ADDIO ALL’INVERNO

di Cécile Wajsbrot

(NdR Il testo che segue, letto dall’autrice lo scorso agosto all’Accademia delle Arti di Berlino, è apparso nel numero 21 della rivista Journal der Künste, periodico della stessa istituzione. La traduzione è di Stefano Zangrando)

1552 – Pantagruele e i suoi compagni raggiungono il confine con il mar Glaciale, quando ad un tratto odono delle grida. Tutt’attorno non vedono nulla e nessuno, ovunque c’è solo l’oceano. Sono terrorizzati, alcuni vogliono fuggire. Il timoniere, tuttavia, li riporta alla calma. Quelle che sentite sono le parole di una battaglia che ha avuto luogo lo scorso inverno, parole che il freddo ha congelato. Ora che il tempo si è fatto più mite, le parole si scongelano, ma i combattenti sono spariti da un pezzo.

Fine del XXI secolo – In conseguenza del riscaldamento globale la calotta di ghiaccio del Polo Nord si è sciolta facendo salire il livello del mare, il Giappone è stato sommerso, Venezia inghiottita e a Parigi regna un clima tropicale per la gioia dei flâneur nel Giardino delle Tuileries, divenuto una foresta di bambù. Al Grand Palais si tiene la Conferenza Annuale per la Stabilizzazione del Clima –  la cui comunicazione è affidata a una nota società, Panem et Circenses. Ma le cose si complicano, perché sono in ballo grossi interessi economici.

1999 – Il romanzo Greenhouse Summer di Norman Spinrad, tradotto in italiano con il titolo Condizione Venere e dal quale proviene questa visione degli effetti del riscaldamento globale, esce nell’anno della tempesta Lothar, che subito dopo Natale distruggerà gli alberi delle Tuileries, quelli dei giardini di Versailles e delle foreste della Francia occidentale – centoquaranta milioni di metri cubi di bosco abbattuti. A Parigi il vento soffia fino a 200 chilometri orari.

Agosto 2023 – E noi qui, oggi, più avvezzi alle immagini della catastrofe che alle parole che la designano. Alberi sradicati, strade squarciate, dighe distrutte, onde colossali, paesaggi alluvionati, città devastate. Le immagini che scorrono sempre più spesso sui nostri schermi rendono pressoché inutili i commenti fuoricampo. Eppure le parole hanno qualcosa da dire. Noi che scriviamo lo sappiamo bene.

1816, l’anno senza estate – In una lettera alla sorellastra, Mary Shelley descrive la propria ascesa sulle Alpi, «nel pieno di una violenta tempesta di pioggia e vento». Pochi giorni dopo, la vista sul lago di Ginevra si ammanta di neve. Fra l’aprile e il settembre 1816 piove per trenta giorni. In quell’estate Byron, Shelley e Mary Shelley, costretti in casa dal maltempo, per combattere la noia decidono di scrivere una storia di fantasmi ciascuno. È l’atto di nascita di Frankenstein.

Aprile 1815 – Il Tambora, un vulcano indonesiano, erutta. Piogge di pietra pomice, immense colate di lava, una colonna di fumo alta quarantaquattro chilometri, i corpuscoli di polvere giungono a cadere nell’emisfero nord-americano e nel nord dell’Europa. Nell’estate 1816 le temperature calano di mezzo, quando non di un intero grado, provocando cattivi raccolti in Svizzera e Germania, e carestie che provocano agitazioni. Le tinte irreali dei cieli di Turner hanno forse la loro sorgente nelle condizioni climatiche provocate dall’eruzione.

2050 – Il passaggio a nord-ovest, il passaggio a nord-est cercato a lungo e che ha provocato tanti morti, naufragi e spedizioni, il passaggio tra Siberia e Alaska: tutto questo è sempre navigabile. In estate l’Artico è libero dal ghiaccio e la spartizione delle acque e delle risorse ha portato tensioni e conflitti fra i paesi dell’estremo nord.

1866 – In un lungo preambolo a I lavoratori del mare intitolato L’arcipelago della Manche, Victor Hugo nel capitolo venti scrive: «Il mare edifica e demolisce; l’uomo aiuta il mare non a costruire, ma a distruggere […]. Tutto sotto di lui si modifica e cambia, ora in meglio, ora in peggio. Qui trasfigura, lì deturpa». Victor Hugo sa che l’umanità è entrata nell’era dell’Antropocene, anche se questa parola non esiste ancora. E dopo un passaggio che glorifica il progresso, avverte: «Tuttavia non dovremmo sopravvalutare il nostro potere. Ciò che facciamo non va oltre la superficie. L’uomo veste o sveste la Terra, un disboscamento è un indumento dismesso. Ma rallentare la rotazione del globo sul suo asse, accelerarne la corsa intorno alla sua orbita […], modificare la processione degli equinozi, cancellare una goccia di pioggia, giammai […]. L’uomo può cambiare il clima, ma non la stagione».

Oggi – Già allora, si è tentati di dire leggendo queste frasi di Victor Hugo – e ogni volta che qualcuno dà prova di preveggenza o di lucidità. Già allora – Aldous Huxley che negli anni cinquanta del ventesimo secolo ci mette in guardia dai rischi della sovrappopolazione. Già allora – queste righe tratte da Primavera silenziosa di Rachel Carson, scritte nel 1962: «L’aggressione più allarmante compiuta dall’uomo nei confronti dell’ambiente è la contaminazione dell’atmosfera, del suolo, dei fiumi e dei mari con sostanze pericolose e persino mortali». Già allora, diranno gli esseri umani nel 2065, se ce ne saranno ancora, leggendo i libri di coloro che al volgere del XX secolo, o all’inizio del XXI, avevano messo in guardia dagli effetti dannosi dei gas serra, e ascoltando le voci di coloro che chiedevano di mettere al bando il diesel, di chi sperava di limitare il riscaldamento medio globale a meno di due gradi, mentre avrà raggiunto già i cinque o sei. Già allora, diranno se avranno accesso ai documenti delle conferenze sul clima tenute a partire da quella di Rio nel 1992. Lo sapevano, diranno, e sospirando aggiungeranno: perché non hanno fatto niente?

Da sempre – la metafora guida l’immaginazione. I paesaggi dei dipinti e dei libri nascono da estrapolazioni dai paesaggi reali che attraversiamo. Li interpretiamo, ne carichiamo le tinte, li rendiamo puri. Un inverno particolarmente freddo dà inizio a un’era glaciale, il cielo scuro di un paesaggio nevoso diviene di un verde singolare. La guerra fredda, l’acqua raffreddata dei reattori nucleari, produce infiniti paesaggi ghiacciati che perfino gli eroi più intrepidi dei film catastrofici domano solo con grande fatica.

Nel XXI secolo potremo ancora scrivere l’inverno, sapremo ancora leggerlo, comprenderemo ancora i dipinti e i libri che lo illustrano? Consapevoli come siamo di una possibile scomparsa della specie umana in un futuro che non si calcola più in millenni o secoli, ma in decenni, rassomigliamo, torniamo simili agli Aztechi che di notte vegliavano colmi d’angoscia spiando la riapparizione del sole. La notte del mondo incombe, e il passato ci mostra la via del futuro. È la paura che estende il proprio influsso. Con gli occhi spalancati osserviamo ciò che accade oggi, sappiamo, e anticipiamo – nelle previsioni scientifiche come nei racconti di science fiction. Sappiamo – e allora, che cosa faremo?

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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