Lei e Anne
di Ilaria Pamio
“…ogni tanto socchiudeva gli occhi
per non perdere il contatto
tra il sogno e la realtà”
(Palazzeschi)
La barista si spostava da una parte all’altra, presa com’era tra le macchinette del caffè, del cappuccino, della cioccolata. Attendeva che i beccucci fossero incandescenti, prima di metterci sotto la tazza.
«Cosa le porto?»
«Una cioccolata.»
Sylvia continuò a tener d’occhio l’uomo calvo: indossava il solito soprabito a scacchi rosso e grigio. Dalla manica sbucava il polsino blu del maglione. Compieva gesti lenti. Aveva lisciato con le mani la tovaglietta; disposto la tazza centrale davanti al suo viso; messo in ordine le bustine di zucchero nella vaschetta.
Sylvia aprì una bustina, la scosse e la versò nella cioccolata appena arrivata. Mescolò e soffiò, bevve facendo attenzione a non scottarsi. Adocchiò ancora l’uomo. Stringeva con la mano destra il bricco del latte. Lo versava lentamente, fissando la tazza del caffè. Il liquido uscì fino a bagnare la tovaglietta. Aveva una rosa tatuata sul capo.
Sylvia lasciò i soldi sul bancone e si diresse all’Hotel Oblique di cui era erede.
La facciata aveva un colore fiacco per la luce invernale: si presentava come un austero viso allungato pieno di occhi, alcuni socchiusi, che la osservavano.
Sentì un dolore forte al piede sinistro. Un filo di metallo incandescente salì fino alla coscia, la scosse dal bacino, percorse il gluteo, scese lungo il retto femorale e il ginocchio vacillò.
Il cuore le stava uscendo dal petto. Si sedette sulla vecchia sdraio del nonno vicino all’ingresso e chiuse gli occhi.
Pensò al mare. Il bar del Beppe con l’altalena di legno, i cabinati, il calciobalilla e i ragazzi grandi con cui lei e Anne avevano giocato.
«Oggi è il più bel giorno della mia vita, papà» aveva detto Anne. Lo diceva ogni volta. E Sylvia ogni volta si sentiva felice. Perché se Anne era felice, lo stomaco diventava caldo e irradiava benessere in tutto il corpo.
Ai bagni del Beppe gli ombrelloni rossi erano in file perfette da dieci. Il vicino, amico di famiglia, era sempre solo. In quel momento lo era anche Sylvia.
«Vieni qui, ho un regalo.»
Lei si avvicinò e lui le disse che era molto carina. Era proprio una bella bambina.
Sylvia abbassò un pochino la testa, lo sguardo rivolto al dorso dei piedi, e la sua bocca sorrise. Lui le raccolse una ciocca di capelli dietro l’orecchio, il dito tiepido toccò appena la guancia e il sorriso di lei si allargò. Le piaceva sentirsi dire che era bella. Poi lui rovistò nella sacca della Coca Cola, infilò tutto il braccio.
«Era qui, un attimo fa.»
Eccola: una rosa bianca con un gambo lunghissimo. L’uomo era inginocchiato sulla sabbia, un braccio piegato dietro la schiena, con l’altro gliela porse.
Sylvia rimase incantata da quel gesto, non prestò attenzione alle grida, né alle persone che correvano verso riva, incluso il vicino.
Lei, come ipnotizzata, stringeva la rosa. La prima della sua vita.
Riaprì gli occhi e guardò davanti a sé. L’Hotel Oblique ora aveva una luce diversa. L’immensa vetrata obliqua era più luminosa. La gabbia creata dagli infissi, che prima dava forma a dei triangoli scaleni, aveva cambiato intreccio. Sylvia fissò le porzioni di vetro: il cielo si specchiava nei rettangoli.
Lo stomaco si arrotolò su se stesso. Le succedeva quando era agitata. Coliche fortissime e improvvise. Si alzò di scatto. Tolse velocemente il cappotto e lo abbandonò sulla sdraio.
Appena entrata nell’Hotel guardò fuori da una finestra: c’era un punto, in fondo, in cui si vedevano solo rose bianche. Il cuore in petto correva talmente veloce che non lo sentiva più.
Conosceva tutte le camere alla perfezione. Erano trenta. Le avrebbe distinte anche senza il numero all’esterno; ogni giorno le rassettava una a una: ne conosceva ogni crepa sulle pareti, ogni piastrella scheggiata. Erano vuote, in ordine, pulitissime, odoravano di chiuso, di cassetti colmi di naftalina e di muffa. In ogni piano erano esposte fotografie a tema. Al primo c’erano le foto dei nonni; al secondo le foto di lei e Anne; al terzo i genitori da giovani. Sylvia percorse tutti i corridoi dei tre piani, come ogni giorno, poi prese le scale per raggiungere i sotterranei.
Il rumore si fece via via più intenso. Avvicinò il viso al vetro della porta e vide, lontana, l’acqua ondeggiare impetuosa. Entrò.
Il pavimento era coperto dalla sabbia, vicino alla piscina c’erano una fila di dieci ombrelloni rossi e le sdraio. Sotto un tendone c’erano poi un vecchio calciobalilla, dei cabinati e una tabella di gelati Eldorado.
Sylvia si slacciò le scarpe e tolse le calze. A contatto diretto con la sabbia sentì freddo, provò un fastidio che somigliava al dolore. Poi si tolse i pantaloni, il maglione, la maglietta.
Sedette su una sdraio. L’uomo calvo sotto l’ombrellone accanto la guardò, le sorrise e si avvicinò a lei. Quando furono uno di fronte all’altra, le passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Lei abbassò lo sguardo. C’era profumo di salsedine, in piscina si intravedevano ciuffi d’alga e piccoli pesci marini. L’uomo calvo le porse la rosa bianca col gambo lungo. Lei gli sorrise.
Intanto una ragazza con un seno acerbo in un reggiseno rosa, i capelli a caschetto neri come i suoi e un braccialetto al polso identico al suo sprofondava in acqua. C’era silenzio.
Sylvia lasciò la rosa accanto alla sdraio e la raggiunse. L’uomo calvo rimase fermo a guardare, a bordo piscina. Si passava una mano sulla testa tatuata, sulla rosa. Sylvia aumentò la bracciata, i pesci le nuotavano attorno. Nuotò giù, fino in fondo, rasente il pavimento della piscina. Riemerse con la ragazza.
Anne, o chi per lei, respirava ancora.