Ci vogliono poveri, Momar
di Romano A. Fiocchi
Andrea Pagani e Alex Moustapha Sarr,
All’orizzonte finisce la terra. Le avventure di Momar Seye, Tempo al Libro, 2022
Andrea Pagani e Alex Moustapha Sarr hanno scritto un libro bellissimo. Bellissimo perché composto a quattro mani: due italiane e due italo-senegalesi. Bellissimo perché il valore del progetto, portato avanti con quindici anni di stesure e di collaborazioni, va comunque al di là del risultato. Bellissimo, infine, perché ne è uscito un testo scritto con leggerezza, di godibile lettura ma intriso di impegno sociale, che si apre con l’aspetto di un reportage per poi rivelarsi un vero romanzo di fantasia, o quasi. Anche un romanzo di formazione, se vogliamo. Evidentemente la scelta della forma ‘romanzo’ e la collaborazione di due autori dalle origini culturali differenti è la formula ideale per coniugare caratteristiche altrimenti in contrasto tra loro, come ad esempio il rigore della ricostruzione storica degli anni Settanta – periodo in cui si svolge la vicenda – con la semplicità quasi primordiale del linguaggio, l’effetto per noi esotico di cibi e bevande come il Pastel fritto, i bicchieri di Bissap, i piatti speziati di Yassa Poulet e di Maffé, con gli squarci nostalgici e autobiografici dei paesaggi e dei profumi del Senegal. Ecco, odori e profumi sono fortemente presenti, tanto che si potrebbe definire una scrittura olfattiva. Ma quello che inizialmente sembra il diario di un migrante romantico, che lascia la propria terra spinto dal desiderio di raggiungere a Parigi la ragazza di cui è innamorato, si trasforma ben presto in un libro di denuncia e in un grido di dolore dei paesi africani. Ed è questo il suo vero significato. A lanciare in prima persona questo grido all’interno del libro è la bella Aby, con parole che lasciano allibito il giovanissimo Momar:
«Momar, apri gli occhi. La crisi del nostro paese non è solo per la siccità».
«E per cosa?» la incalzo.
«Ci vogliono poveri, Momar. Ci lasciano poveri».
«Ma di chi parli? Non capisco».
«Del nostro governo. Dei governi dei paesi ricchi. I paesi europei come la Francia. E l’America. Gli facciamo comodo, se restiamo poveri».
Entriamo più nel merito della struttura. Il romanzo è diviso in cinque parti, o meglio in cinque elementi che rappresentano simbolicamente le tematiche del libro: Etere, Fuoco, Aria, Terra, Acqua. L’elemento “Etere” è una sorta di premessa dove il lettore impara a conoscere Momar Seye, misto di ingenuità, generosità, irruenza e vitalità incontenibile. Una sorta di Zorba trasferito dalla Grecia al Senegal. Con una visione della felicità non dissimile da quella del celebre personaggio di Kazantzakis: «La felicità – dice Momar – è accontentarsi, godere ogni giorno di cose semplici, delle povere cose della natura, un tramonto, un pezzo di pane, un piatto di Pastel, un boccale di birra, il sole, l’acqua, l’odore del porto». Attorno a Momar si muove tutta una corte dei miracoli senegalese, variopinta e un po’ grottesca. Come l’avventuroso Babacar, spaccone e mito dei più giovani, il buon Meut, con la passione di sintonizzare la sua radio sulle frequenze italiane, Mère Daba, madre di Aby, sino a tutti quei personaggi che appariranno e scompariranno come fantasmi nelle tappe successive del suo viaggio: Mohamed, i tuareg del Mali, Adam Demel, Abdulaye, Khady Sow, e così via.
Con l’elemento “Fuoco” inizia l’incredibile viaggio di Momar: in treno da Dakar all’orrenda Bamako, in Mali, poi Mopti, Dovenza, Gao, Kidal, con i più disparati mezzi di trasporto. Infine Djanet, in Algeria, ultimo avamposto prima del deserto, da attraversare a piedi con il solo aiuto di una guida, l’ivoriano Adam Demel. “Aria” si apre con l’arrivo a Ghat, nella Libia di Gheddafi, poi Sebha, Tripoli, incorrendo in arresti, detenzioni e persino torture, per poi riuscire a salire su un volo verso Parigi. È dunque a Parigi (elemento “Terra”) che Momar prende coscienza della realtà delle cose: il Senegal, il suo Senegal, come tutti i paesi africani deve sottostare alle condizioni dei paesi ricchi, ossia europei e americani. È una nuova forma di schiavitù, non più esercitata con la forza militare ma attraverso un imperialismo sottile, con accordi tra capi di stato. Addirittura con l’imposizione di una moneta emessa dalla stessa Francia, il CFA, che a tutt’oggi condiziona ancora quattordici paesi: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal, Togo, ossia l’Unione economica e monetaria ovest-africana, quindi Camerun, Gabon, Ciad, Congo, Repubblica Centrafricana e Guinea Equatoriale, ossia la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale. A risvegliare le coscienze sia tra i giovani immigrati sia tra i giovani francesi – siamo negli anni Settanta – è Arlette Laguiller, personaggio reale, all’epoca attivista del movimento Lotta Operaia. Non solo, Arlette Laguiller va oltre la sua propaganda e pronostica lo scenario drammatico di cui stiamo già vedendo l’intensificarsi in questi anni: i massicci e inarrestabili flussi migratori, un tempo favoriti dalla stessa Europa per il fabbisogno di mano d’opera a basso costo, poi sempre più incontrollati quando a generarli sono povertà e disperazione.
Suggestivo è l’incontro tra Momar e l’amata Aby in mezzo alla distesa di croci bianche del cimitero di Verdun, dove tra i migliaia di caduti nei combattimenti del 1916 c’è un elenco esteso di nomi senegalesi: «Agli inizi del secolo – gli spiega Aby – il Senegal, come molti altri paesi africani, era una colonia della Francia, e un ottimo serbatoio dove trovare buone braccia per lavori forzati o per imbracciare le armi. Quando c’è stato bisogno di rimpolpare la trincea di guerra, per frenare l’avanzata tedesca, l’impero francese ha raccattato in Senegal qualche migliaio di schiavi negri per combattere». Con l’ultimo elemento, “Acqua”, una serie di circostanze sfortunate porterà Momar al rientro forzato nel suo amato Senegal.
Scrittura semplice, si diceva più sopra, fatta di periodi brevissimi, vocaboli isolati, sequenze di ‘punto a capo’ che restituiscono un ritmo incalzante alla narrazione e un aspetto di racconto semplice e primitivo. Perché tutto in realtà è filtrato dagli occhi e dal linguaggio del quindicenne Momar, voce narrante in prima persona. Linguaggio che in alcuni capitoli in corsivo sfuma a livello di flusso di coscienza o assume la fisionomia di una lirica in versi liberi. Eccone un esempio:
la luce
luce abbagliante bianca trasparente
giardini deserti
soffio del vento
mare
scrosciare delle onde
sulla battigia
sugli scogli
sulla scoscesa scogliera
l’odore del pesce
l’acre aroma della salsedine
il dorso dell’acqua
il fremito di una vela
un’ala di gabbiano
ed ecco in un attimo
ritrovo casa
la mia natura
Trecentosessantotto pagine, insomma, che vanno via veloci ma lasciano il segno: la consapevolezza che il colonialismo non è affatto morto, ha solo modificato la forma. Che certe cose non cambieranno se non saremo noi europei a cambiare le nostre politiche e a premere sulle altre nazioni affinché facciano altrettanto. Che non si tratta soltanto di volersi mostrare solidali ma di essere meno miopi nel nostro stesso interesse: tutto il male che facciamo all’Africa ricadrà irrimediabilmente su noi europei.
Una recensione magistrale! Magnifica descrizione con una capacità di scrittura, di analisi, di proprietà di linguaggio sempre più rara e quindi preziosa! Un oasi! Che dire se non un sentito grazie!
Grazie a lei per l’apprezzamento!