Gli Appesi

di Nicole Trevisan

Quello nuovo si china per passare dalla porta come se per tutta la vita fosse passato attraverso spazi troppo stretti e per abitudine innescasse una contrazione di spalla e braccio, ritirando la testa in una gobba. È un ragazzo, un altro nato al primo gennaio in un paese che non sappiamo pronunciare. Non ce lo presentano e lui s’inchina senza considerarci. Non soffre il gemito delle vertebre. Avrà ventuno, ventidue anni. Più dei diciotto dichiarati – l’unica certezza.
Sulla sua faccia domina un annoiato strabismo e l’irritazione di scoprire la sua futura compagnia è macchiata di fame; chissà quando è stata l’ultima volta che ha avuto un pasto decente. Forse è malato di cirrosi o di qualcosa al fegato, allo stomaco. Molto giovane, troppo giovane per ritrovarsi al Due Palazzi, per rannicchiarsi tra noi, in questo cerchio di muti che lo fissa. Controlla i polsi, le sbucciature come morsi, è la prima volta che gli slacciano le manette.
Allude alla guardia che lo spinge all’interno con un’accusa tutta storta e fatta di ciglia, non apre bocca. Poi valuta le possibilità di fuga, cercandola alle sue spalle: tutti ci cascano, vittime di una speranza ridicola.
Quando lo lasciano con noi, in piedi, sostiene una guerra di posizione: quale branda, quale angolo, chi starà di più sul cesso. Per salutare, sfila una mano e la mostra al fianco, ossuta ed estesa. Un disarmo inutile, che dura minuti di gorgoglii dalle nostre gole, non lo conosciamo, non lo vogliamo, siamo troppi e non c’è aria. Terzo letto, il più in alto, gli diciamo. Lui non ci sente. Si siede, gratta uno spazio contro il muro. Con le dita compone un ponte sotto il mento e da lassù valuta in silenzio i tempi morti che vorrebbe restassero morti. Costruisce l’attesa di chi parlerà ancora, senza fretta: chi sei, da dove vieni, come mai. Ha mani colpevoli di cui non si vergogna, quello lo mette in chiaro. E sfondando le nocche con la faccia, guarda fuori; corre oltre la feritoia, tra le sbarre, fino alle cime oblique dei tetti, e sfida l’eternità celeste che ci sorveglia.

Qualcuno lo avvisa anche in francese, rimani in gruppo. È l’ora d’aria e deambula su giunture calcificate, ha pennellate di blu lungo le braccia e fa come se annuisse alla spianata del cortile. Non a noi. Ci passa accanto, lo guardiamo muoversi, fendere il vento che ci separa; capace che se nasceva qua gli facevano fare qualche sport, la corsa o il salto, pallacanestro o nuoto; adesso è tardi, ha un corpo che non si plasma più, sembra che scricchioli, da quella struttura cadente ci aspettiamo il fragore della caduta e la polvere dietro ai calcagni delle guardie che lo raccoglieranno per trascinarlo in infermeria. Non ha detto una parola, non l’abbiamo visto dormire. Oltre la finestra scorre l’orbita del sole, pensando di doverne sopportare sette, dieci al massimo. La conta lo illude del controllo sulla sua condanna. Sono due giorni che finge di non esistere.
Smette di camminare e ancora scruta il quadrante del cielo mappando una direzione. Se ne sta dritto, piantato a terra, racchiuso tra noi che giriamo in tondo, traffichiamo, gli parliamo addosso e lui si ostina a cercare qualcosa che sia fermo, che resista all’incertezza del tempo che dovrà passare qui.
Quanto, quanto. Le nostre voci sono un canto, ci raccontiamo poco, ci respiriamo addosso la noia: questo posto si disegna a sbarre, in pochi hanno tracciato un filo teso posandoci sopra le anime, sospese nell’incertezza della caduta o della fine, claudicando verso la cima opposta. Ogni passo dura un giorno, un mese o un anno, scritto su carta firmata e vidimata. Talvolta si ricomincia. Tempo di attesa, silenzio, meritata prigionia. Il filo trema se ci chiediamo troppo forte quanto, quanto, e la testa non ci regge, il fiato si accorcia in gola, le vene si gonfiano nei polsi. Smettiamo di dormire, preghiamo che ci portino fuori, di parlare con uno psicologo che non capiamo, un avvocato che ancora meno, un familiare o un amico, che ci facciano piantare chiodi sulle pareti di un asilo, sbucciare patate per studenti collegiali, imballare pasti pronti. Qualunque cosa pur di staccarci da questo cerchio che ci costringe a vedere la nostra faccia in quella dei compagni.
Sulla branda, il ragazzo non ci è mai salito. Sulla tazza del water sbriga la faccenda in un paio di minuti, arrotolando i pantaloni sulle cosce, arroccandosi tra i gomiti, consapevole di essere vulnerabile: le leggende qualcuno deve avergliele raccontate, fuori; ora scopre che sono vere. Non si fida a rimanere col culo scoperto ma non vuole farsela sotto, su quello ha ceduto.
Ridiamo di lui che ci ignora, ci odia, ci fa arrabbiare. Vogliamo che sieda con noi, che sia al sicuro. Trascorre il tempo in cella sul pavimento, a ogni ora della notte e del giorno lo troviamo a occhi aperti. Tre giorni e nessuna parola. Quando mangia, gli cerchiamo la lingua tra i denti. È al suo posto, sembra anche intera. Mastica poco, non lascia nulla. Non ha capito che non può essere il primo ad alzarsi: glielo diciamo piano, più forte, con una mano al petto. Disobbedisce e cerca la finestra, il vetro è bianco, le nuvole ci spingono all’interno.
Non è uno di quelli che vogliono lasciarsi morire, rimanere sveglio è il suo modo di aspettare. Allora, amico, quanto? Glielo chiedo io, mi avvicino e gli tocco una spalla, l’osso mi spinge sul palmo e mi pare sia pietra, nera e lucida di sudore.
Al quinto giorno, il muro lascia una linea di polvere lungo la sua spina dorsale: il ragazzo scivola giù e non se ne accorge: dorme, è svenuto, deceduto? Dietro la sua fronte il tempo si accorcia e noi lo svegliamo a schiaffi e nessuno viene a fermarci. Lo facciamo per lui. Dietro le palpebre, gli occhi sono biglie rigide e infiammate, glieli apriamo con le dita, ci premiamo un pollice e lui si raddrizza, traballa e ci fa paura da quanto è alto. Lo abbiamo infastidito con le nostre mani sporche e lunghe, i nostri schiamazzi che godono che abbia ceduto al sonno e sia umano come lo siamo noi, disgraziati che altrove avrebbero passeggiato incontro alla forca, condannati a essere appesi. Che sia al tempo, che sia alla corda.
Il viso del ragazzo non si riconosce, è gonfio e pulsa, dell’insonnia e del male che gli abbiamo fatto, ma quando scatta in avanti capiamo che non crollerà e dentro al suo abbraccio c’è il collo di qualcuno, un’altra faccia gonfia, che pulsa e gli somiglia tra vent’anni. Stringe, lo attacca al petto come un pupazzo, un fratello caduto. Pesa, scalcia e lui non lo lascia. Solleva il mento, l’occhio gli si infila tra le sbarre e la notte gli parla, purissima evanescente, l’ascolta. Lo ammonisce con la fermezza di una madre e a lei cede, il collo del compagno scivola dall’incavo del gomito e quello torna a respirare, due mani e due ginocchia e la fronte al pavimento. Fuori, nessuno se n’è accorto. Ora siamo noi a tacere.
Ci guarda e ci riconosce, ancora non le nasconde le mani, non gli chiediamo quanto, quanto e nessun nome, strisciamo indietro e ci ritiriamo perché lui è un’ombra e una lancia. In basso, il compagno che è stato preso tossisce, ha un grumo di catarro rosato che gli sboccia sulla lingua, lo sputa nella manica e noi lo dimentichiamo, sconfitto come capita.
Il ragazzo, lento, torna contro il muro. Chiude gli occhi e si riaddormenta. Ha il volto piegato per non sentire la notte che lo fissa, l’aria nera chiamarlo dalla finestra. E noi, che adesso sappiamo che ha capito, che aspettiamo con lui la fine. Ora lo sa, che è come noi. Dormiamo tutti.
Il mattino dopo, è il sesto giorno. Il ragazzo è entrato nel cerchio.

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2 Commenti

  1. Un racconto potente, con una prosa semplice ma dall’inventiva capace di prendere a schiaffi. Un’ottima dimostrazione di capacita narrativa. I miei complimenti all’autrice.

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