Il maiale Kras
di Giorgio Kralkowski
Le urla si sono quasi dissolte sopra le tegole del casale e al fumo dei camini, si sono infilate tra l’erba alta e hanno forse raggiunto gli uomini nei campi più lontani, appena prima delle acque del fiume, che inghiottono le voci di chi vi parla appena accanto. Adesso al loro posto i fruscii del lavoro, i rumori umidi delle mani e della carne, il tremare del metallo dei coltelli.
I nostri visi si incontrano nella grande vasca del sangue bruno del maiale Kras. Sul liquido scuro e lucido emergono porzioni delle nostre facce bianche, il riflesso delle lampade fioche, la luce grigia dell’alba. Agli odori tiepidi e brumosi della mattina e del sudore si mescolano quelli caldi secchi polverosi della terra e della paglia che si sentono anche in bocca. Il legno già brucia nelle stufe.
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Nel silenzio di questo luogo lontano, ora che la notte si trasforma in alba, ritornano alla memoria spettri di suoni remoti: in giorni come quelli le urla riempivano i vuoti tra le case e trovavano una fuga solo nel cielo e tra le spighe dei campi. Erano come le urla acute dei bambini sotto una mano aperta, o sotto i colpi di un bastone. Quando iniziai a ricordare i suoni degli anni che erano stati, ero un bambino. Ne avevo appena tre e, seduto sulla paglia in un angolo del casale, osservavo; sette quando iniziai ad avvicinarmi; nove quando iniziai a portare i secchi per raccogliere il sangue. Quando la pelle bianca delle mie mani si bagnò di un rosso vivo ne avevo dieci. A sedici mi venne regalato un coltello. Quell’anno mi dissero che è “importante la prima bestia che si uccide… le nostre mani… il sangue…”.
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Krzysiek e suo padre, con gli stivali immersi nel vascone, abbracciano i fianchi del grande animale, quasi senza che ve ne sia bisogno, tanto mansueto si mostra alla vista della lama, e così a un colpo in testa che quasi lo stordisce. Alla prima incisione di quella pelle spessa emette uno squittio soffocato. Solo quando il coltello affonda intero nella carne solleva un grido alto, terrificante e umano, per poi lasciar cedere la tensione dei muscoli delle zampe, abbandonarsi in terra e crollare nella polvere e nel silenzio.
Grandi secchiate d’acqua calda vengono gettate in terra. Il sangue ancora sgorga nel vascone e nelle bacinelle e nei secchi. Le vasche vengono scambiate non appena si riempiono e vengono versate in grandi tinozze, e poi da capo. La carne delle zampe posteriori viene trapassata da due ganci e il corpo viene issato a mezz’aria. Il calore di quella che un tempo era stata la vita di Kras sale e si straccia come vapore nelle volte del casale.
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Kras era stato il maiale più grande che il paese ricordasse: una bestia mostruosa, immensa. Ricordo che arrivava con il dorso poco sotto la spalla di un uomo adulto, ben piazzato e dal petto largo, e aveva la testa grande come quella di un grande bovino, tanto da poter essere montato e cavalcato: occasioni, queste, che non erano mancate, e non solo nei giochi dei bambini, ma anche in quelli degli ubriachi. Di temperamento, si era sempre mostrato mansueto, tanto che era rimasto quasi immobile quando si era trovato di fronte una mano con un grosso coltello.
Si sarebbe detto che attendesse da sempre, che nella propria coscienza di bestia castrata la morte fosse solo un altro punto nell’accidentalità del tempo, o dell’eternità, così come lo era stato il suo venire al mondo tempo prima. Sembrava, o così a me sembrava quando la sera lo riportavo in stalla e mi sedevo in terra di fronte a lui, di scorgere nei suoi occhi neri una saggezza antica, una dimenticata arte divinatoria, un certo sentire innato, ferino: un tempo delle bestie. Sembrava che nel corpo di Kras vibrasse un qualcosa di remoto e intraducibile, e che se anche avesse posseduto le parole, non avrebbe potuto dire.
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La somma dei rumori affiochisce e gli uomini lasciano i propri lavori per accendere il fuoco con cui bollire la carcassa del grande animale. L’enorme testa pallida e pelosa di Kras viene staccata con colpi secchi e violenti che vibrano sordi sul legno. Inizia a farsi lucida quando viene separata dall’immenso corpo, che già pende per far scolare il sangue. Il sangue viene trascinato in basso da niente più che il proprio peso, la gravità e la sospensione di vene che ormai non seguono più un percorso ciclico, ma sono ora un canale aperto, reciso, interrotto. Al rumore del lavoro si sostituisce lentamente il silenzio.
Sono solo e nella luce acerba di questo grande casale esploro gli occhi dell’animale. Il loro colore emana un peso grave e notturno, che si addentra attraverso cunicoli di tane abissali. Nel trovarmi di fronte all’immensa testa mi invade il pensiero di non aver solo ucciso, ma persino decapitato il nume di una divinità pagana che ha abitato questi campi prima ancora che vi fosse un paese; prima che il ripetersi dei passi segnasse un sentiero, che un sentiero dividesse le distese in geometrie, le geometrie in possesso: in tempi in cui le piante e le bestie erano pur senza lo sguardo, pur senza la parola di un uomo. Prima che si iniziasse a separare, a separarci. La mia schiena e le mie mani tremano al pensiero di aver macellato un antico dio delle colline o delle bestie che fino ad allora, di nascosto, ha abitato il corpo del maiale Kras.
Tra i pensieri sento la grande bocca della bestia aspirare lentamente l’aria del grande stanzone come se caricasse un ultimo respiro. Poi, con voce remota e cupa dice “Grazie…”.
“Per cosa?”, chiedo. Kras temporeggia, esala la fatica del morire in un fiato caldo e umido. “Prima o poi, presto o tardi, sarebbe successo…”, aggiunge e sembra fatichi ad aggiungere altro ancora, sia per la testa mozzata, sia per la vita che lo lascia per versarsi nella paglia e sotto i miei stivali.
“Mi dispiace per le urla… so che tua sorella si spaventa…”. Rispondo di non preoccuparsi, che con un coltello in gola anche io avrei urlato, che a differenza di chi lo aveva preceduto era stato quasi impassibile. “Certo”, ride, “un’altra botta in testa l’avrei preferita… Krzysiek ha la mano leggera, mentre tu, o tuo padre…”, sorride ironico, soffia ancora dalle grandi narici fino a farle vibrare. Un’aria calda umida mi si incolla in viso. Indugia: “Senti Marek, che sapore ho, che sapore ha la mia carne?”. Rimango in silenzio. Un gelo acuto e vivo si intreccia alla mia carne. “Dipende…”. “Dipende da come decide di cucinarti la mamma quel giorno. Se diventerai salumi. Quest’anno, se il tempo sarà buono, è probabile che faremo le salsicce e poi con il resto si…”. “Tu non vorresti conoscere che sapore ha la tua carne?”. Esito.
Dopo aver fatto vibrare una delle sue grosse orecchie, quasi ad assecondare compassionevolmente i miei indugi aggiunge: “Ascolta… come fate queste salsicce? Cosa ne sarà della mia carne?”. “Dipende anche quello. Se c’è tanto grano, e quest’anno ne abbiamo, e se di sangue ne hai buttato abbastanza, bolliremo il grano e mescolandolo al sangue ci faremo una salsiccia scura”. “Anche col sangue?”, “Anche col sangue”. “E…”, le parole sono lente, affaticate, gli occhi socchiusi “…e con le mie viscere, poi che ci fate?”, “Ci facciamo una zuppa, ma prima vanno…”, “Perdonami… il tempo è poco e la mia domanda è più importante dell’immaginare in quali strani modi trasformerete il mio corpo. Perdonami, e dimmi Marek… che sapore ha la mia carne? Tu che puoi sapere, mentre sai che io non potrò mai. Dimmi se non la mia, tu puoi conoscere che sapore ha la tua carne?”
L’eco della domanda arriva fioca alle mie orecchie. Il mio corpo si fa inconsistente e così le cose del mondo intorno, che non sono più materia che io possa toccare. L’occhio scuro della grande bestia, in cui il mio viso si riflette in una sembianza appannata e tremula. Sulle mie guance scorrono lacrime calde, che cadono e bagnano le mie mani contratte, si mescolano con il sangue secco per scioglierlo ancora. Mi accorgo di singhiozzare, di un rumore lontano, ovattato, delle mie labbra che tremano. Ai singhiozzi, al vuoto cavo e compresso dei miei polmoni, a un pianto disperato, si mescola un canto basso e continuo che sembra abitarmi da un tempo eterno, anteriore a qualsiasi liturgia che abbia mai scandito durante una messa, a ogni parola che abbia mai ascoltato, a ogni parola che sia mai esistita:
“Nel volume delle viscere mancano le pagine che spiegano a che temperatura vanno mantenute, che tempo farà domani, dove mirare lo sguardo, se oggi sono preda o cacciatore, in quali sentieri… e una noticina scritta a matita: ‘corri più piano, ti inseguirò più piano’. Quali impronte, quali paure seguire, quali abbandonare e come dovrò vestire il mio corpo quest’oggi, a che cottura la mia carne? Devo avvolgerla nella paglia, bagnarla nell’acqua appena calda, prepararla per quando un giorno tornerà a non essere più mia? La terra, la terra, il corpo, la terra. Mangiare fiori, queste erbe che mondino i miei intestini. Provare se le punte delle mie dita sanno ancora della calendula di qualche estate passata?
Quanto del mio sangue cadrà nel mondo dai tagli che si apriranno sulle mie mani, dai morsi che involontariamente masticheranno la carne delle mie guance? Se un giorno le bestie le mangeranno, quando bruceranno, in quale terra mi consumerò? Potessi versarle in un grande catino, tenerle rosse fra le mani, essere una volta solo un corpo, un diavolo nudo. Devo guardare nel buio delle loro pieghe dove è caldo, ma mi è difficile piegare la testa abbastanza. Il centro, il centro, il centro che manca. Quando sarò terra scura, quando ogni pianta crescerà sul mio corpo, quando non sarò più e sarò pianta.
Masticare la mia carne, che il mio corpo corrisponda due volte al mio corpo, questo mai se conosco le parole. Se non conosco il mio sapore chi sarò domani? Esisterà un rituale, un vecchio rituale dimenticato, nel quale si sopravvive al giorno, per il giorno dopo, mangiando il corpo che si è abbandonato la notte prima, appena ci si addormenta, il momento esatto esatto. Verrai mangiato, avrai l’onore, conoscerò il sapore della tua carne e saprò di te, non conoscerò il sapore della mia carne e non saprò di me. Ho scritto questo corpo in una lingua di carne che non parlo, che mai saprò leggere. Non la parola, ma il corpo, non la parola, ma il corpo, non la parola, ma il corpo, si può mai tornare indietro? Il centro, il centro, il centro che manca…”
La voce si spegne e con lei il mio respiro. Aspiro in un rantolo l’aria che ha abbandonato il mio corpo nello spazio di una continua esalazione.
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Io sto piangendo. Singhiozzo, montando da un lamento a un pianto disperato, mentre la carne del mio corpo contratto rilascia la morsa delle dita, e poi del petto, e delle gambe e frana pesante addosso alla testa della bestia. Rimane tremula l’immagine della pelle della grande testa pallida dell’animale. Poso una mano sulla grande fronte per sentire che scotta come quella di un grave affebbrato e la accarezzo e cingo le mie braccia intorno al grande capo fino a sentire le dita congiungersi e la mia guancia bagnata sul grande animale, balbettando e ingollando aria in polmoni fino a quasi sentirmi soffocare.
Tra il rumore del mio pianto sibila un ultimo rantolo che raccoglie l’aria per un’ultima frase: “Ti disperi tanto ed è così semplice, che non si può dire, che semplicemente è. Più grande di noi, e di noi poco importa, vivi sapendo che anche tu scomparirai. Sei carne e sarai terriccio caldo, e sarai stelo e sarai fiore. Esso era prima che fossimo, sarà quando non saremo più. Non saremo noi a rimanere. Nemmeno io capivo nel tempo in cui ero uomo”. Mentre la mia vista si schiarisce e il mio pianto esausto si spegne, Kras ha smesso di ascoltare, ha abbandonato gli occhi e di lui rimane solo una grossa testa pelosa, abbandonata in un grande e serafico sorriso. Così si separa dalla vita, e da me.
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La neve riflette il sole restituendo il colore dell’ambra più chiara. L’alba rossa impallidisce per mescolarsi all’azzurro del cielo. Krzysiek torna con gli stracci, altri secchi, la scopa. Gli altri uomini trasportano la legna su un piccolo carretto cigolante. Il casale va pulito, la carne tagliata, spartita e messa al sicuro. Da un tempo di cui nessuno ha ricordi, nel nostro paese, e non negli altri, del maiale si stacca la testa dal corpo restante e si posa su fascine e sterpaglie, per poi accendere un grande falò.
Accendiamo un fiammifero e il fiammifero accende la paglia e la paglia accende i rami e i rami avvampano in un primo fuoco, che lentamente scioglie la poca neve su cui posa la pira. L’odore tiepido del legno che brucia riempie le mie narici. Il fumo si attarda basso sopra i tetti delle case. I galli iniziano a cantare.
Guardo un’ultima volta la testa di Kras scomparire tra le fiamme. Un pesante collare di fumo avvolge quel che rimane di quel che fino a poche ore prima era stato un immenso animale. Mi chiedo se sono stato io a portarla lì sopra, ma non riesco a ricordare. Guardo ancora i suoi occhi, che prima riflettevano la fiamma e ora iniziano ad abbandonare la propria lucentezza e a farsi prima lattiginosi, poi bianchi come quelli dei ciechi, o dei cani con la cataratta. Bruciano i rari peli del muso e la pelle prima suda e si fa lucida, stillando gocce di grasso, poi scurisce in un rosso opaco. Il vento prende a soffiare, le fiamme iniziano a guizzare alte, per poi inghiottirlo lentamente come i rovi quando crescono sulle cose del mondo. I carboni respirano una luce rossa e materiale per farsi lentamente grigi. Rimango seduto in terra fino a non sentire le guance, fino a perdere lo sguardo e il corpo tra le braci. Il vento accarezza le spighe dei campi. Il fiume scorre lontano. Di tutto rimane un silenzio.
Che grande pezzo, di verbi, di carne, davvero grazie. Che scrittura del nostro mattatoio.