mandel’stam leggeva Dante. In un passaggio della sua Conversazione leggiamo:
L’esempio è tratto dal sacco patriarcale della coscienza antica, per esservi poi rimesso dentro non appena non se ne ha più necessità. L’esperimento invece, estraendo dalla somma dell’esperienza questo o quel fatto a lui necessario, non lo restituisce poi come si fa con una lettera di credito, ma lo fa entrare in circolazione.
Caroline Peyron e Marianna Iozzino fanno esperimento dei loro testi, liberano le potenzialità, rompono la costrizione dello specchio di stampa. Quest’idea della liberazione me l’ha data un visitatore della mostra e tutte le foto che accompagnano questo testo vengono rigorosamente da visitatori a cui ho chiesto il permesso.
Il libro è il punto di partenza, ma l’oggetto – sia lo struggente manoscritto angioino che il rigoroso, ugonotto, volume della Pléiade Gallimard – è stato percorso e interiorizzato. Emoziona la copia della Commedia di Caroline che la serie delle letture hanno trasformato in libro d’artista, nel quale il disegno ha seguito il testo e occupato il bianco della pagina. Un bianco che per una volta non si è rivelato ostile ma accogliente e generoso.
L’Ovidio napoletano di Marianna Iozzino si è messo in movimento, è stato appunto un carosello. Se nel Medioevo esistevano i devozionali libri delle ore, qui Marianna fa di Ovidio una bibbia laica che scandisce il corso del tempo aggiungendo dimensioni alla razionalità del quotidiano.
Marianna Iozzino è nata in Campania, ma cresciuta a Varese, anche il suo sguardo, in qualche modo, è sguardo dell’altro. La sua è una mostra felice, che mette gioia a chi la guarda: è Medioevo Fantastico rivisto, è gioco di figure araldiche che potrebbero petarci addosso, dall’alto della loro alta fantasia. Oppure indicarci la via dell’incubo, del cattivo ritorno.
È materia. Queste creature si accartocciano, si arricciano ai bordi, si muovono di una vita loro indipendentemente dalla vita di chi le ha create.
Nella grande sala del mappamondo, queste figure stanno in ironica immobilità, scartando di lato da un enorme quadro che sembra raffigurare solo la fantasia che esplode, l’assenza di confini, il gesto della creazione che non nasce dal niente, ma è il prodotto dell’arte personale, del cammino proprio di Marianna, delle sue abitudini e delle sue relazioni, ma allo stesso tempo ha alle spalle secoli di allucinazione e fiaba, di folklore e immaginazione.
Sono i marginalia, i sogni e i deliri dei miniaturisti che occupano tutto lo spazio, postillando un testo invisibile o forse inciso nella memoria. Ancora una volta lo spettatore partecipa al gioco dell’opera. Noi siamo movimento, metamorfosi, trasformazione. E lo spazio tradizionalmente chiuso della biblioteca si
apre al gioco delle trasformazioni e delle sperimentazioni.
Anche Marianna non abbocca all’amo della narrazione, del puntuale commento, dell’illustrazione, ma ingigantisce i mostri del margine, dà vita alle figure di contorno, agli abbellimenti, alle figure sinuose che perdono la loro aura aristocratica, il loro essere ornamento ad una dimensione, per farsi festa e pericolo, enigma e ghirigoro. Selva di figure ibride fra le quali resta l’inquietudine, il ricordo dell’oscuro.
Come per un Viaggio incerto, anche di questo Carosello delle ore vediamo il quaderno di lavoro: la serie dei bozzetti, lo scorrere dei primi tentativi che poi arrivano a una forma che eccelle, che non sta nella pagina, che è carta volante, foglio che come ho già detto prende vita.
Ed è incredibile la coerenza con la quale l’artista consente alle sue figure di occupare gli spazi del nostro quotidiano. Queste grottesche figure faranno compagnia ancora fino al 16 aprile al pubblico di lettori e studiosi che frequentano giorno dopo giorno le grandi sale della Biblioteca Nazionale.
Strappa da te la vanità ha scritto Ezra Pound in uno dei suoi versi più famosi. Strappare la vanità. Liberarsi del compiacimento e farsi da parte, cedere alla molteplicità senza dominarla. Ho avuto queste parole in testa mentre partecipavo alla mostra di Caroline e ho avuto la fortuna di vedere i lavori di Marianna. Ho pensato a Ezra Pound:
Ma avere fatto in luogo di non avere fatto
Questa non è vanità. Avere, con discrezione bussato,
Perché un Blunt aprisse
Aver raccolto dal vento una tradizione viva
O da un bell’occhio antico la fiamma inviolata
Questo non è vanità.
Aver raccolto dal vento una tradizione viva…questa mi sembra l’essenza delle due esposizioni, che sono anche due esplosioni. Questa la cifra che accomuna due lavori diversi di due diverse artiste che non hanno avuto paura a vivere nella traduzione, di guardare la fiamma viva degli ambigui occhi antichi.
Che bella esperienza leggere questo articolo. Grazie.