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Si levano i morti

di Massimo Parizzi

Su La memoria delle piante, di Velio Abati, Manni Editori, 2023

“Si scopron le tombe, si levano i morti; / I martiri nostri son tutti risorti.” Benché per gli inni, specie patriottici, provi in genere avversione, questi primi versi dell’Inno di Garibaldi mi hanno sempre convinto e commosso. Perché è vero: i “martiri” possono “levarsi”, se chiamati dal presente o dal futuro; sono sempre lì in muta attesa, o muta finché non li si ascolta. Ogni epoca, comunità, gruppo umano sceglie i propri. Come sceglie i propri eroi. Anche per la cancel culture provo in genere avversione, ma non quando, per esempio, negli Stati Uniti si chiede che le statue di Cristoforo Colombo siano abbattute. Una statua rende omaggio a un eroe e lo “scopritore” dell’America, si obietta, non lo era. In effetti, era un farabutto e un uomo meschino.

Ci sono, in questo romanzo, martiri ed eroi? “Chi cerca di parlare dalla riva di chi voce non ha”, avverte l’autore, deve evitare “la postura umiliante della vittima” e, nello stesso tempo, “l’esaltazione della vittima”. Niente martiri ed eroi, quindi: soltanto morti che, scrive Abati riferendosi alla storia recente, ma vale anche per la storia meno recente, “non sono scomparsi. Assiepano discreti le nostre piazze, vegliano le nostre stanze, sanno che qualcuno li ascolta”. Morti che in questo romanzo sono tornati: “Dunque sono tornato” sono le parole con cui inizia, e “dunque siamo tornati” quelle con cui quasi finisce. Chi è tornato, da quale passato, e da dove?

Iniziamo dalla seconda domanda: quale passato? Gli ultimi decenni del XIII secolo, i primi secoli dopo Cristo (forse la fine del II), il XX e XXI secolo, la seconda metà del XVI. Queste le epoche più o meno identificabili, e bastano per farsi un’idea di quanto la memoria delle piante sia a lungo termine. I luoghi, invece, sono quasi sempre gli stessi: Grosseto, il grossetano e la Maremma, dove l’autore è nato e vive, con puntate a Siena e nel senese e forse in Puglia, nel brindisino. E più o meno simile è lo status sociale della maggior parte dei protagonisti: contadini.

Contadini che si trovano di fronte, negli ultimi decenni del XIII secolo, a cardinali che incitano alla crociata e al “fracasso sinistro del ferro e degli zoccoli” di armati che irrompono nei campi e li devastano; o, nei primi secoli dopo Cristo, alla peste, a padroni che dividono famiglie, a scorrerie di “uomini dalle lunghe barbe”; o, nella seconda metà del XVI secolo, a “ruberie e ammazzamenti” da cui scappano per arruolarsi; o, nel nostro tempo, contadini immigrati “neri, bianchi, asiatici” sfruttati da caporali e padroni.

Un contadino immigrato è Camara ed è per lui che, forse, il romanzo si sposta in Puglia, nel brindisino. Scomparso, suo fratello l’ha cercato ovunque, frugando “tutti i cespugli e i mucchi di rifiuti. Ma la sua bicicletta non c’era”. Ha chiesto di lui ai suoi compagni di lavoro e a due caporali, ma da questi ultimi ha ricevuto solo risposte sprezzanti. Lo trova infine “alla proda d’un fosso, dove Mario”, un caporale, “l’aveva buttato, con gli occhi ancora spalancati”. Non lo so, ma non è escluso che scrivendo questo capitolo Abati pensasse a Camara Fantamadi, 27 anni, del Mali, che il 24 giugno 2020, dopo avere lavorato per sei euro all’ora nei campi sotto il sole a una temperatura di quaranta gradi, stava tornando, anche lui in bicicletta e anche lui dal fratello, a Tuturano, nel brindisino appunto, e crollò prostrato sul bordo della strada. “Martiri” ed “eroi” o no, mi piacerebbe che Tuturano gli dedicasse un monumento.

Ma, oltre a contadini, fra i protagonisti di questo romanzo si trovano ragazzini che vanno “a garzone”, scolari e scolare, studenti e studentesse, boscaioli portati via per renitenza alla leva da uomini “con il moschetto”, donne in rivolta contro i “birri”. E, in diversi momenti, a prendere la parola è l’autore stesso: a volte autobiograficamente, per ricordare il padre, una visita a una mostra d’arte contemporanea, il passaggio di un corteo, il Sessantotto; altre per ragionare di verità e libertà, di “identità e temporalità” e della “stratificazione di tempi” nell’essere umano, cioè anche di questo libro.

Fra le parole che ricorrono spesso nel romanzo vi sono “sapere” e “silenzio”. Il bisogno di sapere (“davvero non sapere niente?”), lo stupore di sapere (“quale prodigio è questo mio sapere?”), “la fatica di dover sapere”. E nel silenzio il romanzo inizia (“il silenzio è ora completo”) e finisce (“il grano cresce silenzioso”). Quale il rapporto, se c’è, fra sapere e silenzio? La risposta più facile è che il sapere richiede ascolto e l’ascolto richiede silenzio: “Fermarsi. E ascoltare” è l’invito che rivolge a se stesso, ma sembra rivolto a noi, un personaggio. Che tuttavia subito aggiunge: “I silenzi non sono innocenti … sono la linfa della tua sottomissione”, perciò “raccòntati con gli altri, per capire con loro chi siamo”. C’è silenzio e silenzio, dunque? O, piuttosto, il silenzio che l’ascolto richiede cessa non appena l’ascolto ha inizio? Perché l’ascolto rivela che “non c’è silenzio”: “Quando ogni voce umana, come ora, è svanita” affiora “il soffio lieve del pino”. E quando sembra che “dai corpi degli olivi, dal folto dei grani” non provenga nemmeno “una cicala” o “un filo d’eco” e “nemmeno il mio grido esce di bocca”: “Sbaglio” si dice un personaggio. «Riconosco, riconosco – ah, quanto struggenti – le note sincopate. … Da dove, quel suono prorompe?”

Un personaggio, ho scritto, perché non sempre è facile capire chi parla, chi è a dire “io”, né da che epoca venga la sua voce, né da dove. Accade, per esempio, che un capitolo ambientato nei primi secoli dopo Cristo termini con parole riprese all’inizio del capitolo successivo, ambientato nel XX secolo. Ma che la fine di un capitolo sia ripresa all’inizio del successivo accade più volte, come accade che un capitolo termini con domande cui l’inizio del successivo sembra rispondere con un “eppure”, un “invece” o altre domande. E che dei personaggi, Celso, per esempio, o Renzino, si ritrovino a pagine di distanza, ma senza che si possa dire con certezza che sono gli stessi.

Ma non importa. O meglio, è proprio questo che importa: questo passarsi la voce, questo trasmigrare, questo infiltrarsi, questo mescolarsi, che fanno delle voci che risuonano nella Memoria delle piante una voce collettiva e, nello stesso, voci individuali. E di epoche remote, vicine, attuali, quasi la stessa epoca: “Sento intima la mano che verga incerta sulla roccia il cervo propiziato nella caccia.” Quindi “non ha il tempo un suo ordine, per quanto terribile? Non c’è un inizio e una fine a stringere per sempre un solo sviluppo?”. A queste domande del romanzo, il romanzo stesso sembra rispondere: no, non ce l’ha, non ci sono.

Non ce l’ha e non ci sono perché, scrive Abati, «c’è un’altra memoria»: la “memoria delle piante, delle rughe della terra”, quella, si legge nella stessa pagina, cui “alludeva” “l’intellettuale che, in punto di morte, ha dettato che la vera eredità non è nei suoi libri o nel suo insegnamento, perché verranno dimenticati, ma in quanto in meglio della vita ha cambiato intorno a lui”. Tuttavia, è forte la tentazione di dare del titolo di questo romanzo anche un’altra lettura e vedere nelle “piante” i morti “senza nome” e “senza voce” che ne sono protagonisti, sempre pronti a rinascere, germogliare, fiorire, fruttificare, come le piante a ogni primavera, “la rossa primavera”, per concludere con un altro inno garibaldino, ma delle Brigate Garibaldi questa volta, del “sol dell’avvenir.”

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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