La circolarità del tempo in Eos di Bruno di Pietro
di Daniele Ventre
Un immagine degna del Virgilio delle Georgiche, evocatore dell’ossessivo canto delle cicale, apre il quadro meridiano di Elea nei versi di In limine, incipit e portante melodica di sottofondo di Eos, ultimo sviluppo della poesia di Bruno di Pietro, di quella densa maniera breve che connota già altre sue recenti opere, come Baie e Frammenti.
Non è casuale che la silloge esordisca con l’evocazione di un rumore bianco (“i grilli normalmente molesti”), di per sé connotato come assenza di segnale, ma subito trasformato in una sorta di messaggio implicito e latente (un “parlare” più che un “frinire”): è il rumore bianco di fondo dell’essere parmenideo, con la sua staticità mobile, tale da prefigurare il divenire a prescindere dal gioco di paradossi che esso implica. La conclusione di In limine con la sua terna temporale, “è”, “sarà”, “è sempre stato”, evoca, tramite il verbo chiave dell’eleatismo squadernato in un poliptoto di estrema trasparenza, i tre aspetti del verbo della lingua greca che dell’ontologia di Parmenide è matrice: la durata del presente e il termine puntuativo del futuro, entrambi sussunti nello stato del perfetto. A questa fissità di fondo del rumore bianco dell’essere si contrappone l’ “io invecchio” clausola in parentesi (una caratteristica ricorrente nella poesia di Di Pietro, ma qui usata con estrema parsimonia), appercezione trascendentale del consumarsi del tempo. Sin dall’inizio l’aporia eleatica viene messa in poesia e lasciata in bella evidenza, nello sfrigolio contrastivo fra la staticità dell’essere e l’autofagia temporale dell’esistere.
I diciotto frammenti che dipanano il discorso poetico dopo l’esordio, ne declinano in varia maniera, senza presunzione di sistematicità, senza completezza, con deliberata parzialità, le sfaccettature visibili. Così al primo passaggio del testo, il cammino fino alla cima del tempo e della conoscenza si conclude circolarmente nella scoperta dei primordi (“l’infanzia della terra”) e delle acque primeve della creazione-parto (“serbatoi-di acqua/ della luna”) a cui il “noi” autoriale-fruitoriale si abbevera. Segue un apparente ritorno al fenomenismo del paesaggio di Elea, ma a giocare il ruolo essenziale è ancora lo scavo nella natura profonda del tempo: dei dieci versi del secondo frammento, otto sono dominati da una assoluta presentificazione, mentre il movimento del futuro -“le stelle faranno notte/(e io con loro)”- arriva in clausola, giustapposto, senza giustificazione tematica, presenza attuale contro futura assenza, in un mutuo scambio di ruoli che è davvero più eracliteo (o da Parmenide in dubbio, o convertito, sul divenire), che eleatico. La chiusa, saffica (“le stelle faranno notte” evoca i v. 2 s. del fr. 168 b Voigt, anche nel ritmo, un ottonario “logaedico” con accenti di 2a 5a e 7a sillaba, che del fr. 168 b ricalca, per semiconscia abilità di performer/praticante della scrittura poetica, gli ipponattei acefali), fa da contrappunto tonale lirico (vale a dire: di tradizionale connotazione lirica) ai contenuti decisamente mistici, orfici, dei versi centrali (“una torcia/illumina la Porta”) ulteriormente marcati da una rima difficile (torcia/accorcia) e dall’assonanza ricorrente del suono cupo arrotondato (/o/, /u/, /ɔ/), frequente in posizione forte, non solo in fin di verso, sin dall’inizio (in tutto il secondo frammento le vocali posteriori arrotondate si ascoltano sub accentu rythmico almeno nel 75% dei casi, diciannove volte volte su ventiquattro battute). L’intera poesia ha tutta l’aria di una nékyia, di un dialogo latente con il silenzio delle ombre (di cui ai vv 4 s.). Applicando a questi versi un occhio accademico da scienza normale, e quindi in linea di massima, visti i tempi, acriticamente classificatorio, sarebbe facile liquidare il tutto come ritorno al lirismo neo-orfico da Campana a Quasimodo e dintorni, non fosse la filologia che serpeggia sottotraccia. Qui non si ascolta l’ennesima riedizione di un neo-orfismo à la Dino Campana, né si riecheggiano lirici greci filtrati da poetiche allotrie di sapore neo-ermetico. Si riscontra piuttosto il tentativo, peraltro in sé riuscito, di costruire una poetica altra, connessa alla natura effettiva dei frammenti originari delle lamine orfiche e dei frustuli di papiro dei lirici, ascoltati con un metodo analogo a quello con cui una scrittura di ricerca, o non assertiva, o post-poetica, si rapporta ai processi espressivi a essa congeniali di riferimento, d’oltralpe o d’oltreoceano che siano. Ovviamente, l’attenzione dell’autore di Ἔως si rivolge ai mýstai sporti ai parapetti dell’esistenza sotto l’assedio delle tenebre ctonie, o punta ai lyrikoí figli di una scrittura ultra-performativa, permeata di oralismo: una strada rischiosa, anche sul piano della ricezione, non fosse l’immediatezza del dettato poetico, che è estranea alle retoriche pseudo-antiche variamente declinate dalla poesia della prima metà del Novecento. I frammenti dell’antico, normalmente percepiti come molesti, si lasciano parlare per sé stessi, secondo i loro principi, più che secondo la loro parechesi moderna, falsa amica di un linguaggio frainteso. I testi 3 e 4 lasciano a questo punto intendere come tale dialogo con le ombre vibri dello spazio bianco e del tacere della parola come del suono recepito, del frammento sopravvissuto come del molto che il cut up involontario delle catastrofi della tradizione manoscritta, papiracea e di reperto archeologico, ha invece cancellato: si assiste così a una sorta di dottrina non scritta dell’essere nella poesia/mondo. In tale ottica, il frammento come testimonianza residuale insiste in una dimensione liminare all’orlo del non essere (testo 3, v. 3 s.), così che il tutto, umanità primordiale e dèi insieme, si consegna spontaneamente alla Notte del popolo dei sogni e al Tempo del Sogno, cioè al cronotopo anomalo del mito (testo 3, v. 7 s.), con immagine tesa fra lo sciamanismo degli aborigeni e la cosmogonia parmenidea della doxa plausibile, in cui sono protagoniste luce e tenebra, visualizzazioni dell’essere e relativa penombra. Complementare a questa rappresentazione meta-poetica è l’alone notturno del testo 4. Il mare, che campeggia al primo verso di quest’altra lassa, è ben nota immagine dell’essere nel suo complesso: localmente appare fluido e mutevole; nel suo insieme si manifesta nella sua compattezza e inamovibilità. La nube di vapore notturna ne è, in termini di logica fuzzy, la penombra, la sfumatura della verità in doxa. Si è già alluso a come in questi versi si riecheggi il modo in cui Parmenide articola la doxa plausibile in una compenetrazione di luce e oscurità: tale struttura della parvenza è latente nei cerchi luminosi che avvolgono le parvenze degli ulivi, della terra e del cielo, dei cicli naturali e del ciclo vitale (testo 4, vv. 3-5). Al culmine del paesaggio ontologico così delineato, la rotonda luna, che ancora una volta evoca un ampio ventaglio di immagini legate alla tradizione lirica, dalla “bella luna” di Saffo (fr. 34 LP v. 1) al selenismo leopardiano che ne è l’eco, si fa evidente simbolo del parmenideo saldo cuore della verità rotonda (PARM. fr. 1 DK v. 29). Si ha qui un’inversione delle consuete analogie solari legate all’essere, o all’uno, e la loro sostituzione con immagini notturne, lunari. Che sotto traccia continui ad agire l’altra immagine lunare, quella dei “serbatoi di acqua della luna” (testo 1. v. 6), è evidente dalla prima terna di versi brevi che apre il testo successivo: “si mischiano le acque/ del cielo e del fiume/ con il mare alla foce” (testo 5. vv. 1 ss.). Le acque superiori e inferiori, di cui questi versi ci parlano, sono venute da cosmogonie ancestrali, fra l’eco dei primi versetti del Genesi, i miti cosmogonici della Mesopotamia e l’Omero di Ξ 245 s., che vide nell’Oceano l’origine di tutto e fu una delle basi mitologiche tradizionali della visione di Talete, di cui si coglie un richiamo nei versi centrali della poesia (testo 5. vv. 4 s.), in tema di addensamento e compattamento della “terra… agli argini”. La tecnica della giustapposizione (ontologica/divina indifferenza vs. esistenza ordinaria) ripropone qui la platonica immagine dello stagno di rane (vv. 6 ss.), non senza una punta di ironia, ed è in tal modo che viene delineandosi un Einblick in cui l’essere (costellato di immagini atipiche, selenitiche, di penombra) affiora per frammenti di tempo e di esistenze, come nella pagina i versi, frustuli di voce nel silenzio dello spazio bianco. In questo dipanarsi della visione, pur nella loro asistematicità di sfaccettature, che come si è detto, è voluta, le diverse micro-lasse si legano nei modi più vari: così il testo 6 si collega al precedente tramite una rima sdrucciola difficile (v. 1, “margini”, in responsione con “argini”, testo 5. v. 5). L’atmosfera tuttavia è ancora diversa: la scena al confine del campo di fave evoca il fotogramma finale della vita di Pitagora; qui la condizione del filosofo di fronte alla verifica escatologica della morte culmina in una altrettanto escatologica frustrazione, se l’assoluto, l’essenza, quod quid erat esse, ciò che l’essere era, ovviamente al passato, non si rivela (“il passato/ deve ancora arrivare” – corollario implicito a un’idea che Bruno Di Pietro ha espresso per tempo in un’altra, meno frammentistica, opera: “il passato non passa ma è indecente/ che qui non passi nemmeno il presente”). La settima lassa riprende questo nucleo tematico e contrario: “il presente è ricordo”, ma a ribadirsi è lo stesso tema, lo sbiadimento della doxa del divenire, il silenzio che l’accompagna, mentre sullo sfondo l’unico rumore, un rumore bianco, è quello del mare. Verrebbe fatto di citare il Pagliarani della maniera breve: “Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare”, non fosse che il messaggio è tutt’altro. L’essere di cui qui si parla non è un disperato als ob, una fizione alla Vaihinger, perseguita stoicamente: è ovviamente il paesaggio ontologico degli eleati, accanto a cui il mondo della doxa si manifesta come un’aurora pallida (“scialbo mattino”), con i suoi inganni sul tempo, frutto di un divenire conglobato in cui l’oggi e l’ieri sono due punti sulla stessa linea di sviluppo. L’idea del mutamento conglobato, in cui ogni fase diacronica è in realtà incistata nella precedente e nella successiva, si fa esplicita nell’immagine che chiude il testo 8, che del testo precendente è l’inversione speculare: nei fiori del vecchio pruno sono di fatto il passato e il futuro, o se si vuole un’entelechia esaurita e una potenza in boccio, a convivere nella stessa struttura, mentre il tutto è candito in una luce che crea, per ominosa paretimologia (testo 8, v. due: “illumina illusioni”), il mondo delle parvenze. Lo snodo di simmetrie speculari fra i testi 7 e 8, posto al centro della struttura di Ἔως, enuclea sul piano poetico l’intrinseca soluzione dell’aporia eleatica: di tale soluzione è simbolo il mitologema della ninfa Yele, eponima di Elea-Velia, e legata alla sorgente che alimenta la città. Il testo 9 riattiva poeticamente la formula omerica stereotipa “del fiume disceso dal cielo” (διιπετὴς ποταμός). I correlativi oggettivi acquorei dell’essere, alcuni tradizionali, da Parmenide stesso a Dante, come il mare, altri indotti da associazioni di idee sui materiali archetipici fra mito e inconscio collettivo, come le acque della luna, forniscono qui un’altra chiave di rappresentazione estetica dell’aporia e del suo superamento, suggerendo implicitamente che la proliferazione del divenire (i trifogli intorno al fonte della ninfa) sia una spontanea emanazione/permeazione dell’essere, o per converso (testo 10, vv. 1 ss.) una lenta, sfumata sgranatura dei cocci d’argilla, cioè degli uomini terreni, terragni e terrestri, tracce di ostracismi dalla polis dell’esistente. Il bisticcio del distico conclusivo di questa decima lassa (un’isola/dalle spiagge rosa), gioca sull’omofonia parziale fra “rosa” colore, e “rosa” participio passato di rodere, talché quest’isola è nel contempo una plaga dello spirito sotto la specie di una sponda di sabbie di grani rosati, e la stessa esistenza, erosa dai confini del suo divenire e del suo sgranare nella fissità dell’essere. In quest’ottica, l’essere si rivela coincidente con il nulla, in una dimensione di ambiguità ed equivocità strutturale, che indurrebbe a richiamare l’atmosfera ontologica della terna dialettica (essere/non essere/divenire) con cui si inaugura il Logos hegeliano, non fosse, ancora una volta, l’onnipresente monito della frammentarietà del logos (narrazione/ragione/discorso), così che la poetica del frammento si rivela apertamente come la voce della frammentazione dell’esistente. Le lasse centrali, dall’ottava alla decima, costituiscono così una sorta di proemio al mezzo, in cui ragioni metapoetiche, correlati oggettivi e referenti metafisici si intersecano, seguendo l’intreccio dei piani temporali agglomerati. Quello che si delinea è un essere torbido, notturno, ctonio e celeste insieme, da cui l’esistente cerca con fatica di differenziarsi, come parvenza, nella sua fissità aurorale, senza riuscire del tutto nell’intento di nascere, stante la persistenza, sia pur al grado minimo, di un cordone ombelicale impossibile da recidere in quanto non visibile, sfuggente, esso stesso fluido. La figura del filosofo Parmenide, che ha scoperto l’essere al principio della storia della logica occidentale, figura così nel testo 11 come quella di colui che cerca di bonificare, riducendola a criterio trasparente, la motosa problematicità dell’ente. Queste ambiguità e opacità equivoche si dipanano ora, tappa dopo tappa, in un percorso discontinuo, di atomi-momenti senza tempo-durata, nei testi dall’11 al 18. Così la ierogamia terra-cielo sotto i venti meridionali, celebrano questa comunione fra essere e fenomeni, ma in assenza del logos, tanto che il binomio parmenideo νοεῖν-εἶναι è sradicato proprio nel momento in cui il reale celebra il suo ricompattamento (testo 12, vv. 8 s.: “dall’orizzonte/ è scomparsa la parola”); l’abbandonare il tempo del testo 13 si connota del senso equivoco di lasciare il tempo (la vita) e di consegnare al non essere come doxa e come non verità la dimensione della temporalità -e i tre versi finali, che descrivono una migrazione di esistenti verso l’opacizzazione del fenomeno (=verso la morte), inscenano il correlativo oggettivo del trapasso sullo sfondo della ben nota cosmogonia parmenidea di luce e ombra, ma a farsi simbolo di anime migranti verso il buio sono gli uccelli primaverili, le rondini, sottendendo un intreccio fra passaggio, presentificazione, futurizione e rinascita. La stessa sovrapposizione di piani temporali collassati l’uno sull’altro si intuisce dietro l’uso, ossimorico rispetto al contesto, delle lasse 14 e 15, dell’aggettivo “antico”: nel testo 14 “l’aurora”, ipostatizzata nella ragazza che improvvisa sulla spiaggia la sua “danza del senso”, ha però un viso antico, e a prendere vita è né più né meno che una figura divina, nel senso antico, politeistico, del termine. L’aurora -a questo punto sarebbe più corretto parlare dell’Aurora come dea- è solo il primo degli “antichi spiriti mediterranei” che al primo v. del testo 15 “attraversano il giorno”, tagliando netto il tempo nell’ora mediana/meridiana, in cui tutti i tempi sembrano presenti. A dominare la scena è in realtà ancora la danza del senso che animava i passi della figura femminile di cui alla chiusa del testo 14: la stessa danza che l’uno e i molti intraprendono attorno alla rotonda luna, così che questa Aurora, persona del dramma cosmico nel frangente liminae fra luce e buio, altro non è che l’altra faccia della rotonda luna, ed è nel contempo la peculiare Dike/Giustezza che in fine conduce il Parmenide qui alter ego di Bruno Di Pietro a giungere dove il suo thymòs poetico si prefissava di giungere, fuori della cella del presente. Si giunge così alle rivelazioni della tre ultime lasse, in cui si ripropongono i fenomeni metrico-fonici di cui i testi centrali, a partire dal 9, sembrano più parchi: la sedicesima lassa, con le sue (per quanto facili) rime proietta apertamente agli occhi dell’ascoltatore della raccolta il tema di fondo dell’aporia (c’è più mistero nel creato/che nel creatore). I due testi successivi sembrano in sé quasi due parti complementari di un unico più ampio congedo: la soluzione dell’aporia -la persona loquens quasi cieca (portatrice in sé di buio) e tuttavia capace di comprendere in uno sguardo tutto-abbracciante i singoli stadi del divenire, in una prospettiva degna del contemplatore impassibile della Bhagavadgita- si conclude con una determinazione di luogo -il “ramo spezzato nell’acqua” a “rigenerare radici/ la vita, l’esistenza”- che sembra di fatto un rewind -negazione della negazione, per riprendere una formula in auge da Meister Eckhart a Hegel- del montaliano male di vivere, la cui sconsolata scontatezza, agente al fondo di una parte fin troppo vasta della tradizione poetica italiana contemporanea, è qui sconfessata dall’interno. È quasi inevitabile vedere nelle due determinazioni di luogo figurato in cui si esauriscono i quattro versi finali della raccolta (“nella gioia/di essere senza fondo/nella gioia/di essere al mondo”) il completamento naturale di questa idea. Così nella sua struttura circolare, di danza, i frammenti aurorali di Bruno Di Pietro ci offrono in forma poetica una personalissima gaia scienza, fatta non di nichilismo, ma da un singolare pensiero forte, venuto a valle di troppi torpori e indebolimenti intellettuali, a ricondurci alla positività problematica, all’ottimismo tragico, di una riscoperta idea meridiana dell’essere.