La lettura narrativa come resistenza
di Paolo Morelli
Solo gli algoritmi salveranno la letteratura italiana
Ecco un esempio di frase ragionevole. Se guardiamo all’attuale produzione narrativa nostrale infatti, non si può fare a meno di notare quanto sia ormai esclusivamente frutto di un mero calcolo minimale, inconsapevole o meno non è questo il punto. Dimenticata la possibilità di affidarsi allo stato di affezione che possiedono le parole, ignari della malia delle frasi e della complicità di ogni conversazione fantastica vi si privilegia un più o meno accurato dosaggio dei contenuti alla moda, vi si legge solo il dominio della Ragione Calcolante, la famosa, la quale poi smunta ma sempre più assertiva pretende dal lettore una razionalizzazione totale, con un grado tale di determinismo che non lascia nulla al caso.
Tutto può essere oggi solo pensato come un racconto da consumare, che sia più o meno engagé non è questo il punto, ma scritto con regole ben riconoscibili, non seguire le quali è considerato un errore grave che vale la squalifica. E il calcolo deve essere ben riconoscibile appunto, altrimenti dimostrerebbe che un altro modo è possibile. Lo slancio, la dedizione, la nevrosi, la pausa, l’eccesso, la follia, perfino un brandello di originale o cosiddetto pensiero laterale sono banditi ormai da tempo in quanto ritenuti impossibili o indicibili. Mai e poi mai un dispositivo basato sulla saggezza dell’incertezza, solo il meccanismo appena sufficiente a confermare proprio ciò che bisogna dire. Persino quello che una volta si diceva stile sembra non contare più. “Tutto è irrimediabilmente trascorso”, come scrive un vincitore di premi, siamo al tempo di Oramai. Scrivere è solo un gesto stanco, ripetuto, automatico, uno dei tanti, programmato si ma in sistema che si vuole chiuso, e rigido poi nel far finta di no, che non è per niente così.
Un gesto muto, già programmato per sordi. Perché è innanzitutto la voce immanente al testo ad esser stata messa al bando, sostituita dal mutismo della pagina scritta, in base all’assunto che niente rafforza più l’autorità quanto il silenzio, e se ne sia o no consapevoli non è questo il punto.
Ecco come mai ci vengono in aiuto gli algoritmi: loro, quel lavoro, lo fanno più in fretta e, tra breve, anche meglio. Se consideriamo nei due soggetti generici la persistenza effettiva del cosiddetto pensiero emotivo, il cretino veloce in questo caso vince sul cretino lento.
Purtroppo, una sola cosa gli algoritmi non riusciranno mai a fare: riprodurre la voce di cui può essere intessuto un racconto, cosa ormai rara o pressoché sparita dall’orizzonte letterario, perché in essa si riascolta ogni volta, oltre al passato, anche il futuro di tutti.
La voce in un testo letterario o più specificamente narrativo è l’esperienza vissuta attraverso il corpo. Per questo Dostoevskij ad esempio cominciava a delineare i personaggi a partire dalle loro voci. In quanto concomitante insieme al linguaggio e al corpo la voce è il tramite possibile, la giunzione fra coscienza e sensazione cui ogni volta tende la narrazione. E, come aveva già individuato ad esempio Valery, ”il Linguaggio scaturisce dalla voce, piuttosto che la voce dal Linguaggio”, mentre il Mondo Nuovo che si impone ha proprio come nemica giurata l’esperienza diretta, di prima mano, oltre alla fantasia quando ha dignità conoscitiva, vale a dire carne e sangue della letteratura.
Siccome però fortuna vuole che le voci che ci vengono dal passato restano tuttora abbondanti, intrise e indelebili sulle pagine, c’è un archivio sonoro ancora a nostra disposizione e nulla vieta agli amanti delle cause perse di pensare alla lettura narrativa come un atto di resistenza, per riscoprire il piacere della lettura a voce alta così come dell’ascolto, per reinserire la narrazione nella nostra vita come pratica di socialità quotidiana. In un contesto in cui la socialità è concepita come remoto concetto della solitudine, riallacciarsi alla tradizione della dimensione narrativa delle parole e per ciò stesso curativa. Come sentire un testo. Mettersi a disposizione di una tonalità. Respirazione, intonazione, sprezzatura. Certo però del tutto laicamente, all’insegna dell’Orwell di 1984 quando dice che “in questo gioco che stiamo giocando, non possiamo vincere. Un certo tipo di insuccesso è preferibile a un certo altro tipo. Questo è tutto”.
Insomma per quello che vale.
L’arte della viva voce
Quindi un approccio intensivo alla lettura ad alta voce e, cosa altrettanto importante, all’ascolto di un testo letterario, più specificamente una prosa o una narrazione.
Come sappiamo della parola narrazione da qualche anno si sono impadroniti i politici, al solito per i loro interessi, a significare più che altro come riescono a riempire i canali di informazione con la versione dei fatti che gli fa più comodo. Noi invece ci riallacciamo alla tradizione della parola con le sue ampie sonorità, con tutte le sue ricchezze e le ambiguità, e della frase, alla sua malia, considerando prima di tutto la narrazione come un atto di socialità e normalità.
Già raccontare infatti è una cura, forse una delle poche possibilità che ci restano per far riacquistare alle nostre vite un certo qual senso di confidenza e normalità. Perché cosa possiamo chiamare normalità se non il tessuto quotidiano di racconti che ci facciamo, le piccole narrazioni che riempiono i nostri incontri, le circolazioni anche di ovvietà, quello che il filosofo Günther Anders diceva “un mero recitare insieme ciò che insieme si ascolta senza posa”? Alcuni, come il critico americano Richard Brooks hanno più volte ribadito la centralità della narrazione nello strutturare ogni esperienza umana: “Le nostre vite sono strettamente intrecciate alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate”. Altri ancora si spingono fino al punto di dire che non siamo che le storie che abbiamo incontrato nelle nostre vite. A guardare bene, altro non possiamo chiamare normalità se non il nostro modo di raccontarci un certo corso di eventi, perché è attraverso i racconti, anche i più semplici, che organizziamo la nostra esperienza nel mondo. Se poi si tratta di un racconto letterario questo fare mondo, come si diceva una volta, vale a dire il provare a organizzare modelli di esperienza può assumere i crismi del rituale per sentirsi parte di una socialità, in quella specie di conversazione universale che è la letteratura, altrimenti vige la paura.
In un contesto in cui la socialità è concepita esclusivamente come somma di condizioni isolate (ed è un risultato poi che non viene mai), uno dei presupposti di tale isolamento è la presunzione. Il pensiero che ci viene imposto è tutto improntato sul fatto che c’è un passato, un prima ignorante e balbettante e un oggi che ne è il riscatto. Questo succede anche per ciò che riguarda la considerazione che si aveva dei libri nel passato, quando molti erano gli analfabeti e pochi i libri, rispetto all’oggi in cui l’analfabetismo è di ritorno o addirittura funzionale. Qualcuno vi potrà raccontare invece che i libri un tempo, almeno fino alla metà del secolo scorso erano trattati con ogni sorta di rispetto e timore reverenziale. I pastori ad esempio ci vengono tramandati come l’epitome, il massimo dell’ignoranza di quei remoti tempi, ed invece può capitare di scoprire che, in tutto il mondo, essi avevano a volte ricche biblioteche e soprattutto avevano un orecchio letterario finissimo. Cosa crediamo facessero la sera attorno al fuoco, durante le transumanze ad esempio, se non che chi sapeva leggeva a tutti gli altri, narrazioni prima di tutto in versi ma non solo? Vi sono squisite narrazioni in versi da leggere a voce alta, l’Ariosto lo si potrebbe mettere tra le sostanze psicotrope, per gli effetti, benefici, di destabilizzazione fantastica che provoca nella mente di chi lo legge. E, d’altra parte, se ci facciamo caso i libri una volta avevano una serie di accorgimenti, piccoli espedienti per invitare il lettore, metterlo a suo agio, come ci si tiene a mettere a suo agio un ospite.
È comunque la dimensione narrativa della parola ad animare un rapporto fantastico con il mondo, a catalizzare capacità percettive e riflessive esiliate.
Tutta la logica di un testo si trova nella voce che contiene, se la contiene, se ne ha una, tanto che anche i traduttori di recente hanno imparato a leggere ad alta voce il testo che devono tradurre. Facciamoci caso, i libri che non si possono leggere ad alta voce sono anche quelli in cui non si vede immediatamente quello che vi si descrive, bisogna rileggerlo e comunque a volte è inutile. La voce in una narrazione è quel congegno infallibile che ogni volta ci riporta al remoto, al condiviso, come se si trattasse dell’incontro con una mente molto simile. Se la poesia esiste da sempre nell’esigenza della mente di ricrearsi condizioni originarie per non perdere i propri strumenti cognitivi, la narrazione ha la sua funzione primaria come luogo di convergenza e condivisione, una specie di intimità allargata in cui si riconosce la propria voce in un’altra percependo il suo tono, e con sé porta l’esigenza della socialità.
“Leggere è ascoltare altri sé”, diceva Nietzsche, oppure “Leggere è soprattutto disposizione all’ascolto” sosteneva R.L. Stevenson. Ma soprattutto la voce viene a rammentarci come la narrazione sia un fatto culturale nel senso più ampio della parola, non un semplice orpello ma una necessità umana primaria come sostengono gli scienziati e quindi auspicabilmente di uso quotidiano come potrebbe essere l’amicizia, o il vino per la convivialità.
Quello che dobbiamo fare per leggere a voce alta una storia è passare da una lettura introspettiva e intellettiva, dal silenzio a volte ignavo della pagina scritta a un esercizio fisico, corporeo, fatto essenzialmente di vocalità, vale a dire espressione fisica della voce e di postura. Intonarsi sulle parole, non solo decifrarne i significati, sulla linea di quella che viene o meglio veniva chiamata prosodia, cioè l’insieme dei caratteri fonici – dinamici, melodici, quantitativi: accenti, tono, ritmo sul flusso sonoro del testo, perché le sonorità emotive sono il perno della narrazione, e non tanto lo sviluppo logico-semantico. E poi la voce, la traccia orale di un testo non è soltanto la parte corporea del linguaggio ma implica altresì l’affettività, è nell’udito che sta racchiuso tutto il senso sociale di una storia. Proprio così l’oralità diventa esperienza vissuta, quella parte di vita che le pagine portano con sé.
Già nessun enunciato umano può darsi interamente senza emozione: i modi, i gesti, gli atteggiamenti sono patrimonio del discorso: questa la fonte primaria anche della narrazione scritta, dei libri che devono contenere una voce.
Nasce così una specie di slancio che viene a lasciarsi trasportare dalle parole, a sentire le parole che ci vengono dentro, diciamo così e risuonano sempre più familiari all’orecchio di ognuno.
In questa maniera è possibile fare della lettura narrativa non solo un atto di evocazione vero e proprio nei riguardi di un testo e del suo autore, ma una sorta di esercizio spirituale se non è parola brutta: una prova di socialità, amicizia, addirittura fraternità si potrebbe dire, se non è parola brutta anche questa.
Non stiamo qui cercando una concentrazione onerosa o un’attenzione forzosa, non nella lettura né tantomeno nell’ascolto. E neppure la bravura, quasi il contrario, ma di perdersi nel testo, di farsi guidare dalle tonalità, di affidarsi allo stato di affezione delle parole (ed è sempre nella prima frase di un testo che riconosciamo il suo tono). Non dobbiamo fare insomma come certi attori quando leggono una storia e si sente subito che non è in funzione delle parole che leggono, oppure che le recitano perché esse valgono assai per darsi dell’importanza. Si mettono in posa, si ascoltano mentre leggono (cosa dolorosa per chi legge e fastidiosa per chi ascolta), mentre qui intendiamo tentare un non-ascolto di sé, di fare soltanto da tramite al testo, che ogni volta si reinventa con la voce di ognuno, con le sue particolarità e complessità di tessitura.
Quindi immaginiamoci se fra i gesti quotidiani di condivisione ci inserissimo un: Ti leggo due pagine di questo libro che mi hanno commosso, o m’hanno fatto sganasciare… Facendogliele anche sentire bene. Significa riappropriarsi di un piacere sovrano, così come si chiama conversazione sovrana quando non tentiamo di imporre noi stessi, le nostre idee o la nostra visione ma invece cerchiamo risposte assieme all’interlocutore.
In conclusione, per ottenere il risultato non abbiamo bisogno di qualità particolari, tipo una cosiddetta bella voce, o una dizione perfetta, tanto meno di una voce impostata come quella di molti attori:
1) basta rinforzarsi con l’esercizio (oltretutto man mano si scoprirà che leggere per se stessi a voce alta è un cerimoniale assai piacevole, curativo, nutritivo oserei perfino dire), finché l’abitudine non diventi natura ma senza aver alcun obiettivo se non l’amore per le pagine che si leggono e il piacere di condividerle. Allora si situerà fra le tante cose importanti ma piacevoli, quelle che, come si dice ancora, rendono la vita degna di essere vissuta.
2) abbandonarsi, fidarsi di quelle pagine e di quell’amore, senza paura alcuna di sbagliare. Quindi ancora, il modo di estendere la pratica, per essere sicuri di comunicare sarà quello di esporsi così come si è, senza cercare di essere qualcun altro.
Che bel pezzo, così limpido.