Note di lettura a «Invernale»

di Valentina Durante

Un figlio racconta gli ultimi anni di vita del padre, macellaio di Porta Palazzo, Torino, a partire da una malattia susseguente a un infortunio sul lavoro. Lo si potrebbe riassumere tutto qui il breve ma intenso Invernale di Dario Voltolini (La nave di Teseo, 2024), nel pacato congedo dalla figura paterna attraverso la giustapposizione di ricordi e frammenti del tentativo di cura e fino all’addio: composto in un finale potente proprio perché misuratissimo. Ma ci si limiterebbe al solo piano di superficie del testo, lasciando in ombra la traiettoria che esso traccia e che conduce non già al distacco, ma piuttosto a un incontro: tra il figlio e il padre, grazie alla scoperta di una lingua di mediazione.

Voltolini narratore assume il suo mandato memorialistico imponendosi due scelte espressive la cui forza e rigore si manifestano già nell’incipit. La prima è l’impiego di una prima persona così defilata da prendere su di sé i caratteri di una terza, mai giudicante. Dario, il figlio che racconta, lo fa per lo più osservando, e come un narratore che nel riportare i fatti non si trattiene dal proclamare la propria inadeguatezza (“non so niente, ma niente! Spaventosamente niente”), quasi uno straniero al cospetto di una conversazione in una lingua non sua (e su questo torneremo).

Strana postura, verrebbe da dire, per un memoir: genere in cui di solito si assiste all’esondazione più vertiginosa dell’io. Voltolini conserva una nettezza di sguardo encomiabile unita a una cautela, quasi una ritrosia nell’accostarsi alla materia narrata, come per il timore di dire troppo, o di dirlo male. Mai si cede alla tentazione del patetismo, il che accresce per contrasto la caratura emotiva del testo, la sua capacità di indagare quel “qualcosa che sta da un’altra parte rispetto alle emozioni e ai sentimenti”.

La seconda scelta è far parlare fin da subito la lingua del padre: lingua solo falsamente muta, tutta composta di silenzi perché tutta consustanziale al corpo. Il padre di Dario – Gino –, nell’esercizio della sua professione è colui che ha accesso privilegiato a un piano di comunicazione con l’altro-da-noi che è più prossimo a noi: l’animale. In uno scambio che articola i due poli estremi dell’esistenza biologica – vita (sopravvivenza, nutrimento) e morte –, in questa lotta fra chi s’impone – l’uomo, il macellaio – e chi si oppone – la bestia, con le sue ossa e i suoi tessuti che esercitano resistenza –, non si arriva mai a separare del tutto i due stati, i due contendenti e i due mondi: “Cara bestia, che arrivi già morta nelle mie mani, io ti seziono, ti riduco in cibo per altri umani come me. Stando al di qua del processo di cottura, quindi ancora nell’atavico, insieme a te.”

Invernale apre con una descrizione lunga ben sette pagine (non poche, nell’economia di un testo che ne conta centotrentadue) del banco macelleria al mercato di Porta Palazzo, con il padre intento al lavoro. È un incipit movimentato, tutto fatto di azioni: spaccare il pollo, l’agnello, il coniglio; spolpare la bestia e tagliare a fette, a fettine, a pezzi, a bistecche, a cotolette; impacchettare, sbattere l’involto sulla bilancia per stabilirne il prezzo, servire il cliente, ritirare il denaro, consegnare il resto. Il gesto funzionale viene assimilato al gesto atletico o artistico, con quei macellai che “colpiscono con la lama” “come batteristi nell’assolo”.

Pur nella natura fortemente dinamica della scena, questa ricchezza descrittiva realizza una tessitura ritmica che riproduce la stabilità della routine, la circolarità del quotidiano. Si dà una forma di paradossale stasi in questa danza armoniosa di corpi vivi e corpi morti, un equilibrio che prelude all’evento che arriverà a turbarlo: per un inciampo in quella coreografia ben rodata, Gino si trancia un dito quasi di netto.

C’è un prima del taglio: descritto fin qui. E c’è dopo un taglio: la malattia. Una malattia finora assente – nonostante la morte –, perché la bestia viene uccisa e macellata, se non sempre al massimo del vigore, comunque mai in una condizione di disfacimento, il quale al limite subentra poi.

Ma c’è un altro contrasto nel capitolo di apertura; un’antitesi più defilata ma non meno significativa che coinvolge il figlio Dario, il quale apprende dell’incidente nel mentre sta “leggiucchiando”. Abbiamo da un lato il linguaggio dei corpi: vivi e morti – si è detto – ma entrambi vitali, portatori di energia e uniti nell’atavico; dall’altro il linguaggio propriamente inteso: quello verbale, mediato dall’intelletto e che trova dimora nei libri. Già inadeguato a ricomprendere il padre nella salute, questo secondo linguaggio – appreso e artificiale – si rivela ancora più inefficace nell’interpretare la malattia. Perché il corpo tenta sì di trovare una sua propria via di comunicazione (“Il dito si gonfia, si infiamma, produce pus. La pelle si tende, si assottiglia, cambia colore.”) assecondando una sua propria intelligenza (“I muscoli, i tendini, i vasi, l’osso e la cartilagine aprono il cantiere della ricostruzione”), ma per decifrare un discorso somatico che sulle prime, a tutti (a Gino, ai famigliari, ai medici…), sembra parlare di guarigione, occorre un’attenzione costante, un’osservazione ripetuta nel tempo.

Serve cioè che l’osservazione si tramuti in ascolto, nell’intercettare scostamenti anche minimi rispetto a rituali forgiati in anni e divenuti uno standard e una norma: “Ecco che il ceppo, che sta lì da anni, è più difficile da raggiungere. I coltelli per disossare hanno lame che tagliano meno, quelle dei coltelli per sezionare, macellare, hanno un tentennamento all’attacco nelle impugnature”. La presa d’atto di una routine che si smaglia (subentrano la stanchezza e la noia – prima quanto inconcepibile! –, e persino qualche stramberia) permette al figlio di comporre un catalogo delle abitudini e delle passioni di quel padre che d’un tratto non è più lui. Sembra un itinerario di auscultazione e diagnosi retrospettiva attraverso la scrittura, ma si dà anche come disvelamento di altro, di un padre sotto la sua superficie – la “piana” fatta di lavoro e pochi extra (la caccia, il calcio, con quel Sivori addirittura incontrato di persona…) –, un padre per così dire in emersione.

Nella malattia che per il momento ancora cova sottotraccia, il corpo sembra non trovare più posizione. Ed ecco che a compensarne lo squilibrio si innesta la parola, però come “verbo”: tanto sporadica, quanto profetica. “Gol” dice Gino a metà dell’azione, mentre guarda con il figlio la partita alla tivù. “E, appunto, gol”.

Trascorrono i mesi, le analisi suggeriscono ma non determinano. Gino è sempre più stanco, e pure cerca di tirare avanti con la vita di sempre. I prodromi di una condizione che si avvia a diventare cronica? A questo punto, sarebbe quasi da auspicarlo. Ma cala la mannaia della diagnosi certa, e allora lo fa sotto l’egida di una parola esterna, persino esotica: “linfosarcoma prolinfocitario”. Lei sì, tutta razionalità e scienza.

Una parola “che non significa niente”, dice Dario: del tutto estranea alla persona di Gino, non risiedendo essa né nel linguaggio del corpo che parla sé stesso, né in quello verbale parco e però intessuto di mistero. E non c’entra nulla neppure con il figlio, ché non appena Dario cerca di ricollocarla nel suo proprio regno – l’ipocondria intellettualistica di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome – può solo constatare il fallimento, l’inutilità dell’operazione: lì è la letteratura, con le sue trasfigurazioni e sublimazioni, una finzione dove si ride “sonoramente e incontenibilmente”; qui è la malattia reale, posta al centro di un atto di comunione che a questo punto non si vorrebbe (padre e figlio che si scoprono entrambi a consultare la stessa enciclopedia), dove ciò che deve essere detto, alla fine, viene detto: cancro.

Al di là di ciò, il silenzio: “Tutta la camera sta in silenzio, tutta la casa, il condominio, il quartiere, la città, tutto in silenzio”.

Si cerca una cura, e anche questa è un altrove: l’istituto Gustave Roussy di Villejuif, in Francia, vicino a Parigi. “Un posto che non si conosce dove parlano una lingua che non si conosce e dove fanno cose che non si conoscono”.

La lingua è straniera, il medico – forse di origine pakistana – parla giusto un po’ di italiano; anzi, lo “mastica”: lo fa suo e se ne ciba come la carne che il padre, ai tempi della salute, masticava con voluttà e ostentazione ancora cruda, davanti alle clienti, a testimoniarne la freschezza.

Nel mentre i genitori nei loro sempre più frequenti soggiorni a Villejuif apprendono di tumori che possono essere ovunque, persino nella lingua (proprio lei, che non a caso sembra ricomprendere per sineddoche il tutto del corpo), il figlio cerca di sostituirsi al padre al banco macelleria, in quella danza-linguaggio che è il lavoro con le bestie. Ma non può che farlo “ai margini” – constata egli stesso – “miserabilmente”.

E quando, fra una terapia e l’altra, lo stesso Gino si impunta per riprendere il lavoro, tocca prendere atto che la nuova lingua (la nuova realtà) si è già installata di prepotenza nella vecchia, disassandola. Gli scambi di battute con gli altri commercianti perdono leggerezza perché acquistano in profondità: “un ingrediente che tarpa la possibilità della risposta data rapidamente, sveltamente, immediatamente.” In superficie il linguaggio sembra lo stesso, però la dimensione è altra, perché tutta diversa è la prospettiva. Attenzione e concentrazione – che pure resistono – lo fanno come sempre nel silenzio, sparando in giro “qualcosa di sacro e di bestiale”.

Se il padre ha perduto il vigore e la fluidità della sua antica oratoria, dell’uomo che danza sul filo di coltello con la bestia, anche il figlio si ritrova intrappolato in una sorta di afasia. Dario decide di accompagnare i genitori in occasione di una permanenza più lunga a Villejuif, e nell’accostarsi alla realtà di quei posti magari un tempo vagheggiati non gli restano che termini il più ampi e generici possibile: come se le parole venissero apprese a tentoni, persino fabbricate, nel momento stesso in cui le si adopera.

Parigi diventa “la grande città”. Il Louvre è “il museo che imprime il suo senso al nome ‛museo’”.

È la lingua di uno che “non capisce niente” e che non vede niente ma al massimo, dal mondo, può essere guardato e visto, perché tutto è pervaso “dal motivo per cui si trova lì”. Quel significato ottenebra e riassume tutti gli altri: è il significato; è la dialettica fra vita e morte nel momento stesso in cui accade – che poi è il momento che riassume la nostra intera esistenza, salvo che solo durante la malattia – nostra o altrui –ce ne accorgiamo pienamente, il pensiero diventa davvero e tremendamente visibile.

Durante l’ultimo e vano tentativo di terapia, avviene il distacco. Gino muore lontano da casa, in ambulanza, nel viaggio di ritorno, probabilmente nel tratto tra Fointenbleau e Auxerre. Dario non è con lui: è in vacanza con amici, neppure lui si trova a Torino. A casa, l’incontro fra il corpo morto del padre e il corpo vivo del figlio prende sulle prime la forma di un disincontro. Dario è “ancora una volta sulla soglia”: nel silenzio, nell’immobilità. “Eppure gesti, movimenti, rumori” dice, “e persino parole devono esserci. Ci sono, nel freddo del congelamento. C’è però soprattutto il congelamento”.

Come già in vita, l’unico linguaggio che appaia ammissibile è quello fisico: lo sa bene il fratello di Gino, che “allunga una mano e gli strizza le dita di un piede.” Un saluto muto ed eloquentissimo, “il gesto di un professionista estremo, che con un tocco sa valutare la qualità del bestiame, vivo o già macellato, un gesto che può permettersi solo chi ha ormai raggiunto un’esperienza assoluta in un campo precisissimo”.

Proprio questo gesto scaglia Dario distante. Lo respinge nel freddo siderale di un punto sperduto del cosmo, perché è un gesto che non gli appartiene, che non ha mai saputo apprendere né padroneggiare, un gesto che lo priva della parola rendendolo estraneo a suo padre forse più che la (terribile) sentenza consegnatagli dal nonno: “E tu non eri neanche là”.

A riallacciare per lui una possibilità di discorso è la cugina della madre. Risiede a Genova, ha accompagnato i genitori nell’ultimo viaggio della speranza. Ma c’è di più, perché questa cugina “parla le lingue, ha lavorato al porto, sindacato, camalli, genti straniere con cui comunicare”. La cugina interprete riapre per Dario il canale della comunicazione: “Ci guardiamo, lei e io, in silenzio. Poi lei mi dice che lui mentre moriva ha detto: ‛Salutatemi Dario’”.

Invernale mi ha ricordato un testo molto diverso, sia per materia che per intenti, ma che mostra una zona di similarità nell’attenzione per il linguaggio e i diversi piani in cui esso si manifesta. È Libera nos a Malo, di Luigi Meneghello: “Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua”.

In Invernale il dialetto non compare – non ci è dato sapere se Gino lo parlasse, e con chi –, e compare di rado anche il discorso diretto. In realtà, questo è vero solo in apparenza perché “le croste delle parole in dialetto”, la lingua “incavicchiata alla realtà” è, nel romanzo di Voltolini, la lingua del corpo – come si è visto – una lingua corporale. La lingua di Gino Voltolini, lingua paterna.

Voltolini ci consegna un inverarsi progressivo del padre attraverso la lingua. Lo consegna a sé stesso, in prima istanza, prendendo la parola nel finale con un “tu” finalmente riguadagnato: “Solo questioni di fondamentale importanza, penso che tu mi capisca”. Attraverso lo sforzo mnemonico e perciò stesso inventivo che la scrittura richiede, Voltolini è approdato infine a un linguaggio comune: eloquente come la parola profetica, carnale come un’eucarestia. Verrebbe da dire, una “lingua padre”.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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