Maurizio Salabelle: «da quando sono nato»

di Elena Frontaloni

Patrizio Rhuggi nasce otto giorni dopo un dissesto finanziario della sua famiglia (perdita di duemilioni) e sin da giovane è perseguitato dai numeri e molto attento al loro potere. A un certo punto scopre di saper misurare a occhio, senza strumenti e con precisione, tutti gli oggetti. Perde per qualche motivo questa straordinaria competenza, quindi perde il padre. Con metodo, fidando su dati e incrocio dei medesimi, si dedica alla scrittura di voluminosi trattati sulle probabilità degli accadimenti e sulla possibilità di cambiare la vita delle persone con minime «introduzioni» di oggetti o fatti perturbanti («molecole», le chiama lui). Fallisce puntualmente anche qui, ogni volta, dopo aleatori successi, e ogni volta dopo anni di studio e successivi investimenti automobilistici e disastri ferroviari che colpiscono altri personaggi. Questo accade perché forse numeri e fisica sono più legati al caso che alla probabilità, ma anche perché Rhuggi è il protagonista di un romanzo di Maurizio Salabelle (1959-2003), scrittore che ha popolato tutti i suoi libri di indimenticabili falliti, ogni volta diversi e sorprendenti: «perseguono uno scopo il cui fine ultimo è il fallimento. Hanno il coraggio di perseguire il loro fine pur sapendo che falliranno, quindi sono personaggi a cui va tutta la mia stima», scrive l’autore.

Questo romanzo, da poco in libreria per Quodlibet col titolo Da Quando sono nato, doveva per la precisione essere il terzo libro, edito solo adesso nella sua forma integrale (alcuni passaggi vennero pubblicati su «Riga» e «Il Semplice» negli anni Novanta), di una trilogia ispirata agli iperbolici progetti di Pinocchio, altro personaggio piuttosto incline al fallimento per gigantismo di buoni propositi e mancato adeguamento, per candore, alle attese sociali e familiari: «Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro a fare i numeri». Se l’esordio narrativo di Salabelle, Un assistente inaffidabile (1992), e il secondo libro Il mio unico amico (1994) erano dedicati al leggere e allo scrivere, Quando sono nato, composto tra il 1994 e il 1995, ha come centro d’attenzione il «fare i numeri». Il punto di partenza e la parabola del progetto sono oggi tutti in chiaro (sono tre storie di tre personaggi che non vendono l’abbecedario, e tuttavia poco lo leggono e tuttavia vanno a vedere che succede, mostrandosi alla fine con la stessa faccia di legno di Pinocchio prima della metamorfosi), ed esistono anche umoristici sottili legami tra i tre romanzi (per restare a un dato numerico, sono tutti di otto capitoli). Ma ad accomunare i tre testi c’è soprattutto la smagliante singolarità di Maurizio Salabelle, che è fatta di due ante o sportelli: da un lato la riconoscibilità di visione e di voce, dunque di stile, e dall’altra una sostanziale appartatezza e non regimentabilità a padrinobili, correnti, scuole e movimenti, che peraltro sono dispositivi utili a pasticciare i testi più che a scriverli e leggerli davvero (ne parlò Salabelle stesso con umoristico orrore in una «lamentazione» dedicata alle Materie letterarie insegnate a scuola su «Il Semplice», n. 2, 1996

Salabelle ha dei punti di riferimento letterari (Tozzi, Flaubert, Manganelli, Svevo, Walser, Perec, Bernhard, Mastronardi), ha dialogato con molti tra i contemporanei (Tondelli, Pontiggia, Belpoliti, Cavazzoni – che fece pubblicare e ancora continua a far pubblicare le sue scritture, accompagnandole con contributi che rappresentano puntualmente la migliore chiave d’accesso a questo autore e ai suoi libri: la quarta di Da quando sono nato è tra questi; ma non è appartenuto a nessuna «scuola» e non ha indossato manieristicamente la lingua dei suoi autori amati, peraltro tra loro molto dissimili (ne ha parlato con accuratezza Michele Farina), per superare la vergogna dello scrivere e del pubblicare che pure lo abitava, e che spesso produce, anche in grandi autori, l’indossare movenze stilistiche già altrui. Se ha ripreso degli atteggiamenti da tendenze letterarie dei suoi tempi e di quelli passati, Salabelle lo ha fatto in modo assai personale e sostanzialmente per trattenerli, scherzarci sopra e metterli in crisi, come in questo Da quando sono nato dove, in una sorta di avveduta parodia musiliana, la presenza ingombrante di numeri, calcolo delle probabilità, aggiornamento alle scoperte della fisica è comica proprio perché non fornisce propulsione alla materia narrativa, ma viene sormontata dalla materia narrativa stessa in un testo sghembo e sorprendente, dedicato alla non consequenzialità tra causa e effetto come pensati dalla mente umana, all’eccezione piuttosto che alla regola, picaresco in ogni pagina seppur impostato come racconto di una vita, forse tra i più generosi e meno prevedibili della sua fantasia.

Questa fantasia a sua volta sembra avere dei tratti specifici, che rimontano all’interesse per ingranaggi e funzionamenti delle cose e a un atteggiamento antidittatoriale nei confronti del lettore, cui Salabelle consegna libri che si possono leggere a più livelli e, si potrebbe dire, con più espressioni facciali («mi sono reso conto che i miei libri potevano essere definiti “comici” o “umoristici” solo quando sono stati letti da qualcuno che mi ha poi detto di essersi divertito», scrisse nel 2000 sull’«Indice dei libri del mese»). Questi libri di Salabelle, stando alle sorridenti dichiarazioni dell’autore stesso, si possono usare in alcuni modi diversi e si possono anche rompere, in quanto sono prima di tutto, se mai lo si dimenticasse, oggetti, e hanno come gli oggetti un proprio meccanismo e un destino che dipende anche da chi li adopera o li tiene con sé. Per quanto riguarda lo scrittore, si tratterà senz’altro di un qualcuno che, nella visione di Salabelle, compie un gesto artigianale, al fondo del quale c’è però un grado di inconsapevolezza che rende l’oggetto-libro una macchina con qualcosa di misterioso, perché imperfetto e delicato, dentro, in parte sconosciuto allo stesso autore, da maneggiare con una certa cura e cautela da parte di tutti  se non lo si vuole ridurre in mille pezzi. A tale proposito, quando si parla dei testi di Salabelle è sempre utile citare una sua prosa (sta nella specie Discorsi di metodo ancora del «Semplice», 3, 1996), in cui paragona la Scatola di Minsky a un romanzo e anzi arriva a dire che la scatola di Minsky è un romanzo, mentre il romanzo è una scatola di Minsky meno perfetta, anche se più affascinante, di cui si può conoscere solo il fuori: «è dotata di un meccanismo interno che non si vede, ma che è indispensabile al suo funzionamento; non ha alcuna utilità, non serve a niente, ma esiste lo stesso; non permette di essere aperta perché si rovinerebbe; è autosufficiente, slegata dal mondo: non parla di ciò che le succede intorno e non ne è turbata. Come un romanzo, è strapiena di rotelle, ingranaggi, motori che, invisibilmente, girano e girano per farla andare. L’unica differenza è questa: mentre il costruttore della scatola conosce il funzionamento del meccanismo che la fa funzionare, sa dove sistemare questa o quella rotellina, l’autore di un romanzo è a conoscenza solo di ciò che appare in superficie. Addirittura, per chi sa che fenomeno, ignora l’esistenza di numerosi pistoni e cilindri che lui stesso ha messo in moto, e che sono nascosti all’interno del testo. Ma ciò, facendola restare sconosciuta, rende ancora più affascinante la letteratura. I libri che vale la pena leggere non sono quelli “ancora attuali” o che “parlano di noi”: sono quelli che hanno il meccanismo più ricco, più complesso, misterioso e il cui funzionamento appare più semplice. L’unico modo per cercare di scoprirne il segreto è accostare le loro copertine all’orecchio e ascoltare il ronzio delle parti in movimento».

Questo scritto molto citato, che è forse più un racconto con larghi elementi antifrastici che un autocommento, ha molti aspetti liberatori e istruttivi. Un elemento è quello della «semplicità» che risulta dal meccanismo complesso e della «superficie», di quel che accade nei libri di Salabelle: questa fedeltà alla superficie è il motivo per cui tutti i suoi romanzi, evitando di psicologizzare e approfondire in maniera arbitraria o tirannica le motivazioni dei personaggi, contengono una valanga di situazioni non sviluppate e anche per questo comiche, allegre e agghiaccianti insieme: «Patrizio aspettò il momento di andar dentro osservando una gabbia di alluminio di un signore maturo vicino a sé. All’interno c’era un piccolissimo canarino con un’ala tinta di viola, e con un pezzetto di fil di ferro assicurato al collo con vari nodi. Attaccato ad esso c’era un microfono di plastica a cui l’animale così bardato non sembrava far caso minimamente. Il suo proprietario aveva l’aspetto di un bamboccio e per quasi tre ore non mosse un muscolo». Da queste righe appena citate, si potrebbe anche ricavare dell’altro sulla ricca meccanica dei romanzi di Salabelle, che sfocia in un funzionamento semplice: i suoi personaggi, oltre ad essere dei falliti, sono macchine assemblate come esseri umani in tutto e per tutto, ma che per così dire non siano state adeguatamente «messe a punto» (la copertina di Da quando sono nato è uno schema molto esatto di tutti personaggi di Salabelle, tra volumi geometrici e sproporzione): hanno funzioni ed emozioni – sudano («grandi sudate» era una delle «specie» delle prose ospitate dal «Semplice»), camminano, si arrabbiano, sorridono, si ammalano – ma le esercitano in maniera non contestuale, sono sempre lievemente fuori registro rispetto alle attese del lettore, come umanoidi, automi disfunzionali: si leggano a tal proposito le pagine in cui Patrizio diventa un estraneo in casa propria perché disoccupato e impassibilmente si dà del «lei» con i genitori che progettano un omicidio-suicidio, o i tanti momenti in cui i personaggi «urlano» battute: soprattutto nelle frasi di cortesia. La meccanica del romanzo di Salabelle sfocia spesso in una dimensione di smascheramento della recita sociale ed è insieme fortemente visiva: non a caso per figurare la sua prosa e i suoi personaggi sono stati fatti i nomi di Buster Keaton, di Jacovitti, e si potrebbe anche pensare al Rinascimento ferrarese, Del Cossa e de’ Roberti, per esempio. Le scenografie, i luoghi, sono chiusi e meno spesso aperti: quelli chiusi presentano geometrie imperfette, quelli aperti si vedono male e incertamente, come se chi racconta fosse afflitto o incuriosito dalle meraviglie della miopia; in quelli chiusi dominano colori netti, fintamente naturali (il verde il marrone e il color cuoio ricorrono con molta frequenza) mentre il resto tende al grigio; oggetti e mobili appaiono, puntualmente col loro complemento di materia, tanto meglio se vile o all’opposto di una nobiltà posticcia (di plastica, di formica, di truciolato, in palissandro, in mogano), e sono invariabilmente scomodi, in bilico e fuori posto, perché lerci, rivestiti di giornali o di un design di bassa lega che volontaristicamente punterebbe a una funzionalità ma li rende oggettivamente disutili e brutti, sia che appartengano a gente ridotta in miseria dal capitale o ad arricchiti («all’interno c’erano un baule pieno di cartaccia, dei comò di legno verde ridipinti più volte dal padre, alcuni letti di alluminio ed una grande quantità di scatole senza fondo»; «abitava in un appartamento arredato con armadi di mogano, possedeva una spider lucidissima e si nutriva di cibi sofisticati»). 

Da quando sono nato, come tutti i libri di Salabelle, racconta eventi maiuscoli (morti in fabbrica, conflitti mondiali sventati, delicate questioni di commercio intercontinentale, gravi malattie sconosciute alla letteratura medica), ma lo fa attivando chiavi di presentazione minuscole e all’apparenza spaesate o di volontaristica recita: nomi fumettistici e spostamenti di lettere a creare disagio rispetto a dimensioni e verità delle storie, in un impagabile sintesi tra film di spionaggio di cassetta, Star Trek e Beckett («Sono l’Agente Internazionale Per La Sicurezza Politica Evandro Atos. Ho 52 anni ed un mese e lavoro alla commissione “Precauzioni” da quando ne avevo 28. Esattamente due mesi fa […] sono stato incaricato di contattarla per cercare di evitare un conflitto mondiale che, secondo gli scienziati dell’A.I.P.L.S.P., ha il 79,9 probabilità su cento di verificarsi»). Gli sberleffi composti e continui alla lingua d’uso e letteraria, ai luoghi noti e più nuovi della prosa d’invenzione, vanno dall’uso della «d» eufonica in contesti impropri, al mescolamento tra sciatterie di comunicazione e linguaggi settoriali (il reparto «senza speranza» della clinica del dottor Avendo; uno stato di Coma specifico è il «semipietoso»), alla parodia di un patto narrativo con cui prende avvio il libro e al suo finale che richiede (se vuole) l’attivazione del lettore. Per dire solo del patto narrativo iniziale, la storia di Patrizio Rhuggi è raccontata da B.U., Brendano Ugo (quale il nome? quale il cognome?), zio del protagonista, che parla di sé come «lo zio di Patrizio», in terza persona, e narra la vicenda di Patrizio («mio nipote») sulla base di fonti orali e scritte forse poco raccomandabili, forse tra le più adatte a dire il vero su qualcuno: lontanissimi parenti dell’uomo, un miliardario, gente che lo vide un paio di volte per strada, gente a cui doveva delle forti somme; per i punti più oscuri Brendano Ugo si è servito da «articoli di rivista» e «qualche dimenticato giornale radio». Brendano Ugo ha peraltro chiesto delle consulenze a un industriale su due aspetti: «l’esattezza dei miei calcoli», la «sostituzione di alcuni periodi» e la correzione della sintassi laddove fosse troppo «aggrovigliata». Così che il nitore antisperimentale e disagiante, spesso accecante, della prosa di Salabelle, risulta, dalle premesse a Da quando sono nato, come frutto di una collaborazione equivoca tra uno zio un po’ magico, piuttosto malato e alquanto traffichino (prende moltissime pasticche, cancella zeri per ridimensionare i debiti), e un editor non professionista ma consapevole (i calcoli, anche quello che riguarda la storia del fumatore di 328 sigarette ogni giorno, risultano esatti). Sono rischi che solo un grande scrittore si prende la briga di correre all’inizio di un proprio libro. Come è rischio da grande scrittore quello, costante in questo libro di Salabelle e in tutti i suoi altri, di scrivere d’automi, scenari di cartapesta, avventure improbabili, anziché di uomini in carne ed ossa e temi «che ci riguardano», «che parlano di noi». Con l’effetto di portare chi legge a ridere (se vuole e se ci riesce) ma anche (se vuole e se ci riesce) a guardarsi come in uno specchio, per scoprire magari di avere più cose in comune con Patrizio Rhuggi che con l’uomo vitruviano. 

Questo pezzo è per Ariel, in attesa di adozione al Rifugio del Cane di Pistoia. Per saperne di più: https://www.enpapistoia.it/?p=1725. Per conoscerla: Pistoia@enpa.org o 0573400413

 

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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