Manca la città
di Leonello Ruberto
Semplicemente non c’era la città. Tutto qui, non c’erano marciapiedi, strade, palazzi.
Non c’erano punti di riferimento, avevo solo un fuoristrada che non ricordavo più in che occasione avevo acquistato, e il navigatore con le coordinate del lavoro impostate dal giorno precedente.
Ogni mattina andavo al lavoro in macchina seguendo una linea blu su uno sfondo verde e facevo su e giù per i campi ondulati, che non sapevo nemmeno se chiamare campi, visto che non erano coltivati. Non erano curati ma ci si poteva camminare, non ci cresceva molto spontaneamente.
Il posto di lavoro non era un vero palazzo o forse lo era, uscivo dalla macchina parcheggiata, probabilmente tra altre macchine o lo davo per scontato con la mia immaginazione, a testa bassa per non farmi bruciare gli occhi dal sole e subito ero dentro.
L’ufficio era come uno dei tanti uffici che avevo frequentato nella mia vita. E anche il ritorno a casa era il ritorno che facevo tutti i giorni.
Mi mancava la città in cui avevo vissuto un tempo, magari troppo brevemente. Ma ormai ero tornato dove ero sempre stato, che non essendo una città non aveva nemmeno un aeroporto né una stazione ovviamente, per cui era complicato allontanarsi sul serio. E poi l’avevo già fatto in qualche modo e se non era andata bene un motivo doveva esserci.
Ogni tanto mi lamentavo con un collega che qui non c’era una biblioteca e non potevo prendere il tram, ma quello mi guardava strano e lasciavo perdere.
Avevo anche ritrovato degli amici di gioventù, mi aveva fatto piacere rivederli, ci vedevamo ogni settimana per giocare a carambola, avevo avuto qualche difficoltà ad arrivare al locale attraverso i campi tutti uguali. Loro che si orientavano da anni a istinto non potevano capire, e mi avevano anche preso un po’ in giro per le mie perplessità, proprio come avrebbero fatto ai vecchi tempi solo che ora era diverso.
Ogni tanto di notte pensavo che mi mancava la città e il suo rumore, che non era di automobili perché quelle c’erano anche qui.
Era di automobili e di tutto il resto, di gente che camminava per le strade. La gente si sentiva anche qui, ma non era la gente di città che passava: erano i vicini noti che andavano e venivano e soprattutto stavano nei loro giardini che presumevano anche delle case a ridosso.
Mi addormentavo cercando di cacciare certe fissazioni, che tanto altrove non mi sarei trovato meglio lo stesso che tutto il mondo è paese.
Un testo breve e semplice, però molto intenso e profondo, al limite del flusso di coscienza: l’estraniamento del cittadino moderno, il quale, invece di desiderare la campagna, desidera la città di una volta, che per quanto straniante aveva ancora un’anima, un aspetto ancora umano. Forse anche perché pure la campagna non è più quella di una volta («[…] attraverso i campi tutti uguali»).