Respirare e basta
[Questo passo è tratto dal volume Respirare di Marielle Macé, uscito nell’edizione italiana per Contrasto nel 2023.]
di Marielle Macé
Traduzione di Matteo Martelli
Questo libro viene da lontano, da un lungo passato nella respirazione. Viene dai paesaggi avvelenati della mia nascita, da una familiarità con patologie respiratorie che da molto tempo colpiscono certe professioni, certi paesi, certe classi sociali, dagli occasionali attacchi di soffocamento di un’infanzia convalescente, e da un vago amore per tutto ciò che dà immediatamente aria: l’acqua, il mare aperto, la calma, le partenze, i ritorni, la fraternità, la parola vera…
È cresciuto in maniera obliqua, nella reclusione e nella rabbia del lockdown; poi, di filato, in un anno in cui la vita mi ha per miracolo offerto un giardino (un frutteto in pieno sole, a Villa Medici, nel centro di Roma): un giardino condiviso, antico e di nessuno, che non ha soffocato la collera – come avrebbe potuto? –, ma accolto e raccolto le domande, ravvivato le aspirazioni e calmato la voce.
Il libro parla dell’oggi, della nostra asfissia e del nostro grande bisogno di aria, ossia dell’irrespirabile e di ciò che è necessario per respirare. E vuole sostenere quella speranza di respirare che proviamo quasi in modo nuovo ora che l’esperienza intima, anche se impersonale, della respirazione ha acquisito con tutta evidenza una dimensione politica.
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Senza dubbio, oggi più che mai proviamo il desiderio di respirare: respirare e basta, sentire la grazia dell’aria e la certezza del suo arrivo. Basta d’altronde pronunciare questa sola parola, “respirare”, e un intero paesaggio accorre, come sperato, attratto e aspirato dal richiamo della lingua. Si avanza in un oceano già ampio, seguendo la marea leggera dei polmoni: in soffi d’aria, il vicino e il lontano aprono le più piccole porte della pelle dove, come affacciati al “balcone del corpo”[1], l’esterno viene a raccogliersi, in vapore, nella bocca…
Ne proviamo più che mai il bisogno, ne parliamo, perché un’atmosfera in realtà irrespirabile sta diventando il nostro ambiente ordinario. Tutti lo sanno, lo sentono: ci manca l’ossigeno, la salute, la calma, ci mancano i legami veri, la giustizia e la gioia.
La peculiarità di ambienti quasi ovunque avvelenati è ormai pressoché divenuta la nostra condizione naturale; la nostra condizione politica anche, attraversata da violenza e disprezzo; la nostra condizione sociale (o piuttosto, le nostre condizioni sociali così differenti) in un’epoca di barbarie del capitale e di brutalità pubblica; la nostra stessa condizione psicologica: l’affanno che nasce dalle nostre “violente stanchezze”[2], sopraffatti dal lavoro e dal costo dell’adattamento a un mondo in ebollizione. Un mondo in cui le “crisi” si susseguono, rotolano come una valanga senza lasciare il tempo di riprendere fiato e aprire la finestra dei polmoni. – Respirare, in questo senso, sarebbe già una tregua: pausa, “tempo”, rifiatiamo, offriamoci bracciate di sopravvivenza. Si direbbe quasi che ci reggiamo più sulla qualità del nostro fiato che sulle nostre gambe.
È inoltre in termini di respirazione che viene formulata un’esigenza di giustizia sociale, un’esigenza crudamente ribadita in occasione di una pandemia che ha attaccato l’apparato respiratorio e accentuato la distribuzione già molto diseguale delle vulnerabilità. Poche settimane prima della comparsa del Covid-19, George Floyd era morto dopo essere stato soffocato per più di otto minuti sotto il ginocchio di un poliziotto: “I can’t breathe!”. E la protesta del corpo privato d’aria è diventata il simbolo della lotta contro la crescente violenza della polizia, contro un mondo che si brutalizza e vuole fare leva sulla nostra fragilità. Un mondo in cui il respiro è il cuore stesso del vivere, della vita pulsante, il suo cuore organico e politico, e anche il suo slogan.
È allora tempo di affermare, come fece Achille Mbembe all’inizio della pandemia, “un diritto universale a respirare”[3]. E questo diritto a respirare non è “solo” il diritto di ognuno a respirare in ambienti non più inquinati, ma il diritto a una vita respirabile, cioè desiderabile, una vita che valga la pena, una vita a cui davvero tenere. È il diritto ad aspettarsi molto dalla vita (da una vita con, vicino, tra): la speranza di fraternizzare nel respiro, la speranza di disintossicare il nostro quotidiano e respirare finalmente con gli altri. Respirare con, “cospirare”, se si vuole.
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Per respirare, in effetti, occorre aria, ma soprattutto una qualità di legami, di paesaggi, di futuri possibili, e molte altre persone con cui respirare, in cui sperare, le quali possano respirare in noi. Un intero mondo in realtà. Perché respirare non significa solo continuare a mantenere il proprio fiato, nutrire il proprio organismo come se vivesse una piccola vita separata. Significa prendere parte a ciò che esiste e far parte di ciò che esiste: prendere l’aria (quella che c’è), lasciarla entrare, porosi e nati permeabili come siamo tutti; e poi restituirla, espirarla, ridarla cambiata al mondo che condividiamo. Partecipare all’insieme della vita, quindi, e contribuirvi. Meglio (o peggio), compromettervisi, in uno scambio che tiene stretti i fili che legano i corpi allo stato reale dell’ambiente in cui vivono.
Il respiro è l’esatto contrario, e in questo sufficiente, della separazione. In modo tale che ognuno sente che con l’aria che espira (l’aria che espira in vapore condensato, rifiuti, ma anche in gesti, atti, e ancora in frasi) contribuisce a produrre quella che viene chiamata “l’aria del tempo”.
Dico “in frasi” perché personalmente è anche la cura della parola e di quel che ci riserviamo l’un l’altro giorno dopo giorno a darmi più o meno da respirare. Il modo in cui la parola si diffonde nel mondo, crea i suoi sentieri tra noi e con tutto il resto, portando aria o inquinando un po’ di più, tutto questo è quanto rende per me la vita respirabile, ossia fraterna, oppure irrespirabile.
Forse in effetti parliamo solo per respirare. Forse parliamo solo perché tutto sia respirabile, in noi e intorno a noi.
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Nella mia fame d’aria, ho trovato in una pagina di Charles Pennequin una proposta perfetta, un incoraggiamento: “Cercare di essere un respirante”[4]. Il punto è proprio questo: non si tratta di darsi da fare per respirare meglio, respirare correttamente, penetrare i misteri di un’intimidatoria arte del respiro[5] – come se dovessimo rieducarci, imparare una lezione, perché incompetenti in fatto di fiato, un po’ bisognosi, mal assortiti, in attesa di un preparatore atletico o di un correttore (ci manca solo questo, dover essere performanti anche nella respirazione!). Ma cercare di essere un respirante, un essere che respira, e dirci che siamo qui per questo, per far esistere tutto questo il più possibile. Anche a costo di rischiare di parlare, pensare, correre, sperare “al di sopra dei nostri mezzi pneumatici”[6].
[1] Antonella Anedda, Dal balcone del corpo, Mondadori, Milano, 2007.
[2] Romain Huet, De si violentes fatigues: les devenirs politiques de l’épuisement quotidien, PUF, Parigi, 2021.
[3] Achille Mbembe, “Le droit universel à la respiration”, AOC, 2020.
[4] Charles Pennequin, La ville est un trou, P.O.L., Parigi, 2007, p. 106.
[5] Pensare di dover respirare meglio è già troppo. Molti di coloro che lavorano col corpo si oppongono all’idea stessa di esercizio respiratorio, poiché l’attuazione della volontà inevitabilmente “interferisce con il libero gioco della relazione con l’ambiente che prelude all’avvento del respiro”, Hubert Godard, Une respiration, Contredanse, Bruxelles, 2021, p. 7.
[6] Devo questa formula a Cécile Mainardi.