“Il ritorno di Hartz” di Osvaldo Lamborghini
La collana Biblioteca di poesia, diretta da Massimo Rizzante per l’editore Metauro, è dedicata a rendere accessibili in Italia alcune delle maggiori voci della poesia internazionale ed europea in particolare. In questi anni sono uscite prime antologie di autori inediti in volume, quali il ceco Jan Skácel, il brasiliano Haroldo de Campos, il polacco Tadeusz Różewicz, lo spagnolo Jan José Ángel Valente, il francese Jean-Jacques Viton, il catalano Gabriel Ferrater. Presentiamo qui un estratto dall’antologia del poeta argentino Osvaldo Lamborghini, seguita dal saggio che chiude il volume del romanziere e critico argentino Alan Pauls.
di Osvaldo Lamborghini
traduzione di Massimo Rizzante
PROSA SPEZZATA [estratto] 1 Se c’è qualcosa che odio è la musica, Le rime, i giochi di parole. Sono di una certa generazione. La morte e la vita se ne stavano In un quaderno a righe: La morte e la vita, Il maschile e il femminile, Gli orgasmi senza patria E gli organi da parte a parte, prendevano la forma di un bersaglio. Appunti, appunti, appunti. Amputa, La “rocca” della maledizione. È mattino su questo bricco d’argento E già dall’inizio c’è uno sguardo di troppo: Sono di una certa generazione. Ma prima ce n’era un’altra. Prima di me e della mia, E quella di letteratura se ne intendeva Tanto che non avevano bisogno di accusarsi troppo L’un l’altro (o molto) o molto Per scoprire la verità. Sono di una certa generazione, Oh vita – l’idiota della pubblicità. Quei progenitori sono stati liberi. Di una tale libertà, Di una stupidità oggi quasi Impossibile da cogliere, gravitano come nostri modelli. Noi, quelli più lucidi. Sono di una certa generazione. C’è bisogno di metodo. La noia della vita d’albergo Come una semplice svolta lungo la strada. È pomeriggio in questo manoscritto, Le ore volano. Dopo il mate c’è il pranzo, Il caffé in un bar, una breve Passeggiata per il centro, e di nuovo, Di nuovo nel mio nascondiglio. Adesso è pomeriggio, Pomeriggio inoltrato in questa matita, E avanzo per il semplice gusto di camminare Come chi misura il suo trilocale E appoggiato alla finestra... E appoggiato alla finestra fuma. Fumo azzurro, fumo verde, fumo nero, fumo colorato: Non ho restituito il libro che mi hanno prestato E mi piacerebbe perfino rubarlo, Tenermelo per sempre, l’avverbio che sfuma. Garantisco che questi pensieri non sono aggressivi. Sono di una certa generazione, c’era da aspettarselo. Bussano dolcemente alla porta. Sono qui, ridicoli. Sono di una certa generazione. Questo è un verso Abbaia il cane su una superficie rarefatta, Come a dire che non è così orribile la risata dell’idiota Quando immersi nel lavoro ci sfiora con la sua ala. Questo compiacimento nell’errore è il mio marchio di fabbrica, Ma sono di una certa generazione. Alla fabbrica s’impose il Manierismo Protervo, l’occultamento dalle gambe Corte della mancanza di talento, Sebbene per alcuni anni un po’ mi sia divertito. Odio la musica, odio l’arte, odio I miei paradossi in falsetto e la mia voce incoerente. Ma amo: amo il pene il cui volto non posso indovinare nascosto abilmente dietro la maschera [delle mutande E poiché non so decidermi se guardarlo o toccarlo Faccio voti e suffragi. La forma della poesia è una disgrazia passeggera. Perché alcune parti del mio corpo si mantengano vive Devo ricoprirle di cocaina. Disgrazia passeggera, così parlo almeno nel ritmo cercato, Il ritmo arbitrario del progetto senza sostanza, E scrivo come un principiante, un pivello – Alla mia età – «progetto», «sostanza». Generazione, di un’agonia campana sfera di cristallo o legno bianco. Ho sempre mantenuto questa tendenza e inevitabilmente la conserverò [arancio: Appena qualcosa sta per essere partorito, volto la testa, Ma anche quando si nasce alle mie spalle, incrocio le dita. È notte sul color marmo che invade la mano e la peluria. È tempo di chiudere gli occhi, presto ci saranno le prime luci dell’alba. Ma si sono riaperti, tattili, attenti in attesa dell’alba Allora il bricco sul fuoco, la fiamma del gas sulla sigaretta, braci. Sessualmente perfetto e quasi quasi Dio da adorare, Al principio del giorno l’artista non ti dimentica, né ti rima, Perché ogni rima offende: basta che amputi il tuo discorso. Il mattino è pesante come un ammasso di malintesi sull’avanguardia. Prendo un libro e poi un altro, e so già, la curiosità lo fa [senza pensarci Forse, Le Origini della Psicoanalisi, Per le lettere, per il tema, Per essere soddisfatto. Mi sono sforzato di essere sincero, di farmi prendere al laccio. Ho iniziato tranquillamente questa prosa, piangendo per i cavalli dimenticati, Disposto il mio spirito perché non fosse solo uno stato d’animo, Ma qualcosa uccide l’essere che si coniuga E sento che le bianche riserve sono sempre più scarse. Con i baffi radi, appena pronunciati, è racchiusa: L’effigie di mia madre in una foto del mio volto. Il povero zarevič è un falsario. Ed è già mezzogiorno sul pennone di madreperla Che diventerà sempre più sgradevole, più pesante più sessual Mente insoddisfatto, più idiota nelle sue sorprendenti rotazioni Come un volo ad alta quota, con la sua aspirazione sottomarina Più volgare nella sua assurda autolimitazione E più indisponente nel suo orgoglio di cavia. No, non si tratta della fine di un talento, Ma, o piuttosto, del discredito di ciò che c’è dentro. Senza ironia, nel mio mondo morale regno io. Questa intrasingenza allegra è il risultato di un lungo lavoro. Bussano alla porta, spero Sia il medico il visitatore inatteso. L’ospedale come il fiore allettante dell’avvenire. Instancabile, sempre alla ricerca di un “grande” difetto, È molto probabile che io sia di una certa generazione, sebbene [è certo che mi sia isolato Ma per meglio condividere l’idolo gema, e due: Come se allo stesso tempo volessi adorarlo senza testimoni, Crederci e divorarmelo da solo, avendo per caso Lacan come [vicino di stanza. Ormai c’è bisogno di molte domeniche piovose perché la mia pelle si rinfreschi. Per divertimento ho amato una farfalla rendendo onore al fernet, Aria aria, Aria di bilancio senza un soldo e aria di morte che conferma quanto, Considerando che nella cucina dell’albergo la luce non è un fuoco fatuo: Lì trionfa una fiamma tentatrice. (...)
MALEDETTO MITO
di Alan Pauls
Come è accaduto per Rosas e per Evita, sebbene in modo meno pubblico e complicato, i resti di Osvaldo Lam- borghini a un certo punto sono giunti in patria. Questo è il primo significato di Novelas y cuentos I, la prima antologia di Lamborghini pubblicata in Argentina dal 1980, quando Fogwill decise di includere il bellissimo Poemas nel catalogo della sua casa editrice Tierra Baldía.
Alla fine degli anni Ottanta, quando un primo Novelas y cuentos uscì in Spagna, con il marchio Serbal, la lamborghinofilia porteña non sapeva che cosa pensare. Da un lato c’era euforia: l’edizione comprendeva un pugno di inediti a lungo attesi (Las hijas de Hegel, El Pibe Barulo, El Cloaca Iván) e riuniva per la prima volta in un solo volume – e in edizione rilegata! – quello che la comunità lamborghinofila si era già abituata a leggere, anzi a consumare, nelle precedenti edizioni quasi clandestine di Chinatown (El fiord) e di Noé (Sebregondi retrocede), in riviste raffinate ma estinte («Innombrable» pubblicó La causa justa) o in sudicie fotocopie (Matinales, Neibis). Dall’altro, un certo malessere: si era d’accordo nel far uscire il maledetto dal suo nascondiglio e rinchiuderlo in alcune pagine patinate, ufficializzando così, attraverso la dignità borghese del Libro, le ingiurie, la violenza e i grotteschi fantasmi di cui i suoi adepti avevano imparato a godere in sottoedizioni stile fanzine? E si era contenti che la responsabile di tale insperata ascesa sociale del mostro fosse una casa editrice spagnola?
Così è stato. Nel frattempo, tra la morte di Lamborghini nel 1985 a Barcellona e la sua rentrée postuma, è accaduto tutto quello che doveva accadere.
Ci sono state due antologie spagnole (Novelas y cuentos e Tadeys) e un libello-oggetto d’arte cofirmato da O. L. e Arturo Carrera (Palacio de los aplausos pubblicato da Viterbo); ci sono stati articoli, interventi, tesi; c’è stato un cer- to “travaso” di lamborghinismo in regioni non letterarie della cultura argentina (il teatro di Ricardo Bartis, la lirica di Patricio Rey, l’immaginario di Fito Páez); c’è stato un esecutore testamentario geniale (César Aira, che ha scritto la prefazione dei due libri usciti da Serbal, che ha scritto la postfazione di quelli usciti da Sudamericana e che perfeziona ogni giorno di più la sua missione di “nobile doppio” del morto) e c’è stato un guardiano di buona memoria (Germán García, che ha scritto la postfazione all’edizione originale de El Fiord e nel 1986 ha pubblicato La intriga de Osvaldo Lamborghini – poi raccolta, con altri documenti, in Fuego amigo nel 2003 – una severa biografia del «populista oligarchico» con cui aveva rotto le relazioni nel 1975), e, qualche anno fa, c’è stata una monumentale biografía di Ricardo Strafacce dove si racconta tutto, ma proprio tutto, del nostro artista (Mansalva, 2008).
«Così è stato» significa: Lamborghini il Maledetto è or- mai un Maledetto Mito. Una vita errabonda e una morte triste e lontana lo hanno reso un mistero che un esecutore testamentario fedele e un pugno di detrattori “risolvono” impallinandosi a vicenda con le loro contraddittorie interpretazioni: i «modi aristocratici» e la «severa cortesia» (Aira), la «malafede» (Masotta) e il «cinismo» (García). E meritare il contradditorio degli altri – meritarlo post mortem – è il modo più classico di essere un mito.
A chi credere? A Aira, che vede in Lamborghini un ca- valiere gentile, un fondatore, un artista della perfezione? A
García, che lo descrive come un manipolatore, un picco- lo borghese impaurito, una vittima dell’Antiedipo? Lamborghini è morto, morto e pubblicato finalmente qui, in Argentina, spuntano ancora molte delle voci sociop- sicotiche che esplodono nei suoi testi. Non è questa una buona ragione per passare dal credere al leggere? Io, da parte mia, confesso che entrambe le versioni ufficiali mi ispirano letture leggermente diverse: quella di Aira, che ha saccheggiato l’opera di Lamborghini, la leggo come una variante peculiare dell’autoritratto (l’autoritratto di Aira); quella di García, che ha saccheggiato la sua vita – o il suo romanzo famigliare –, come una lettura particolarmente perspicace del dispositivo retorico della sua opera (l’opera di Lamborghini).
Ho incontrato personalmente Lamborghini una sola volta, una mattina, in una piccola libreria di Avenida Santa Fe, e quello che ricordo di più di quell’incontro è la sua mano molle e umida. È quel che mi è rimasto di tutto ciò che Lamborghini era, è e forse continua a essere: una let- teratura.
Nella sua opera assistiamo al dispiegarsi di un’esperienza che sempre di più ci stiamo abituando a coniugare al passato: l’esperienza di una sovranità letteraria brutale, che fa della lingua – qualcuno oggi si ricorda, per le opere in prosa, di ciò che va sotto il nome di lingua? – qualcosa di estremamente opaco, tattile e biodegradabile come un corpo, e dello scrivere un proceso quasi chimico nel qua- le “narrazione”, “poesia”, “saggio”, “fabulazione”, “per- sonaggi”, “intreccio”, sono il prodotto di accumulazioni, precipitati, coagulazioni che si ergono sempre davanti ai nostri occhi, vivi.
Il passaggio repentino è il gran meccanismo e allo stesso tempo il gran tema della letteratura di Lamborghini: il suo trasferirsi improvviso dall’informe al racconto, ad esempio, dalla quantità alla qualità, dalla poesia alla prosa, dal fuori al dentro, e anche quello sfoggio di rapidità che consiste nell’abolire tutto ciò che c’è tra due punti, non un semplice salto, ma piuttosto un assalto: «filmare direttamente sullo schermo», «fare di necessità virtù e della prosa verso», «pubblicare quello che non scriverò mai…».
Leggiamo Lamborghini e abbiamo la sensazione – nel piacere, nella grazia, nel rifiuto, e anche nel tedio che com- porta la lettura della sua opera – che la letteratura, per un momento, torna a essere un Tutto: il nome più alla portata di mano che abbiamo per nominare il paradiso e l’inferno.