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In fondo al tunnel

di Roberta Spagnoli

Jonny scende alla stazione di Lentisco. Odore di candeggina e caffè.

Proprio come 30 anni fa, pensa. Qui non è cambiato niente. A una prima occhiata, nemmeno lui pare cambiato. Jeans lisi, zaino di tela grossa. Soltanto più curve le spalle, e non per il peso dello zaino. Allora lo riempiva di pagine e volantini in ciclostile. Ora solo una fotocopia: quella del permesso di libertà per un giorno. Stasera dovrà tornare là dentro. Ma è appena mattina, adesso. E fuori c’è il mondo, il suo mondo, continua a ripetersi piano, per darsi coraggio.

Per uscire c’è il sottopasso. E’ obbligatorio. Questione di sicurezza.

Una volta tutti correvano sui binari, appena scesi dal treno, fidandosi del semaforo rosso all’imbocco della galleria. A volte si sacramentava, trascinando valigie e pacchi tra i ciottoli della strada ferrata. Anche adesso c’è chi fatica, con i bagagli pesanti, su e giù dalle scale puzzolenti di ferro e di piscio. Per fortuna il mio bagaglio è leggero, pensa, ma fatica comunque a portarselo dietro e prova a sfilarselo, quello zaino, forse su una spalla sola pesa meno.

Subito fuori dalla stazione, alla sua destra, trova la galleria della vecchia linea ferroviaria dismessa e abbandonata. Adesso è un tunnel pedonale illuminato con i colori del mare, un tuffo nel blu di luci azzurrate che simulano le profondità: la prima attrazione turistica di Lentisco. La prima e l’unica, pare.

Di nuovo al sole, Jonny ritrova il suo paese, fatto di sassi grigi e muri stinti. Riconosce ogni ciottolo sconnesso, i tombini, i buchi sull’asfalto bagnato di fresco davanti ai portoni, le vasche di basilico sui gradini delle case; le bottiglie di plastica tra i vasi, per tenere i gatti alla larga.

Identica anche Santa Maria. Fa per sedersi sulla gradinata; ma sarebbe l’unico in tutta la piazza seduto come un mendicante. Rinuncia. Poi le ginocchia, quelle fanno male a piegarsi e soprattutto a rimettersi in piedi. Pensare che ci si passavano i giorni e le notti su quei gradini; a parlare, a fumare, a litigare. A volte anche muti, ognuno dentro la propria rabbia, ché sembrava non si potesse cambiare niente fino a che i vecchi non si fossero tolti di mezzo; ma quelli non mollavano: la resistenza, la liberazione, l’antifascismo… e intanto noi eravamo in mezzo ai fasci all’università, in fabbrica, tra le bombe che nessuno si azzardava a chiamare per nome.

Gli sembra di essere ancora lì, nel tempo di prima, a ridere e bere wodka lemon al bar di Antonio. Antonio che lo aveva riportato a casa a braccia quella volta, la maglietta sporca di vomito e sudore e ancora voglia di ridere a sentire le sue bestemmie a mezza voce. Chissà come sarebbe stato, se fosse andato tutto avanti così, a birra, vodka e gin.

Dopo, invece, solo caffè. Caffè per tenere i nervi saldi di giorno, per stare pronto a scappare di notte; caffè per sopportare la paura sotto la luce gelida dei neon 24 ore al giorno. Luce fredda che tiene sveglio l’orrore, dicevano loro, dall’altra parte delle sbarre.

Oggi però niente caffè; magari una coca da Antonio, tanto mia madre può aspettare, c’è un giorno intero di tempo per andare da lei.

Scende verso il chiosco sulla spiaggia. Un patio di legno lucido, ombrelli di paglia; ma il mare dove è; Jonny fissa un punto indefinito e non sa.

Antonio saluta come si fa con gli sconosciuti, che non sai ancora se consumeranno qualcosa o se soltanto chiederanno le chiavi del bagno. Sembra diventato suo padre. O forse questo è suo padre; rimasto identico da trent’anni: stesse braccia ossute, stessi baffetti bianchi; secco come un tronco spiaggiato. A Jonny comincia a girare un po’ la testa: E non è la Coca Cola.

Non parla, non chiede, non dice. Nessuno lo riconosce. Forse dovrebbe presentarsi: sono il figlio di Pietro, nome di battaglia Walter; oppure sono Jonny di Margherita, la farmacista. Chi se li ricorda i suoi ormai… forse nessuno saprebbe identificarlo nemmeno come Giovanni Rossi, il compagno, il brigatista, il dissociato, il detenuto.

In fondo al molo riconosce i pescatori, quelli del paese. Pochi a dire il vero, che è già tardi per stare sulle barche se non c’è da prendere il largo. Uno, il più vecchio, in disparte a pulire le paranze.

È Giovanni, l’uomo cui Jonny deve il nome. Comandante di brigata, segretario di sezione, coordinatore del sindacato. Una volta pescatore; adesso solo addetto alle reti, a quanto pare. Le mani nodose che conoscono la trama anche senza guardare, lo sguardo che sa, anche sotto le palpebre afflosciate. Giovanni fa un piccolo cenno con la testa: Jonny capisce che l’ha riconosciuto.

“Sei andato a trovare tua madre?”

“Vado ora”.

“Vengo con te”.

Insieme si incamminano lungo il carrugio con lo stessa andatura stanca anche se tra loro ci sono almeno trenta anni di passi.

Salgono lungo il sentiero stretto che corre a mezza costa tra ginestre e agavi. È poco frequentato, perché non porta da nessuna parte: si avvia verso la spiaggia senza raggiungerla mai, ché una roccia a strapiombo, improvvisamente, impedisce di continuare il cammino verso il mare.

“L’hai trovata laggiù, vero?”

“Sì, era là, cullata dalla risacca. Si notava perché una scia lunghissima l’accompagnava fino a riva”.

“Una scia?”

“Erano papaveri; petali stropicciati, bagnati, accartocciati. Erano mille papaveri rossi che galleggiavano intorno a lei”.

“Quante volte mi sono chiesto perché l’ha fatto… Lei non sapeva niente di me. Mi mettevo a rischio per farle avere notizie da Genova, come fossi studente regolare; lei non poteva avere sospetto a quel tempo”.

“Alle madri non serve avere sospetto. Le madri sanno”.

“Lei non poteva sapere, nessuno sapeva: era l’inizio del ‘76 ero in clandestinità da tre mesi, e nessuno sapeva”.

“In ogni segreto c’è sempre un nessuno di troppo. Dovresti averlo imparato, nella tua guerra di tutti questi anni”.

I miei occhi abituati al neon della cella non reggono la luce del mare, il colore dei papaveri, il corpo di mia madre cullato dalla risacca. Un groppo in gola. Nelle orecchie continua a martellarmi la parola “guerra”.

Per tanto tempo la parola è stata “lotta”. Era un’idea potente: sembrava un sogno da fare tutti insieme. Non è forse questa la rivoluzione, sognare tutti insieme? Lo aveva sentito dire Jonny, lo aveva creduto; poi si era svegliato di soprassalto, e non aveva dormito più.

Giovanni, notoriamente duro d’orecchio, aveva ascoltato in silenzio quei pensieri, continuando a non capire, come 30 anni prima. Ma ormai è troppo tardi, è ora di raggiungere Margherita in cima alla salita del camposanto.

Da sotto, le tombe sembrano vele pronte per la regata. Guardano ogni sera il sole che si butta in mare. Margherita è un po’ riparata, per fortuna, ché a lei il vento carico di salmastro ha sempre dato fastidio e ora le tocca beccarsi anche il libeccio, quando tira forte.

Jonny si guarda intorno. Solo morti, e tutti sembrano morti suoi. Lo sguardo di Giovanni è muto; e non è solo colpa della cataratta.

“E’ stata colpa mia”.

“No. Tu avrai altre responsabilità, ma questa non te la pigliare; lei voleva tornare indietro, ai tempi in cui si lottava per la libertà. Non si rassegnava all’ingiustizia: tua madre era una combattente”.

A Jonny manca la memoria. L’immaginazione fatica a comporre quella figura ritagliata da chissà quale album. Improvvisamente sembra non ci siano più ricordi, né passi da fare insieme.

Giovanni non ha più voglia di parlare.

Non racconta la storia delle armi che lui e Walter avevano nascosto dopo la liberazione nella galleria ferroviaria in ingresso a Lentisco. Non racconta che la linea, dismessa a favore di un doppio binario più a monte, negli anni ‘70 è stata bonificata. Non rivela che le armi non sono state mai ritrovate dietro quell’anfratto vuoto.

Jonny ha attraversato proprio quel tunnel illuminato dai colori del mare tre ore fa e solo ora ricorda come era prima: buio umido e puzzolente. Proprio come la cassa nascosta dietro la parete di sassi e muschio, marcia e pesante di ferri vecchi, caricatori corrosi dalla ruggine, canne otturate. Non chiede dettagli; potrebbe venire a sapere che sua madre si è lasciata cadere da punta piatta proprio un mese dopo il termine dei lavori in quella maledetta galleria.

“Non eravamo certi che tutto fosse finito, dopo quel 25 aprile. Era un tempo strano, non ci fidavamo di nessuno”. Giovanni controlla i passi, per non mettere il piede in fallo tra i sassi e le erbacce. “Era un segreto. Nessuno sapeva, tranne noi tre”.

Il fischio di un intercity, da lontano, si mangia le ultime parole del vecchio.

Sui poggi lungo il sentiero del cimitero nemmeno un papavero; solo sterpaglie bruciate dal vento salato del mare.

Foto di MasterTux da Pixabay

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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