Omaggio ad Alessandro Spina a dieci anni dalla morte (con una lettera inedita)

di Massimo Morasso

Dieci anni fa è morto Basili Khouzam alias Alessandro Spina. Malnoto ai più per via della sua ardua inattualità stilistica, e di un’appartatezza che si potrebbe dire quasi anacoretica, oltre che “snob”, con ogni probabilità Spina è il più notevole prosatore in lingua italiana degli ultimi decenni.

Nato a Bengasi nel 1927, libico di stirpe siriana, figlio di un agiatissimo imprenditore tessile dal quale ereditò, per oltre un ventennio, le responsabilità di gestione dell’azienda famigliare in Nord Africa, il ragazzino e poi giovin signore Khouzam aveva vissuto in Italia dal 1940 al 1953, laureandosi in Lettere con una tesi su Alberto Moravia. Dall’Africa, incominciò a farsi conoscere nella nostra società letteraria con il nom de plume di Alessandro Spina.

Fu il racconto Giugno ’40, pubblicato da Anna Banti su “Paragone” nel 1960, ad accendere su di lui i numinosi occhi-riflettori di Vittoria Guerrini alias Cristina Campo, che gli scrisse, d’acchito, con incoraggianti parole d’encomio. Da allora, questi due sommi araldi dell’ospitalità intellettuale sotto pseudonimo furono legati da una lunga e profonda amicizia in prevalenza epistolare, testimoniata dalla pubblicazione del carteggio, ahinoi dal solo “lato” campiano, Lettere a un amico lontano (Scheiwiller 1989).

In Italia Khouzam è poi tornato in pianta stabile una volta superati i cinquant’anni, in rotta col sistema di potere di Gheddafi & co., per chiudersi in un lussuoso “buen retiro” a Padergnone di Rodengo in Franciacorta, a poche decine di metri di distanza dalla villa del suo miglior amico, il gran musicista Camillo Togni. A due giorni dalla sua scomparsa nell’ospedale di Rovato, l’11 luglio del 2013, Nazione Indiana ha parlato di Alessandro Spina grazie a Flavio Marcolini, autore di “Staccare la Spina”, un informato e appassionato coccodrillo che vale la pena di rileggere ancora oggi, per incominciare a inquadrare la figura umana e la statura storica di «uno dei più incisivi (almeno sub specie aeternitatis) quanto appartati maître à penser dell’Italia contemporanea», come ne ha detto bene Marcolini in quel pezzo.

All’interno dell’ampio, variegato corpus di scritture di Spina, spicca il macro-ciclo de I confini dell’ombra. Si tratta di un vasto affresco narrativo coloniale, che getta illuminante luce letteraria su parte dei fatti e dei misfatti imperialisti italiani in Cirenaica. Al vaglio dell’italo-libico (e siriano) Khouzam-Spina, qui i libici aggrediti e gli aggressori italiani non sono, in fondo, che i deuteragonisti sulla scena di un’immane tragicommedia, che Spina ha saputo rendere epopea con l’autorevolezza stilistica, e l’apertura naturalmente dialogica e transculturale, del gran signore-scrittore dalla doppia anima – l’araba di cultura maronita e l’europea, innanzitutto franco-tedesca e poi anglo-russo-italiana – avvezzo ai modi e alle cadenze del più intelligente decadentismo internazionale.

La lunga parabola gestativa di questa sorta di recerche spiniana si è conclusa a fine secolo, quattordici anni prima della morte dello scrittore. Ciò che Spina ha pubblicato dal 2000 in poi fa parte di un sapido ripensamento, in massima parte indistinguibile da un autocommento in margine all’opus maior. Sedata la compulsione costruttiva, sono nate le pagine che danno traccia più manifesta delle idee che avevano sostenuto, per decenni, l’articolato progetto romanzesco (gli intriganti Diario di lavoro: Alle origini de I confini dell’ombra, L’ospitalità intellettuale e Elogio dell’inattuale, tutti e tre editi da Morcelliana).

Nel carteggio (finora inedito) che abbiamo intessuto dal 1993 al 2010, a latere rispetto a quanto andavamo dicendoci l’un l’altro durante i nostri incontri in quel di Padergnone o per telefono, c’è una lettera nella quale Spina mi informava di aver posto la parola fine all’ultimo nodo del suo arazzo narrativo (si esprimeva proprio così, con la parola “nodo” al posto di “libro”, facendo implicita equazione fra scrittura e tessitura del tappeto della vita nell’Opera, à la Stefan George).

Anche di questo evento, atteso e importantissimo, si è compiaciuto di darmi notizia in modo obliquo e come di sfuggita, assecondando l’estro del suo abituale, elegante understatement. Lo ha fatto dentro a un giro di frasi sintomatiche, dove, fra le altre cose, ci s’imbatte in un’affermazione e una notizia molto rilevanti, che il tempo a venire si è incaricato, tuttavia, di rendere falsità. Giacché le 13 lettere del valente filosofo Andrea Emo a Cristina Campo, delle quali Vanni Scheiwiller gli aveva appena annunciato il ritrovamento, sono uscite a stampa nel 2001, ma per le cure editoriali di Gianni Scalia e della sua rivista “In forma di parole”, e non di Scheiwiller. Mentre L’oblio – la serie postrema di storie coloniali a firma Alessandro Spina, cioè, insomma, la raccolta che Khouzam-Spina nella sua lettera mi confessava d’aver finito di scrivere – e, soprattutto, l’intera saga cirenaica de I confini dell’ombra, Spina si è poi convinto dell’opportunità di pubblicarli, per sua e nostra fortuna, e per il profitto dei lettori, storici futuri compresi; con buona pace del passato, il “più costante” e “terribile” dei committenti, come nel messaggio al mio indirizzo lo definisce. Complici Cesare Cavalleri e Ilario Bertoletti, il librino (stupendo) di racconti e il tomo di quasi 1.300 pagine fitte fitte (ormai fuori catalogo) cui Spina ha dedicato tanta parte della sua esistenza, sono usciti rispettivamente con Ares, nel 2004, e con Morcelliana, nel 2006. La chiusa del discorso, dalla constatazione “Oggi piove” alla domanda “Ci vediamo a Bose?”, per me (che sono di Genova: da qui gli ammicchi, per due volte, alla Liguria) vale anche da sola un urrà, e un deferente inchino:

Padergnone, 27 marzo 1999

Caro Morasso,

[…] Un momento fa mi ha telefonato Vanni Scheiwiller. Sono state trovate le minute del filosofo Emo a Cristina, una quindicina, molto lunghe, e, non so quando, Scheiwiller ne farà un libretto. Potranno essere utili, sicuramente in una direzione non futile.

[…] Quanto a me, ho finalmente terminato un’opera… ciclopica (l’autoironia è l’unica scappatoia), durata un numero spaventoso di anni. Naturalmente (Cristina ed Emo insegnino) non ho nessuna intenzione di pubblicarla. Chi ne è il committente? Il più costante (committente), terribile e a suo modo amico, ovvio: il passato! Nessuna committenza se non da lui, lo insegna la religione (con divagazioni sulla coscienza) e poi Freud (con saggi ieri felicemente indiscreti, oggi, ahimé, sciupati dall’uso).

Terminato il lavoro, mi sento liberato da un incubo, sereno. Traffico in giardino. Ah l’eterno ritorno, che si beffa di noi “uomini effimeri”, della storia, di ciò che avviene una sola volta eccetera eccetera.

(Circa le due parole fra virgolette, cito D’Annunzio, ma lui forse usava una sola effe, non ricordo.

Eros nella pugna invitto
Eros, che precipiti le fortune,
che sulle molli gote
delle vergini ti poni in agguato,
che erri oltremare e per le capanne agresti!
E nessuno tra gli Immortali può fuggirti
e nessuno fra gli uomini effimeri*, e chi ha è furente
.

Mica male, eh? Nessuna testa mi interessa meno, ma il dettato di colui, talvolta, è d’oro).

* Ho controllato il testo, scrive: efimeri (non rinunzia insomma a una smorfietta neppure di fronte alla maestà di Sofocle!).

Oggi piove e il doppio giardiniere è in festa, afflitto e finalmente liberato dalla siccità africana. Ma le giornate invernali, chiare, erano anche qui stupefacenti, non è bella solo la Liguria! Nel Nord Africa ci sono coste altrettanto varie e incantatrici delle liguri, con in più, ciò che c’è di meno: disabitate, incolte, tutto come cadde dalle mani di Dio. Poi, capitò a me, momento indimenticabile, dopo cento chilometri senza incontrare anima viva, su uno stretto promontorio, due colonne piccole (altezza d’uomo) candide in terra, i resti di chi sa quale monumento greco, sicuramente funerario; mille anni fuggiti come un giorno solo. Sembravano i kolossoi che si fingevano per il morto insepolto, perito chissà dove. Ecco ricomposta la coppia, per l’eternità – diciamo con commozione invincibile.

Ci vediamo a Bose?

Un cordiale saluto

Print Friendly, PDF & Email

2 Commenti

  1. Molti anni fa, quando mi scoppiò la passione per Cristina Campo, appresi di Spina e lessi solo “Storie di ufficiali”. Ti ringrazio molto di questo bellissimo resoconto.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Giallo

di Franco Santucci
Giallo, come argomentazione sterile, come il ridicolo di emozioni in un trascorso indenne, giallo narciso di sconforto e inettitudine, nervi a pezzi di un giallo inutile. Mi rifugiai sul primo treno in partenza, uno qualunque (giallo borghese di una medesima ribellione), per sfuggire alla persecuzione

Non premiatemi, sono un poeta

di Max Mauro
Sono un poeta. Negli ultimi dodici anni ho partecipato a 128 concorsi letterari. Tengo il conto di tutti perché sono un tipo preciso. In camera, in una cartellina dentro il cassetto dei documenti, conservo le ricevute delle raccomandate di ogni singola spedizione...

Gaza: Warfare

di Flavio Torba
Si scambiano dichiarazioni di guerra con gli occhi. Il viso di Pastore è un campo minato dall'acne. La vita all'aria aperta non deve fargli un granché bene. Si tormenta un bubbone, mentre sibila un flusso ininterrotto su chi ucciderà chi

Epigrafi a Nordest

di Anna Toscano
Sin da piccola sono stata abituata a frequentare i cimiteri, andare in visita da parenti defunti, accompagnarli nel loro ultimo viaggio, attraversare camposanti pieni delle stesse fototessere: anziani coi capelli grigi, occhiali, sfondo chiaro, abiti scuri. Mia madre e mia nonna, tuttavia, hanno iniziato a pensare alla loro morte anzitempo, ogni due anni eleggevano una foto come quella per la tomba e per l’epigrafe

Lo senti

di Stefano Ficagna
Cominciarono a sparire in primavera. Dissero che era colpa di un batterio, l'eredità genetica della guerra: certe persone diventavano trasparenti, poche per la verità ma abbastanza da poterlo notare coi tuoi occhi, perché succedeva ovunque. Fu una trasformazione graduale, tutt'altro che piacevole

Addio addio, dottore mio

di Paola Ivaldi
Nel considerare, per un attimo, il processo di inarrestabile sgretolamento della Sanità pubblica, quella fondata nel lontano 1978 sui nobili principi di universalità, gratuità ed equità, senza avere più né la forza né la voglia né tanto meno la capacità di additare gli innumerevoli responsabili di tale sfacelo, inizio a giocare di immaginazione
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: