Sulla singolarità. Da “La grammatica della letteratura”
[Presentiamo qui un estratto del saggio di teoria letteraria Grammatica della letteratura (Tic Edizioni, 2024, coll. «Gli Alberi») di Florent Coste nella traduzione di Michele Zaffarano. Nella stessa collana sono già usciti due importanti volumi, di Gian Luca Picconi La cornice e il testo (Pragmatica della non-assertività) e di Jean-Marie Gleize Qualche uscita (Postpoesia e dintorni). I passaggi che ho scelto di Coste contribuiscono a smontare criticamente uno dei miti che nutrono il campo letterario e artistico contemporaneo, quello della “singolarità”. a. i.]
di Florent Coste
traduzione di Michele Zaffarano
Esercizio 2. Singolarità
Il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole; l’enorme rete di strade sbagliate ben praticabili.
(Wittgenstein 1980: 46)
[…]
[2] Per esempio, la singolarità. — Mi fai un esempio di gioco di linguaggio interno al campo letterario? — Allora, càpito su uno dei tanti siti culturali in rete e leggo alcuni passaggi di critica letteraria. Stanno presentando «un libro breve e allo stesso tempo singolare», e organizzano appositamente per me l’«incontro con una voce singolare», ricostruendo «il singolare percorso di un autore inafferrabile». Su un’altra pagina, stroncano un romanzo epistolare appena uscito sostenendo che non funziona perché i personaggi non hanno una loro «voce singolare». Poi mi metto ad ascoltare i discorsi di un artista che discute della propria pratica (in questo caso, è un uomo di teatro, però se fosse un pittore o un poeta, non cambierebbe nulla): «La singolarità non s’impara, è un divenire singolare. La presenza è come l’oro. È rara perché è preziosa, ed è preziosa per la stessa ragione che è rara. Lo stile è uno scarto rispetto al conformismo dei vari apprendimenti» (Mével 2015: 17). In ultimo, metto le mani su un libro un po’ più accademico, a metà tra critica universitaria e studio letterario, e sulla quarta di copertina leggo una difesa della «poesia come messa in valore della voce singolare». In una carrellata sulle scritture romanzesche contemporanee, si parla di come Tizio e Caio scelgano «un lavoro che sperimenta dispositivi formali singolari», di cui peraltro poi non si dirà più niente. — Già solo così, ci sono parecchie cose da chiarire. Il fatto che tutti questi protagonisti del campo letterario sfruttino il gioco di linguaggio della singolarità sembra essere una cosa del tutto normale. Perché a operare è la logica della distinzione: in un campo tanto caratterizzato dalla competitività e così radicalmente fondato sui valori dell’originalità e della creatività, quello della singolarità si rivela un elemento qualificativo decisamente necessario, anche se in sé è solo un significante vuoto; aiuta a smarcarsi, a mettersi in mostra, a ostentare una postura e a collocarsi al di fuori di tutto quello che è comune (Bourdieu 2005). Il termine viene però usato anche dalla critica. E chissà che non sia proprio questo il suo compito, cioè organizzare l’emersione all’interno del campo. — Questo aggettivo qualificativo, però, qualifica davvero qualcosa? Non riflette piuttosto una certa forma di pigrizia nelle operazioni di categorizzazione? Soprattutto, va sottolineato il fatto che il gioco di linguaggio della singolarità ha finito per infiltrarsi anche nei discorsi scientifici e accademici. Questo significa che il discorso teorico dovrà a sua volta riprendere i giochi di linguaggio sfruttati da questi operatori culturali? Si possono davvero riprendere le categorie “autoctone” del campo senza perdere vigore critico?
[3] La singolarità come grandezza. — Qual è la grandezza artistica dello scrittore, o del poeta? O meglio: su quale scala di grandezza punta a farsi valutare? A differenza degli artisti medievali (come i miniaturisti, per esempio), che lavoravano negli spazi collettivi delle botteghe seguendo le regole e sfruttando le competenze tramandate dalle corporazioni, e che collaboravano con i propri datori di lavoro, impegnandosi a portare a termine i propri compiti in conformità con i vari modelli, gli artisti moderni s’inseriscono in un regime di singolarità (e non in un regime di comunità) (Heinich 1996, 2005). Vivono nella «città ispirata» (Boltanski e Thévenot 1991). — Ci siamo ormai abituati a pensare (con un certo schematismo) che, in regime di modernità, il valore artistico sia inversamente proporzionale alla diffusione commerciale, al successo e alla notorietà; l’artista paga la propria singolarità con privazioni, marginalità, e cose del genere. — Può comunque puntare ad altri valori: la grandezza commerciale, se cerca di realizzarsi come autore di bestsellers o ambisce a raggiungere almeno un certo volume di vendite; la grandezza civica, se scrive letteratura impegnata o coltiva ambizioni politiche; la grandezza della fama, quando vuole diventare una star o cerca l’esposizione mediatica; e così via. — Detto questo, non sarebbe meglio relativizzare le scale di valori come quelle appena elencate? La professione di fede nella singolarità non è un mito da smontare? La singolarità non è qualcosa che sarebbe opportuno ridimensionare? Non potrebbero, magari, i sociologi, eliminare drasticamente questo tipo di discorsi sull’arte passando a spiegare le reti (più che le individualità), o le influenze (più che l’ispirazione)?
[6] Il campo letterario nel regime neoliberale. — Il problema non sta tanto nel fatto che l’artista si comporta da artista, perché questo è assolutamente normale. — E poi perché, in fondo, è vero: la singolarità anima e governa il campo letterario in maniera del tutto “naturale”, se vogliamo metterla in questi termini. Quello che però succede all’interno dello spazio neoliberale in cui lo scrittore si trova e da cui non può sfuggire è che il mercato letterario segue una serie di evoluzioni che rendono il regime della singolarità apparentemente più produttivo: la concentrazione oligopolistica dei grandissimi editori (che schiacciano la piccola editoria indipendente), l’aumento del numero di pubblicazioni all’anno, l’aggressione se non il vero e proprio smantellamento della catena del libro e del circuito delle librerie a opera del commercio online, sono tutti elementi che portano a indebolire gli assetti tradizionali dell’economia del libro e a sviluppare strategie e posture capaci di esibire la propria singolarità in un campo ormai sempre più caratterizzato dal regime della concorrenzialità. In ogni caso, anche se calamitata e assorbita dal sistema neoliberale, la letteratura sembra reggere bene la situazione. L’autore lavora a creare una propria immagine mediatica, ed eccolo allora che elabora una propria reputazione, che delinea un proprio carattere o un proprio marchio di fabbrica, che mette la sua “faccia” in gioco (al limite, nascondendosi dietro uno pseudonimo), tutto però senza mai rinunciare a prendere posizione su questioni letterarie o politiche. Insomma, lo scrittore performa sé stesso e lo fa in prima persona.[1] E qui, dobbiamo stare attenti a non fare confusione. Perché singolarità è un termine utile a capire e descrivere le tattiche e le modalità con cui ci si pone all’interno del campo (letterario). Si tratta di un termine critico, vale a dire di un termine che serve a oggettivare e a tenere a distanza (critica, appunto) tutti questi fenomeni. Di certo è un valore che i protagonisti non possono rivendicare con qualche diritto, o dare in qualche modo per scontato, senza doversi raccontare delle storie. Eppure, molti degli attori in campo, che scrivano, che commentino o che lavorino a editare testi, si lasciano catturare dai vari giochetti della singolarità. — E fino a qui, abbiamo ragionato solo all’interno del mondo del libro, oltraggiosamente dominato dalla prosa romanzesca. Passiamo ai poeti? I poeti, così drasticamente minoritari, così lontani e così persi nelle periferie di questo mondo, come si collocano, i poeti? Contribuiscono con forza raddoppiata al regime della singolarità o, al contrario, operano una sottrazione basata sulla riflessione e resistono? Probabilmente sarebbe il caso di cominciare a chiederci come un poeta o uno scrittore possa comportarsi per non andare a ingrassare gli ingranaggi di questo regime della singolarità.
[7] Individualismo, romanticismo, capitalismo. — La questione della singolarità viene a toccare in maniera decisamente più radicale le nuove forme di individualismo contemporaneo che strutturano l’ideologia implicita della letteratura. Di certo, non si può dire che il campo letterario sia particolarmente impermeabile ai valori individualisti. Cerchiamo però di non fare confusione. Quando parlo di individuo, posso intendere cose molto diverse tra loro. Innanzitutto c’è l’individuo, inteso come cittadino astratto, cioè il cittadino titolare dei diritti conquistati dalla Rivoluzione francese che aspira a conquistare la sua stessa autonomia; ovviamente qui parliamo di un principio giuridico-politico fondato sulla nozione di universalità volta a propagare un individualismo dell’uguaglianza. L’individuo, però, lo posso anche intendere in maniera completamente diversa, cioè partendo dai suoi tentativi di tirarsi fuori, di estrarsi dalla folla: l’individuo che entra in rapporti di dissidenza con tutto quello che pertiene al comune, l’individuo che fa un passo di lato per sottrarsi alla massa delle società democratiche, l’individuo che esalta varie forme di elitismo e valorizza le proprie capacità di creazione. Di questo individualismo della distinzione, l’artista è sicuramente ed evidentemente figura paradigmatica. A ben vedere, però, non è nemmeno questo l’individualismo che ci fanno vivere oggi. La società contemporanea conosce in effetti una serie di nuove trasformazioni che sembrano sbocciare dalle rovine del mondo industriale fordista, qualcosa che potremmo definire come «espansione della singolarità» (Martuccelli 2010). A dominare palesemente dopo le sostanziali e profonde trasformazioni della società e del capitalismo (Castel 2019; Giddens 1990) è la personalizzazione delle merci, la modulazione dei servizi in funzione dei vari tipi di pubblico, il consumo fluido e ritagliato su misura, con il marketing che, sull’altro versante, spinge sempre di più verso la vertiginosa complicazione delle tipologie dei fruitori. Pare che non esista ossessione più grande di quella dell’intercambiabilità e della standardizzazione. E che non ci sia sciagura peggiore del non vedere riconosciuta la propria particolarità, o del subire forme diverse di discriminazione (Rosanvallon 2013: 343 e sgg). In altre parole, quello che il singolarismo rivendica sopra ogni altra cosa è che la società non debba o non possa frapporre ostacoli all’espressione di sé. — Insomma: una forma abbastanza incandescente, addirittura hot di liberismo. — Proprio in virtù di questo principio, ognuno di noi dovrebbe portare a risoluzione il proprio «compito di essere» incarnando e scegliendo, con assoluta fedeltà e autenticità, una singolare combinazione di stili, forme e aspetti presi un po’ a prestito a destra e a sinistra. Si deve obbligatoriamente cercare di essere corretti e rispettosi nei confronti della propria persona e del proprio rapporto a sé, cosa che non manca ovviamente di produrre come naturale conseguenza la soffocante e ben conosciuta «fatica di essere sé» (Ehrenberg 1999). Alle intimazioni che ci spingono a essere qualcuno di incomparabile si accompagna poi sempre la ricerca del riconoscimento, del rispetto e dell’equità.[1] Si tratta, insomma, di un individualismo della differenza (totalmente diverso dall’«individualismo dell’uguaglianza» o dall’«individualismo della distinzione»): un ideale romantico dell’autenticità personale e del riconoscimento di sé, recuperato e ventilato dal capitalismo per riuscire a generalizzare e a democratizzare il (peraltro) molto aristocratico diritto a esprimere il proprio «talento».[2] — Ovviamente, sul rovescio di tutta questa situazione, ecco la fede in una società senza classi, una società in cui i determinismi sociali si vanno facendo sempre più complessi, e in cui le disuguaglianze scalano per così dire di un gradino, diffratte a larghissimo raggio in forma di segmentazioni interindividuali o di disuguaglianze intracategoriali. — È proprio questo, che potremmo chiamare singolarismo.[3]
[8] Le aporie del dandy. — Il singolarismo si è così ritagliato dei personaggi preferiti, e tra questi personaggi preferiti troviamo soprattutto il dandy, figura a cui gli artisti moderni hanno spesso ricondotto il valore dei propri gesti fondativi (Bourriaud 2015). Da notare che, così facendo, il singolarismo porta a estetizzare la vita attraverso un’«estensione del dominio dello stile» ben oltre il semplice ambito del testo (Macé 2010, 2016b),[4] oppure attraverso una specie di transfert dello stile che finisce per impregnare l’assieme generale dell’esistenza. Il problema non sta quindi tanto nella strampalata, superficiale e variopinta originalità che possiamo attribuire al dandy, ma alle regole che questo personaggio intende applicare alla propria vita seguendo modalità totalmente ascetiche. In questo, il dandy ricorda molto da vicino quei monaci che vivono nei loro monasteri e si attengono in maniera rigida alle proprie regole di vita,[5] affermando una sovranità quasi “insulare” delle proprie soggettività. «Il dandy non intende dipendere da regole morali comunitarie e si dichiara “l’unico autore dei propri obblighi”. Dopo che si è imposto delle regole, egli si forma dall’interno, emanando delle leggi di cui sarà l’unico destinatario, conformandosi a quell’etica creativa che annuncia queste “mitologie personali” caratteristiche dell’arte del XX secolo. Ecco perché l’artista moderno, seguendo l’esempio del dandy, nel suo lavoro non obbedisce che a regole personali, valide nel quadro di un’etica provvisoria: egli vi aggiunge solo la preoccupazione di una produzione» (Bourriaud 2015: 31). — I paradossi, comunque, rimangono difficili da sciogliere. Immaginare, come per il dandy e per l’artista che a quest’ultimo s’ispira, una legge da applicare a sé stessi e a nessun altro è un po’ come vincolarsi alle diverse mitologie del linguaggio privato. E cosa vuole dire che stabiliamo delle leggi e poi le applichiamo soltanto a noi stessi? Decidere il proprio codice, cioè decidere un codice così singolare che nessuno mai cercherà di condividerlo o sarà tentato di decodificarlo, diventa fatalmente un modo per sottrarsi a qualsiasi tipo di collettività. Ed è ovvio che un modello come questo non potrà mai essere esportato o esteso al di là del campo artistico, perché in quel caso avremmo conseguenze politiche incresciose, francamente difficili da accettare.
[1] Cosa di cui si fa portavoce un erede della Scuola di Francoforte come Axel Honneth (2002).
[2] «Il riferimento all’arte è utile perché ci ricorda che l’individualità per tutti significa di fatto ineguaglianza, non eguaglianza. […] L’individualismo espressivista è quando, in realtà, viene offerta solo ad alcuni la possibilità di mostrare le proprie opere a tutti quanti» (Descombes 2007: 219).
[3] Dumont 1991 e Descombes 2007 sottolineano che se ne può tracciare una genealogia che parte dal romanticismo tedesco.
[4] Rientra almeno in parte in quella «estetica dell’esistenza» investigata da Foucault nel corso delle sue indagini sulle tecniche del sé, a partire dalla filosofia antica e dal monachesimo cristiano.
[5] Sulle comunità idioritmiche del Monte Athos, cfr. Barthes 2002: 37.
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[1] Su tutte queste questioni, cfr. le riflessioni nel corso degli anni di Meizoz (2007, 2011, 2016 e 2020).