I tetti a mantella

 

 

 

 

I tetti a mantella

di Patrizia Fistesmaire

“La prossima volta che riòmprà i mmirtilli glielo ficco ner culo!”

“Oh Kevin, mah che ti viene in mente stamani?”

C’era la nebbia a mantella sui tetti della Via Amendola.

Ganzo, se ti giravi di scatto, a seconda del punto; se stavi più basso o più alto con le gambe, l’incrocio con la Via Alcide, proprio in quel punto, dove quelle due case a ics erano attaccate per le mura, lì in mezzo, tra i tetti, rimaneva un cono vuoto. Un cono di luce. Lì la nebbia si sfaceva. Tipo la neve: si sfaceva sul serio, si polverizzava, finiva, insomma.

“Kevin, affacciati! E dai, ‘un t’incazzà di mattinata, fammi il piacere. Guarda che spettacolo che c’è laggiù! Vieni, vieni a vade’, dai!”

La suola grignata aspettò quei tre secondi di pestare la sigaretta per terra, sul pavimento di grès bianco grigio; colore del cazzo, oltretutto: le piastrone di grès bianco grigio le scelgono le donne. Al cento per cento, le scelgono le donne, con l’idea che rendono pulito. Quella scelta del cazzo la fa sempre una donna.

Se qualcuno s’immagina il godimento più fondo per un uomo, oltre alle seghe, sappiate che è spengere per terra le sigarette dove le donne ci passano il cencio. Anche subito dopo, o durante, mentre lei sta china, col culo ritto e la sottana rialzata, anche senza strizzare una chiappa (non occorre), a un uomo gli viene duro se la guarda mentre struscia; e lì, ci spenge il mozzicone. Nel punto preciso dove struscia in terra. Ohh sì!

Gli venne un pò duro anche ora. Era a lavorare, sicché gli venne duro poco. S’era alzato all’alba per andare a fare questo trasloco. Lavoro completo: smonta e rimonta entro le diciannove.

Questa storia di comprare i mirtilli, per via degli occhi, non gli andava giù: meno di tre euro non costavano. In due manciate finivano e alla figliola gli occhiali andavano pagati lo stesso. È vero che li mangiava tutti la figliola, ma se poi fosse venuta voglia anche a lui? Se garbavano alla moglie, poi?

Era roba a cui non ci si deve abituare. Invece la moglie erano già due o tre volte che li portava a casa, ci stava prendendo il vizio.

Nel mentre ragionò su come batterla, perché la smettesse una volta per tutte, gli occhi gli andarono fuori dalla finestra, dove indicava di guardare quel ragazzo.

La stanza era vuota. Il pavimento di grès bianco grigio, freddo.

Fuori dal vetro poteva sembrare mattina, sera o l’Inghilterra.

Col silenzio del dentro e fuori le bollicine d’acqua, col vapore, che saliva o scendeva, quel taglio di luce accecante all’incrocio delle due strade, poteva sembrare nientemeno che: l’ingresso del paradiso.

“Madonna d’un troiaio! Oh Luciano! Oh Luciano…!” Kevin non s’impressionava mica più di nulla ormai, ma stavolta era uno spettacolo.

La vita se l’era ciucciato nei sogni, come diceva ogni tanto: “‘Un c’è più nulla di brutto che ‘un abbia già visto, la vita m’ha ciucciato nei sogni”.

Kevin aveva interrotto un certo tipo di esistenza dopo il quinto anno di scuola media. L’epoca dell’infanzia: imbambolata, senza la gente che ti gonfia per strada, i debiti a giro.

Se Dio vuole, l’avevano trattenuto fino a quindici anni prima che la vita se lo risucchiasse. Queste sono le decisioni di qualche professoressa dal cuore grande, che conosce la lotta di classe e sa bene che la sfida non è insegnare ai più bravi, ma a quelli come Kevin, che a scuola ce li mandano per non rubare o finire in galera, prima del tempo giusto di farsi uomini.

Stavolta, mannaggia, s’impressionò d’un cono di luce con la nebbia. Come un bischero.

Accipicchia, era davvero fantastico quel panorama visto da lassù!

La nebbia, che avvolgeva le case intorno, sfumava proprio in quel cono a vortice: un effetto delicato e potente, come la scena d’un film; pareva impossibile che lì, nel mezzo alle case, ci passasse la luce; il sole per giunta, pareva tutta una finzione.

Dovette per forza accendersi un’altra sigaretta.

“Kevin, ma quante n’hai fumate?!”

Eh no. Eh no…

Se c’era una cosa che proprio non gli sia doveva dire era cosa fare o non fare; o cosa aveva fatto.

Eh no, eh no!

Gli venne quasi da allungargli una ciaffata su quella guancia senza peli, poi gli si mossero a pietà le budella, per via che era un ragazzino. Era stato giovane anche lui. Meno cretino di lui, ma i ragazzi di oggi non hanno ricevuto l’educazione giusta per stare al mondo.

“Luciano, Luciano…” disse. E bastò così.

Luciano aveva fatto tre anni di scuola professionale. Sembrava scemo, ma non era. Capì al volo che era bene si facesse gli affari suoi e che a lui, che poteva essere giusto suo padre, se avesse scopato da bischero a diciott’anni; a lui, Kevin Andreini, certe cose non si doveva permettere di dirgliele.

Era un ragazzotto intelligente, intendeva al volo quando c’aveva da smettere.

“E fuma, fuma, dai, scherzavo”. Ridisse infatti.

Finì presto lo shock romantico verso il cono d’ombra tra le due case a ics. All’improvviso, come richiamati dalla casa vuota, si voltarono dalla finestra, verso quella che doveva essere stata una sala da pranzo.

Come non l’avessero mai fatto. Erano appena arrivati, gli mancava ancora tutto. Quel casino di scatole e di mobili, ancora da smontare, li fissava zitto, fermo, vuoto, come fa un handicappato quando te lo ritrovi davanti e tu sei normale.

Kevin pesticciò di nuovo sul grès il mozzicone; il tabacco si sparse, da tanto che era forte di polpacci. Ormai il pavimento era pieno, pareva una lastra di marmo sporca di matita. Gli tornò un poco duro, ma poco. Allora si mise la mano in tasca per levarselo da lì, caso mai quel ragazzino ci buttasse l’occhio. E poi l’uccello sul costato della cucitura non lo sopportava. Ce l’aveva così grosso che bisognava se lo aggiustasse spesso. Era un problema.

Cioè, era un problema in quei frangenti di lavoro. Per il resto è ovvio che non era un problema.

“Bimbo, l’armadio smontalo tu, io parto dalla cucina”.

Kevin era il capo.

“Ok”.

Luciano ubbidiva.

Stava per dire: “ok capo”, lo pensò e basta.

Quella ditta di traslochi del Marcheschi, il padrone, anzi, quel coglione pieno di corna, con la moglie troia, aveva fatto un mucchio di soldi con la crisi economica. Il Marcheschi, gran cornuto, se la girava per Cascina con una Lamborghini senza tettuccio. Se la Madonna fosse stata meno mignotta, anche a lui qualche possibilità gliel’avrebbe offerta. Invece gli toccava spaccarsi la schiena nelle case, mentre la moglie del Marcheschi lo prendeva in bocca tutto il giorno e il marito, almeno speriamo, andava a puttane.

Fosse stato pure finocchio, al Marcheschi, gli sarebbero rimasti solo i soldi. Ci sta pure, che gli garbassero gli uomini: i ricchi non hanno regole.

Ci rise.

Perlomeno il Marcheschi lo avrebbe preso in culo più di lui e di quel povero giovanotto di Luciano.

Rise di nuovo.

Le sue battute erano fini.

Kevin si spaccava la schiena per il Marcheschi da quando aveva poco più di vent’anni: traslochi su traslochi, pacchi, scale, funi, bolle, fatture, gente col muso, sportelli che gli erano cascati in testa, tonfi sui piedi, infortuni durati un giorno e il giorno dopo di nuovo a smontare e rimontare.

Ogni tanto, se gli veniva in mente una battuta delle sue gli saliva il baffo a destra. Così come suo padre, quel grande puttaniere, anche lui aveva il solito ghigno.

Stette attento alla figura di merda, perché non era solo. I traslochi si fanno sempre in due e non si poteva mettere a ridere da solo di fronte a questo ragazzo.

Nelle case dove andava a fare i traslochi o c’erano i proprietari tra i piedi oppure, se erano vuote come stavolta, sentiva i fantasmi, la gente che c’aveva abitato. Kevin aveva il sesto senso. Li sentiva girare per le stanze: “salve!” “Devo andare al lavoro!” “Mamma vieni!” “Passami il sale”; tutte queste frasi fatte, qualcuno, almeno una volta l’avrà pure dette.

Ormai era esperto. Sapeva riconoscere chi c’aveva abitato in meno di dieci secondi.

Più o meno, nelle case con due camere c’erano sempre dei figlioli. Sicché una mamma ci stava sempre, a meno non ci fosse stata una disgrazia. Poi, il sale, c’è sempre. Lavorare si lavora quasi sempre. La gente che aveva abitato le case diceva più o meno sempre le stesse cose.

A seconda della situazione dei mobili, dei pavimenti e, soprattutto dei muri, capiva al volo anche il tipo di persone che c’aveva abitato: ricchi, poveracci, sudici, gente ammodo o comunisti.

Gli toccò appicciare un’altra sigaretta.

Anche solo per un attimo, il pensare ai comunisti, gli prudeva dappertutto.

Dopo codesta sigaretta avrebbe cominciato a lavorare. Via, su, oggi era meno incazzato del solito. Era ben disposto.

Questa era una casa con poca roba, tutto sommato. Allora, gli venne in mente di sfruttarla, questa casa, per passare un po’ di mestiere a quel ragazzo. Unire l’utile al dilettevole. Fare un’opera di bene.

Ma come avrebbe fatto quel povero ragazzo, senza uno come lui che ci si perdesse un po’…

Kevin sapeva di avere un cuore più di una femmina, a volte. È che in fondo gli faceva pena: pareva rintontito, quel ragazzo.

“Aiutami bimbo via, su, viemmi a aiuta’!”

Kevin lo chiamò di là.

Luciano lasciò a metà l’armadio e andò di là a smontare la cucina.

Ma quanto aveva ragione Kevin…

“Questa cucina è una cucina bona”. Disse a voce alta, mentre staccava la base di ferro laccato e già dai gambi s’era capito che era una cucina da minimo cinque mila euro, o anche di più. “Vieni a vedè bimbo! Vieni!” Chiamò quel ragazzo perché imparasse. “Vedi bimbo, quando ci sono gambi così, col pezzo sotto” gli prese il dito, grasso sulle nocche, per fargli toccare il gambo con le sue mani: “senti bimbo? Senti questo materiale qua? Non è di Mondo Convenienza. Questo qui, se ci tiri una martellata o se passano vent’anni, ma anche cinquanta, non s’arruginisce, non si piega, non cambia. Per fa’ questo mestiere devi impara’ a vede’ le cose. Le cose bone e le cose meno bone”.

Luciano sporgeva il labbro inferiore con la bocca appena aperta. Se non fossero stati lui e Kevin, se non fossero state le sei di mattina, se non fossero stati in quella casa della Via Amendola e…se qualcuno lo avesse visto con la bocca all’aria in quel modo, poteva pure farsi un mezzo pensiero che stesse aspettando un bacio con la lingua.

Luciano era quasi felice di andare al lavoro. Quasi…perché la sera era troncato e gli toccava dormire col Brufen. Felice, perché con uno come Kevin gli pareva di aver ritrovato il suo babbo.

Non l’aveva mai conosciuto il suo babbo. Purtroppo la mamma gli aveva confessato la verità: era figlio d’una scopata a caso. Però amen. Era stato bene anche senza.

Quanto imparava da Kevin! Lui aveva pazienza, gli interessava davvero che capisse.

“Leva i cosi, su!”

Kevin indicò col mento i cosi.

Si girò per aspettare cosa doveva levare, la fine del discorso.

“Moviti bimbo, dai, che a mezzogiorno c’ho mangiare pronto”.

Kevin s’era accesso un’altra sigaretta e con la schiena dritta, i capelli vuoti nel centro, scrutava l’orizzonte.

Pareva il capitano d’una nave.

Luciano aspettava carponi, guardava i gambi della cucina, guardava sopra, i cassetti ancora incastrati, i pensili, l’acquaio, e sperava di capire al volo cosa fossero i cosi. Gli tremava la pancia, a stare giù, gli tornava a gola il caffellatte. Cosa erano i cosi? Era consapevole che se Kevin non parlava anche lui doveva stare zitto.

Doveva fare bella figura e capire subito.

Ma non aveva capito.

Inarcando la schiena a gatto entrò sotto la cucina, acciuffando la polvere tra le dita. Fossero stati lì sotto i cosi?

“Ma che cazzo fai??”

La voce di Kevin gli arrivò dal culo, come un tuono. E dal nervoso picchiò la testa sul sotto della cucina e starnutì e starnutì uscendo fuori del tutto.

“Mah che cercavi?”

Kevin non era incazzato. Per fortuna.

“Mmh…Mmh…” si fece venire in mente qualcosa di svelto: “m’era parso di ave’ visto un anello”.

La piega lunga del baffo di Kevin lo ripagò più di una sega.

“Sei un ragazzo d’oro, Lucià”.

Se Kevin gli faceva un complimento gli pareva che il suo babbo fosse in vita, che lo avesse portato alle giostre come quell’altri babbi, che lo avesse imparato sulla bicicletta senza pedali, che lo avesse portato la prima volta a Migliarino, alla Costanza. Sì, che, suo padre, ce lo avesse portato con la macchina, alla Costanza, che lo avesse aspettato al benzinaio, orgoglioso, mentre quel trans gli faceva il suo primo pompino.

Ci sono cose che solo un padre può apprezzare.

“Leva i cosi dagli sportelli e mettili qui”.

Adesso era finalmente tutto più chiaro.

Luciano prese il cacciavite per smontarli ammodo ma sentì da dietro il polso bloccato.

“Oh sei grullo?” Gli sputacchiò il fiato di fumo nell’orecchio. Era Kevin.

“Fai così, guarda me bimbo!” e iniziò a stringere e a girare le viti con due dita come avesse uno svitatore in mano. “Che portento” gli venne da pensare e rimase incantato, sempre con la solita bocca a pesce. “Vedi bimbo, i cacciaviti gli usano le fie o i vecchi. Te sei un omo, come me. Lo devi fa’ con i diti”. E durante parlava, svitava in modo impressionante tutta la cerniera e poi quell’altra e, se non avesse avuto da perdere tempo con lui, di certo avrebbe svitato tutta la cucina in meno di un battibaleno.

Gli venne in mente che invece la sua era proprio fortuna: lavorare con una persona del genere, un uomo come Kevin, era più che andare a scuola. Da quell’uomo avrebbe preso il mestiere, la vita. A quell’uomo, doveva la vita.

“Metti i pezzi di legno di qua e le viti lì dentro il sacchetto. Poi il sopra, mettilo sopra. Così, quando si rimonta, si sa subito dove deve anda’ e ‘un si diventa matti. Sai figliolo quanti ne ho fatti, io…!”

Fece perfetto tutto quello che Kevin gli aveva detto. In un venti minuti, in due, smontarono tutta la cucina.

Poi, mentre Kevin fumava la sigaretta, si mise a guardare fuori.

Il sole finalmente era salito. La nebbia scomparsa in tutta la strada. Le voci dei bambini dei piani sotto si preparavano per la scuola. Erano già quasi le otto.

S’inumidì la guancia con una mezza lacrima. Ma immediatamente col dorso del braccio fece per asciugarsi.

Gli tornava in mente quando era piccino, che sua mamma cucinava il toast con la sottiletta per colazione. L’odore. Sentiva proprio l’odore del formaggio fuso che era colato nel tostapane, oltre le gratelle. Sentì il sapore tondo e salato. S’immagino la polverina bruciata sulle righe. Sentì le bestemmie della sua mamma imprecare: “e ora come ci pulisco dentro, Dio di un…”. Ma non lo ripetè. Manco nella testa.

Era peccato e lui c’aveva da lavorare.

Dopo la cucina c’era da fare l’armadio nella camera grande e quello della camera piccola. Poi, smontare i sanitari, qualche altra piccola cosa, e poi: fine.

Gli dispiaceva che Kevin andasse sempre a pranzo a casa. Lui avrebbe mangiato un panino qui. Un’oretta di buco e poi c’era da caricare e portare tutto nella casa nuova.

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1 commento

  1. Mi è piaciuto perché è come un piccolo dipinto di un interno modesto semivuoto arredato da parole d’un basso tosco che vanno via belle lucide sputate da un Kevin che diventa persino simpatico. Gran buon lavoro.

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Lisa Ginzburg ha scritto i romanzi Desiderava la bufera (Feltrinelli 2002), Per amore (Marsilio 2016, Au pays qui te ressemble, Verdier 2019), Cara pace (Ponte alle Grazie 2020, candidato al Premio Strega), le raccolte di racconti Colpi d'ala (Feltrinelli 2006, Premio Teramo 2007) e Spietati i mansueti (Gaffi 2016, Premio Renato Fucini 2017), i mémoir Malìa Bahia (Laterza 2007), Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italo Svevo 2017) e Pura invenzione. Dodici variazioni su Frankenstein di Mary Shelley (Marsilio 2018). Collabora con Avvenire.
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