Gaza – “Sorge ora il suo sangue in un orizzonte di ferro”
di Hadi Danial, traduzione di Sana Darghmouni
Mi accingo
a scrivere ora
il libro del mattino lontano
senza caffè amaro
nella cucina dell’anima le tazze
traboccano di sangue
dai tralci colano sopra il bianco
secrezioni purulente.
Dall’ala della colomba
scelgo la piuma del mio inchiostro
la conficco nella vena.
Dove si è smarrito il mio sangue?
Ho detto: la conficco dunque in bocca.
Dov’è la mia saliva
il suo viscoso amaro?
Era piena della cenere di un nuovo incendio.
Così ho restituito all’uccello la sua piuma
e ho improvvisato il mio inno.
1
Gaza, ora, sarà il titolo
sorge ora il suo sangue in un orizzonte di ferro,
il preludio.
…..
La luce si è infranta in un attimo
valicato dalle aquile
verso un banchetto
fatto di begli occhi
di una mano dalle dita esili
e di un seno che sgorga latte e sangue
sul labbro di una viola.
Crollano gli edifici
furenti, dicono che Dio è grande.
Il fumo serpeggia verso il cielo
con le anime di chi vi abitava.
I suoi bambini aprivano gli occhi su un artiglio
seguito da macerie.
I missili cullavano quest’ultimo letto
i piccoli si coricavano alla loro cadenza
e il sonno continuava.
2
Le parole ansimano e tremano
ululano sulle pagine lettere infrante
e una polvere di immagini:
Immagini di deserti annientati da cingoli di carri armati e cannoni
di cecchini in cerca di ragazzi
che da scuole e camere scagliano missili.
Immagini delle spiagge di Gaza e delle onde paralizzate di paura
da reti in fiamme scagliate da chiatte.
Immagini delle strade di Londra, Caracas, Tokyo e quel che non ho citato
tra gemito di bastoni
o tamburi di rabbia.
Immagini degli arabi
che scostano lo sguardo dalla sua ferita
tra chi si affretta al suo massacro
e chi procrastina guardando.
3
Nuvole ammassate
e il cielo cupola bianca annuvolata.
Gatti miagolanti
e donne che passano accanto al mio affanno
come meteore fragranti
agitando la cenere dentro di me
e l’anima si offusca.
Il cielo di Gaza è una stufa a gas enorme
che cala sopra l’intera città.
Nell’universo si leva
il profumo di quel che brucia
dalle zanne cola la saliva
e gli entusiasti competono
all’asta per la sua compravendita.
Una pioggia qui
e io dietro i vetri del mio piccolo caffè
la mano sulle spalle di Tunisi
cerco rifugio nel suo calore.
Una pioggia qui
mentre tento di restituire alle tue ciglia
la loro nerezza.
Una pioggia
e le strade si purificano
con le lacrime di una città che piange la sua città sorella.
…..
4
Una luna sale nel cielo della città
trapela il suo argento liquefatto.
……
Dinnanzi a me nella coppa vi è acqua
e dietro il vetro sfavilla l’acqua della pioggia
su carrozze, ombrelli, capelli di piccole ragazze, l’asfalto
della nostra mesta via tunisina.
Ero solo, nel fondo del mio caffè la chiacchiera del gelsomino sfiora
la chitarra del mio silenzio
finché non si spezza la corda.
Ero solo, la mia donna
mi ha telefonato dalla carrozza:
devo venire?
Aia di grano è la mia donna
e io una trebbiatrice ostinata nell’inverno del piombo remoto.
Ho detto: no
e mi sono posato sul sedile
come una pallida sembianza.
Improvvisamente il mio silenzio è straripato in un mare di sangue
con spiagge di vampe
e il cielo neutrale
le aquile rovistano questa grigia neutralità
volano in alto e stridono
poi si posano e ardono
e io scorgo
la rosa del fuoco
squarciata dal suolo
sospirare dopo un attimo.
Il mio cuore è divenuto tamburi
che mi risuonano nelle orecchie
sulla loro cadenza marciano i soldati del nemico
e si accostano al mio sangue.
Ero solo, a me
non sono sopraggiunti musulmani
né arabi,
dagli intimidatori turbanti
e armati dal tintinnio delle sciabole
nel silenzio tutti si sono rintanati.
5
Una luna dai lineamenti cupi
proveniente dai miti del loro Talmud
sparge ora il suo fosforo bianco
sulla carne della città
Gaza
…..
Gaza non è una massa di cemento,
Gaza, bambini cresciuti nella culla della fame, donne che impastano la loro vedovanza
con le lacrime del lutto,
anziani risparmiati dal frastuono del massacro,
erba che guasta il cingolo del carrarmato e pietra che stritola il naso dello zoticone
e le corna del vitello.
Gaza è un battito
dettagli di vita in cui ascendono i sacerdoti della notte
cenno di un bambino a suo padre sulla soglia della scuola, un mercato in cui sfavilla
pesce e si alzano i richiami dei venditori a decantare le verdure del deserto
e la frutta di un tempo selvatico.
Gaza è il grido popolare di Guevara e la kefiah di Arafat sui balconi
del mondo
e sulle sue strade scosse.
Gaza è la saggezza di Ahmed Yassin
l’assente come un fulmine
dalla bomba del culto.
Gaza è una cateratta di canti procrastinata da una morte impellente
barattata dai commercianti della morte
per una manciata di riso,
è l’affanno insanguinato di letti d’amore, e scuole da cui si leva la peluria
delle parole verso le ali dell’aquila simbolo.
Ma gli occhi di bambini spalancati dalla morte
cavati dal silenzio
si chiedono: Gaza è una roccia di sale in una piaga
o una posizione di gloria?
6
Uscivo da me stesso
volavo sui ricordi delle guerre che mi hanno esalato
quando un grido nudo
mi ha serrato la strada
un urlo che nessuna seta o ritocco riveste:
(con un proiettile alla tempia di Bush
salvate una terra che muore
e sterilizzate i grembi dell’America
le belve vi hanno sparso il seme
ovunque il cieco rivolga lo sguardo
aumentano le bare)
……
Ho detto me ne vado verso una luna in un cielo familiare
verso la sua luce scrosciante in estate
come neve lieve,
ho cozzato contro un’altra luna
sorgente dai resti di Sodoma
come un pugnale cinereo
nella nebbia del nostro arabismo e nelle nubi
che spargono sul creato
il loro veleno settario.
7
Attraverso i vetri
gli uccelli del mare valicavano la mia anima vacillante,
il sole infuocato dell’inverno
ardeva la mia fantasia
e nell’area si spargeva
la fragranza
…..
Questo è un giorno terso
e io sono lontano in un nord del suo occidente
sulle mie mani sangue
e nel mio cuore
ustioni.
Me ne vado senza una direzione
circondato da fulmini
nessuna stella né mezzaluna
nessuna falce né martello
questa è la tromba dell’olocausto.
Me ne vado senza provviste né armamenti
nessuna donna ho
né una patria
persino la relazione
con i miei fratelli
è quella della cenere
coi rovi.
…..
Non ho creato il Dio che m’ha creato.
Non ho disilluso Dio, forse m’ha abbandonato
come fosse con me
come fosse una farfalla di gioia
che sventola tra le mie costole
e un usignolo che cinguetta
nelle mie orecchie?
Ma il suo esercito, il suo popolo, i suoi sudditi, il suo partito, i suoi versetti, i comandanti
a nome suo e i suoi padroni di casa,
e il sacerdozio presuntuoso
non sono con me!
Ora me ne vado
alla fine della carneficina
serbo nell’anima e nella memoria
tutto questo nero
e ciò che vi è nelle macerie e sotto
e nella camera mortuaria.
Quanti cadaveri sono stati seminati nella terra del paese?
Quanti uccelli sorgeranno da tutta questa cenere?
Così spuntano ora ali lievi
con domande che fendono
e volteggeranno in ogni Najd, Egitto e Levante
aspettando il raccolto.
Tunisi 14/01/2009
*
Hadi Danial è nato a Latakia, sulla costa siriana, nel 1956. Nel 1973 si è unito alla rivoluzione palestinese a Beirut e ha lavorato per radio e riviste. Ha lavorato per l’Unione Generale degli Scrittori e Giornalisti Palestinesi a Tunisi, prima che l’unione tornasse a Ramallah nel 1995. Attualmente risiede in Tunisia, dove dirige la casa editrice Diyar. Tra le sue opere Barada e le delegazioni della fame (Beirut 1973), I canti del gabbiano (Beirut 1978), Una pipa per fumare i sogni (Beirut 1982), Il sole come un’aquila anziana (Tunisi 2020).